martedì 1 gennaio 2019

Il racconto della strage dei soldati francesi a Coreno nel marzo del 1799.

   Il racconto che vi accingete a leggere non è tutto falso, nel senso che non è tutto inventato e, quindi, frutto della mia fantasia; alcuni spunti, infatti, sono veri, ed hanno precisi riferimenti storici a fatti, a nomi, a relativi personaggi realmente esistiti. Ma non è nemmeno tutto vero, nel senso che nella sua costruzione ho fatto lavorare, oltre che la mera documentazione, anche una fervida fantasia. Il racconto, quindi, se da una parte può considerarsi come una buona metà del frutto maturo di una semplice appassionata - seppure, per certi versi, disordinata e abrupta - ricerca storica; dall'altra - la metà restante del pomo - si deve considerare come la mia schietta invenzione personale usata da collante per le notizie storiche che avevo attinte e messe assieme.



   Quella mattina presto, quando il vecchio prete Don Giovanni Di Siena fu svegliato all'improvviso dalla fedele perpetua Sandella, non era ancora scoccata l'ora del lupo: l'ora nella quale la maggior parte delle persone nasce o muore, l'ora delle paure più ancestrali, l'ora che succede immediatamente alla notte più buia e che precede l'alba, ma quando la luna non è ancora tramontata e il sole non è ancora spuntato in cielo. E di certo, quel prete di campagna, uno dei dieci preti che risiedevano contemporaneamente nel piccolo villaggio tra le montagne, con dodici tra chiese e cappelle, non poteva nemmeno lontanamente immaginare quello che sarebbe successo nel corso di quella giornata appena iniziata con la chiamata urgente di una estrema unzione. Cose così straordinarie e importanti che gli abitanti di Coreno avrebbero letto più di cento anni dopo solo nei libri di storia. "Tanti giorni, tante ore, per morire nella grazia di Dio e quel vecchio pazzo ultraottantenne di Salvatore il cositore proprio oggi doveva scegliere per andarsene?" Aveva pensato Don Giovanni. Ma lui, così ligio al dovere e al suo ufficio, non aveva mai pensato di declinare il gentile invito del figlio a raggiungere al più presto la loro casa, anzi, avrebbe passato le Alpi camminando sulle ginocchia pur di arrivare prima della comare secca; pur di raggiungere in tempo il capezzale e benedire il vecchio morente prima che esalasse l'ultimo respiro. Quando la fedele perpetua Sandella gli aveva portato nel letto la notizia della chiamata urgente Don Giovanni non era ancora arrivato al terzo sonno. La donna, che stava con lui da quando, appena uscito dal seminario, era stato nominato dal Vescovo di Gaeta, una trentina d'anni prima, era entrata come una Erinni nella sua stanza, quasi aveva sfondato la porta con una spallata, con addosso il pesante scialle di lana che non si toglieva mai - nemmeno d'estate - e la candela in mano, e lo aveva quasi scaraventato giù dal letto dandogli una delle sue poderose smanacciate sulle spalle. La stessa identica energia con la quale smanacciava nella vecchia madre di legno l'impasto del pane che almeno una volta a settimana faceva in casa, da almeno cinquant'anni. Si era solo sincerata che il pitale per la notte non fosse da svuotare poi, come se niente fosse successo, ma solo quando fu sicura di averlo svegliato definitivamente, perché lo aveva visto seduto sul letto a stropicciarsi gli occhi con entrambe le mani, era scesa, borbottando, al piano di sotto, per accendere la cucina a legna, per fare il caffè e per scaldare il latte: sapeva bene che il suo Don Giovanni, per nessuna ragione al mondo, sarebbe uscito di casa senza aver prima consumato una robusta colazione contadina - come la chiamava lui. Una zuppa di latte gigantesca che lei gli serviva da anni nella stessa insalatiera piccola e sbreccata e che consisteva in un mezzo litro di latte abbondante e fumante, appena sporcato da un goccio di caffè nero caldo, e due o tre spesse fette di pane, praticamente, una mezza pagnotta di pane casareccio tuffata dentro a spugnare lentamente. Un paio di cucchiaiate piene piene di miele di carrubo, del quale andava pazzo, ben sciolte e il prete sarebbe stato bene fino al lontanissimo pranzo di mezzogiorno. Non era ancora passata mezz'ora dalla chiamata e lui era già pronto ad uscire. Per non perdere il vizio aveva anche trovato il tempo di dire due o tre preghiere del mattino. Invece, non aveva trovato il tempo, né la voglia, di farsi la barba. Non ci pensava nemmeno di radersi alle quattro del mattino e per giunta in pieno inverno. Eppoi era diventato un suo piccolo vezzo: d'inverno amava portare la barba lunga di tre giorni. Ogni tre giorni l'accorciava con la forbice affilata che il barbiere Angelo Farina gli aveva regalato, appena arrivato in paese, insieme a un altrettanto affilato e prezioso rasoio col manico d'osso vero. Poi, quando l'aria cominciava a scaldarsi, in primavera inoltrata, ricominciava a radersi, provando un vero piacere fisico. Uno dei pochi. Dopo aver fatto colazione, rifocillato per bene, Don Giovanni era sceso fino al portone, aveva tolto la pesante sbarra di ferro e, girando il chiavistello, l'aveva aperto. Come era solito fare, prima di uscire, si era fermato un momento e si era affacciato sull'uscio della canonica che dava sulla stradina in discesa che separava la chiesa e la canonica dalla piazza principale del paese, guardando prima a destra e poi a sinistra. L'alba non era ancora spuntata e non sapeva se quel giorno avesse visto in cielo un timido sole; la luce dell'unica lampada a olio accesa in piazza era scarsa e lui non era riuscito a vedere niente. Ma tanto non c'era niente da vedere, là fuori. Ma tanto nemmeno s'aspettava di vedere qualcosa. Era solo un'abitudine innocua benché inveterata.

   Era una mattina presto di un giorno della metà di marzo dell'Anno Domini 1799, faceva molto freddo e la neve aveva continuato a cadere copiosa durante tu bianca bianca, fitta fitta, che in qualche ora aveva coperto tutto e si era perfino attaccata ai muri e alle finestre, smossa e mulinata, quand'era ancora in aria, da una tramontana, che al paese, in quel periodo dell'anno era di casa, ogni santo giorno. Poi, all'improvviso, era cessata, ma qualche fiocco ghiacciato continuava a cadere, anzi a muoversi in orizzontale, spinto velocemente da folate di vento freddo. Una delle tante folate di vento ghiacciato che scendeva da Costamagni colpì il vecchio prete Don Giovanni Di Siena in pieno volto come un pugno di ferro. Gli fece quasi male fisicamente. La sua faccia sembrava improvvisamente trasformata in un puntaspilli, tempestata com'era di minuscole punture ghiacciate. Il vento gelido gli frustava le guance e gli trafiggeva le pupille; l'odore ferroso del freddo gli bruciava le narici ad ogni respiro; lui, per tutta risposta, chiamato dal suo ufficio ineludibile, chiuse intrepido la bocca, strizzò gli occhi, si alzò per bene il lungo bavero del tabarro, dentro al quale si era avvolto, arrotolandoselo addosso un paio di volte, si appiattì per bene, con due colpi ben assestati del palmo aperto sulla testa, il cappellaccio di feltro a falde larghe dal quale non si separava mai quando usciva fuori d'inverno e scese i tre gradini tre che lo separavano dalla strada. S'incamminò, finalmente, attraversando veloce la piazza. E sparì subito nel buio pesto che l'attendeva nello stretto Vicolo delle Carceri, vicino alla Casa della Corte, oggi Casa Comunale; già casa Petricone Diomede, ora casa Di Massa. La casa dove era nato, dove abitava, dove aveva sempre lavorato, e dove sarebbe morto Salvatore il cositore stava in salita, in un vicolo stretto, appena passato, sulla destra, l'Arco dei Carpentieri. In tutto distava un centinaio di metri dalla canonica. Ma in quella notte buia, con quel tempo da lupi e con quel freddo a Don Giovanni quei cento metri erano sembrati un centinaio di chilometri. Li aveva percorsi non perfettamente dritto, ma praticamente piegato in avanti, quasi a metà, andando faticosamente controvento e quasi in apnea. Calpestando il tappeto soffice della neve che stava già trasformandosi in ghiaccio. Se poi, al già tragico rito dell'estrema unzione, per il quale era stato chiamato e che lo attendeva, avesse aggiunto i pessimi auspici che tutti avevano tratto dall'eclissi solare del 11 febbraio appena passato, le allarmanti notizie riguardanti le truppe francesi ormai allo sbando che sciamavano per tutta l'Alta Terra di Lavoro facendo il bello e il cattivo tempo e, per finire, il retrogusto amarognolo di un cattivo presentimento che aveva in bocca da quando era stato svegliato di soprassalto la mattina presto, il quadro nefasto di quella giornata appena iniziata sarebbe stato completo. Se tutto fosse andato bene comunque si sarebbe conclusa con un funerale - pensò il prete. Se tutto fosse andato male chissà cosa sarebbe potuto succedere. E un attimo dopo si trovò davanti la porta del povero Salvatore. Afferrò il batacchio di bronzo e, quasi per scrollarsi dalla mente quei brutti pensieri lo sbatté con forza due o tre volte. Assorto e infreddolito com'era non s'era nemmeno accorto che la porta era solo socchiusa e che l'ingresso e le scale erano rischiarate da una lampada ad olio lasciata lì per fargli luce. Ebbe appena il tempo per pensare a quanto premurosi e ossequiosi erano i suoi amati fedeli che fu raggiunto dal figlio di Salvatore, un trentenne robusto e irsuto che gli si parò davanti per prendergli il tabarro e accompagnarlo alla camera da letto dove giaceva il padre. Nello stesso momento in cui Don Giovanni si apprestava ad impartire il sacramento al moribondo, in quasi tutte le abitazioni dei tredici casali del paese i fuochi erano stati accesi, l'acqua calda sobbolliva già nei cocci e, per piccoli e grandi, s'improvvisava una parca colazione fatta di latte allungato con caffè d'orzo, accompagnato con qualche tozzo di pane raffermo. I più abbienti avrebbero aggiunto al primo e in qualche caso unico pasto caldo della giornata, anche qualche noce e qualche fico secco, presi dal fondo della grossa panca di legno di quercia che faceva anche da dispensa. I capifamiglia e i cinque eletti dal popolo alla carica di amministratori, dopo che Antonio De Gori, sindaco nel 1799, sarebbe decaduto dalla carica, si erano dati appuntamento di buon'ora, per le sei del mattino, alla taverna del Pipistrello. Ordine del giorno: discutere il da farsi dopo le notizie giunte, a tarda sera del giorno precedente, dalla vicina Castelforte. La ferale notizia, infatti, portata al galoppo da un abitante di Ventosa che aveva assistito da un'altura ai tafferugli avvenuti al centro del paese, consisteva nella rivolta scatenata dagli abitanti contro le truppe degli invasori francesi. Qualche centinaio di persone armate di forconi, badili, asce e falcioni, ne avevano malmenati e trucidati molti, mettendo in fuga i pochi che erano riusciti a salvarsi dal macello. Quello che restava del distaccamento francese si era faticosamente riunito in un casale disabitato nelle campagne della contrada Aurito, ad appena qualche chilometro da Coreno, e sarebbe sicuramente passato nelle vicinanze del paese o attraverso il centro per aggregarsi al comando francese di stanza ad Ausonia. Una compagnia di cinquanta soldati, esattamente quarantanove, malamente armati, benché stanchi, affamati e morti di freddo, di lì a poco sarebbe potuta sfilare lentamente attraverso il decumano principale del paese e, percorrendo la vecchia via delle Stramete, avrebbe tentato di raggiungere la vicina Ausonia. Da lì, unendosi a quello che rimaneva del potente esercito invasore francese, avrebbe cercato d'imbarcarsi e di tornare in Francia. Gli abitanti di Coreno, date le scarse simpatie provate per i francesi, specie dopo che Napoleone era tornato per insediarsi sul trono che era stato dei Borbone, si erano posti una domanda più che legittima; volevano meditare bene sul da farsi: vendicarsi delle vessazioni o costruire ponti d'oro ai soldati francesi? Far pagare care ai francesi le costrizioni generali, le leve continue e obbligatorie e tutte le altre imposizioni o accelerare la loro fuga? Di questo avrebbero animatamente discusso quella mattina presto. I primi ad arrivare alla taverna del Pipistrello, ch'era poco lontano dalla piazza e dal rione Pozzi, furono il sindaco del 1799 Antonio De Gori e quattro dei cinque consiglieri eletti per l'anno 1800 (uno di loro era lo stesso sindaco): Mattia Biagiotti, Angelo Ruggiero, Giuseppe La Valle e Francesco Di Vito. Poi, a mano a mano arrivarono i rappresentanti di tutte le famiglie, da tutti i tredici casali di Coreno: gli Vori, gli Onofri, gli Stavoli, i Rollagni, i Carelli, la Torre, i Curti, i Magni, i Pozzi, i Lormi, i Tucci, la Piazza, i Ranoccoli. Ad essi si sarebbero aggiunti, appena oltre l'orario dell'appuntamento, il medico, il notaro, i due giudici a contratto e lo speziale. E solo verso la fine dell'animata discussione anche Don Giovanni di Siena, ch'era stato avvertito dell'importante incontro dal figlio di Salvatore il cositore, prima di lasciare la casa del morituro. Il giovane, peraltro, mentre passava in extremis la notizia al prete, si era pure meravigliato che lo stesso non sapesse niente di quanto accadesse in paese in quelle ore e che non fosse stato invitato alla riunione strategica; ma gli era più che evidente il motivo per il quale né gli amministratori né i capifamiglia, né medico, né lo speziale e nemmeno il notaro avevano anche lontanamente accarezzata l'idea di avere il prete fra i piedi mentre discutevano fra loro quelle questioni: il giovane aveva ascoltato i sermoni del prete la domenica durante la messa cantata e da qualche anno, Don Giovanni Di Siena, praticamente da quando l'invasione francese era iniziata, non aveva fatto altro che, invitare i suoi concittadini alla calma e alla collaborazione con l'invasore, magari anche facendo buon viso a cattivo gioco, per evitare inutili violenze e anche per avere il tempo di vedere come si fosse messa la questione col Papa e coi Borbone. Una strategia doppiogiochista dettata, anzi suggerita in segreto, dalle alte sfere ecclesiastiche che evidentemente collideva con le intenzioni bellicose e tutt'altro che pacifiche dei concittadini di Coreno e degli altri paesi dell'Alta Terra di Lavoro. Il figlio di Salvatore il cositore aveva dato al prete, prima un po' d'acqua, poi la notizia esplosiva dell'assemblea pubblica ma segreta, poi una robusta sorsata di quella grappa aromatizzata al corniolo che producevano clandestinamente in famiglia e riservavano solo agli amici o alle persone importanti. Don Giovanni, a quel punto, aveva davanti solo due strade praticabili: una facile facile, l'altra molto difficile, anzi, difficilissima: andare a Gaeta, in udienza dal Vescovo, al quale avrebbe spifferato tutto ma, con quel tempaccio, ci avrebbe messo una giornata intera; o andare di corsa all'assemblea popolare e sperare di convincere quei testoni a non fare pazzie. Scelse la seconda alternativa, quella più difficile; Don Giovanni si precipitò sul posto, conquistò il centro dell'assemblea, prese la parola e levò alto il suo disappunto. Ma inutilmente, anche dopo la sua invettiva che, in certi passaggi, pareva quasi un anatema, una reprimenda, i concittadini bellicosi e determinati non cambiarono idea, avendo deciso quasi all'unanimità di vendicarsi dei francesi: li  avrebbero attesi e attaccati in località Fontanelle. Un vero e proprio agguato attendeva i malcapitati quarantanove soldati francesi, e quasi sicuramente la fine del loro percorso terreno. Non rimaneva che procurasi le armi, riunirsi in piazza, mandare un paio di vedette in osservazione e trasferirsi tra i cespugli della via delle Stramete per farla finita coi maledetti francesi. A pochi chilometri di distanza dal centro abitato di Coreno una compagnia di soldati francesi, anzi quello che ne restava, esattamente quarantanove, ridotti in brandelli dagli abitanti di Castelforte, mezzi nudi, morti di fame, di freddo e di stenti; feriti fisicamente e psicologicamente depressi, si erano da poco incamminati verso Coreno, raccolti in una mesta e silenziosa fila indiana; facevano a ritroso la strada che avevano percorso festanti e allegri solo qualche giorno prima. Calpestavano la neve fresca a passi lenti e cadenzati; chi con stivali sfondati, chi a piedi nudi. Avevano deciso di passare all'interno del centro abitato, invece di aggirarlo; avrebbero così evitato un percorso più accidentato; una lunga e più faticosa diaspora tra i campi e tra i boschi e tra le pietre. E confidavano pure che seppure avessero incontrato nei campi qualche contadino o anche cittadini di Coreno per la strada, al massimo quelli avrebbero potuto deriderli e offenderli; non avrebbero mai immaginato che la pacifica popolazione di Coreno potesse adire le vie di fatto, usando la violenza contro inermi e disarmati soldati in ritirata. Se fossero stati fortunati, con cinque o sei ore di cammino avrebbero raggiunto il distaccamento di Ausonia. E da lì, dopo qualche ora di riposo, avrebbero ripreso la marcia verso il porto più vicino dove si sarebbero imbarcati per la Francia. La brutta avventura sarebbe stata archiviata nel giro di qualche settimana. Intanto Michele Lavalle, la giovane sentinella appostata sulla collina dalle parti della contrada Poera; l'altra, un certo Pasquale Di Vito, anch'egli molto giovane e dalla buona vista, era stata piazzata più a valle su una piccola altura tra i boschi di Cannotteranea - aveva avvistato la piccola compagnia francese in lento avvicinamento. Quando fu sicuro di quello che aveva visto, si alzò immediatamente, balzando in piedi con la velocità di una molla, dal suo rifugio dietro a un grosso masso e correndo verso il tratturo prese la via per Coreno da sud-est. In poco più di cinque minuti - come il corridore di maratona - raggiunse la locanda del Pipistrello, il quartier generale dei rivoltosi. La movimentata ma assai breve assemblea cittadina si era conclusa col voto favorevole alla rappresaglia. Contrari erano stati solo il voto del consigliere Biagiotti, che aveva uno zio prete e il parere, benché favorevole senza espressione di voto e nemmeno richiesto, del prete della parrocchia di S. Margherita V.M.. I due erano stati i soli a lasciare la locanda, non senza un codazzo polemico e trascinandosi dietro una marea di insulti e di improperi da parte degli altri presenti che contavano su una unanimità piena. Gli altri quattro consiglieri erano rimasti; come erano rimasti i capifamiglia, i due giudici a contratto, e gli anziani. L'unico ch'era mancato era Salvatore il cositore, sul punto di andarsene dalla sera precedente. Ora non restava che tornare a casa velocemente, cercare ciascuno un'arma e radunarsi in piazza per poi prendere la strada delle Stramete e raggiungere il punto dell'agguato, alle Fontanelle. Quasi a metà strada tra Coreno e Ausonia. Tutto, qualsiasi arma, anche impropria, bastava che fosse da taglio o contundente, avrebbe fatto al caso: naturalmente erano da privilegiare i fucili, anche quelli da caccia, e sarebbero state gradite anche le pistole da ricaricare; ma anche i forconi per smuovere la paglia, i falcioni per mietere il fieno e la suglia, i bastoni snodati per battere i ceci e i fagioli sull'aia sarebbero andati bene. Qualcuno era anche andato in cantina a recuperare la mazza di ferro del torchio per l'uva. Alla fine dopo circa un'ora all'appuntamento in piazza si erano presentate più di cento persone. Quasi tutti uomini maturi, forti e motivati, più qualche giovane la cui età era compresa tra i venti e i trent'anni, che non aveva voluto che il padre andasse da solo. Quando si furono radunati tutti partirono con passo svelto per ritrovarsi dopo appena mezz'ora tutti acquattati tra i cespugli e dietro i sassi sulla collina che domina il passaggio a valle delle Fontanelle, poco dopo il Belvedere e prima del Castello, e non avrebbero avuto molto da aspettare perché non era passata più di un'ora da quando si erano trasferiti e non erano passate più di tre da quando la vedetta aveva avvistati i francesi alle Poera. Il tempo era passato anche piacevolmente e senza soverchi nervosismi avendo appreso, sempre dalla vedetta, che i francesi erano disarmati e assai malmessi. Il piano congegnato dai rivoltosi era semplice ma pareva assai efficace: far sfilare lungo la strada i francesi, poi, mentre un drappello di corenesi li avrebbe presi alle spalle per neutralizzarli con le armi improprie, dalla collina chi era in possesso di un fucile o di una pistola avrebbe fatto fuoco dal lato destro scoperto. Quando l'ultimo soldato francese era sfilato sulla perpendicolare degli appostati, da un lato una settantina di corenesi si staccarono scendendo di corsa a valle. Armati di forconi, falcioni, bastoni di ferro e di mazze di legno cominciarono a colpire violentemente e a massacrare i poveri soldati, quasi tutti disarmati; dall'appostamento ch'era una cinquantina di metri sulla collina che dominava la strada gli altri, quelli armati di fucili e pistole, aprirono il fuoco; una gragnola di colpi arrivò sul lato destro della fila indiana, i francesi cominciarono a cadere come pere mature. La mattanza durò in tutto nemmeno una decina di minuti: la strada si era, rapidamente, coperta di cadaveri e di corpi agonizzanti e rantolanti, rivoletti di porpora si spargevano lentamente sulla neve bianca. Dei quarantanove soldati francesi nessuno avrebbe rivisto il suolo patrio. E per molto tempo nessuno avrebbe più saputo niente di loro. Ora per i rivoltosi si poneva il problema di finire i moribondi feriti a morte con pugnali e baionette. Un colpo al cuore e il trapasso era agevolato. Quindi di sgombrare la strada dai cadaveri e di nasconderli definitivamente alla vista degli altri scout francesi, che certamente li avrebbero cercati, e delle autorità del regno. Qualcuno si era ricordato che nelle vicinanze, ad appena un centinaio di metri, c'era un podere di proprietà di certo Giuseppe Ruggiero, e al centro del podere c'era un pozzo. L'uomo non aveva partecipato all'agguato, perché troppo anziano, ma tutti pensarono che l'odio che aveva sempre mostrato di nutrire nei confronti dei francesi gli avrebbe certamente suggerito di mettere a disposizione la sua proprietà per una giusta causa comune. Anche se una volta riempito di cadaveri il pozzo, va da se, non sarebbe stato più utilizzabile. Anzi avrebbe dovuto essere interrato e sigillato per evitare possibili epidemie. All'unanimità si decise di sfruttare la possibilità, non c'era tempo per scavare una grande fossa comune. Due o tre uomini per volta presero per le gambe e per i piedi un soldato francese e lo trasportarono nelle vicinanze del pozzo. Mentre qualcuno più giovane e veloce sarebbe corso al paese per caricare un carretto di calce e di badili. Era in uso all'epoca di tenere sempre a disposizione delle grosse quantità di calce nelle fornaci scavate apposta per quello scopo; le calcare. Ogni strato di cadaveri sarebbe stato coperto con una abbondante spolverata di calce e di terriccio e pietre; alla fine del lavoro il pozzo sarebbe stato sigillato con un tappo di malta e pietre. Nessuno si sarebbe più accorto del macabro contenuto del pozzo. In giro si sarebbe sparsa la voce ch'era stato avvelenato da qualche animale in decomposizione e il padrone era stato costretto a interrarlo. Quando tutti i cadaveri furono rimossi, trasportati e buttati nel pozzo gli uomini, ormai sfiniti, tornarono sul luogo della strage, per cancellare ogni traccia: grattarono la neve, il ghiaccio e lo strato più superficiale della ghiaia insanguinata che copriva il fondo della strada sterrata. Poi riportarono un nuovo strato di ghiaia e sopra di essa sparsero badilate di neve fresca. Nel giro di un'altra ora sembrava che lì non fosse successo mai niente. Presto il ricordo della strage sarebbe stato rimosso oltre che dal suolo anche dalla testa degli stessi autori; l'eccidio sanguinolento sarebbe diventato un avvenimento incerto e dai contorni indefiniti; una specie di mito, di imago, che tutti, alla fine, avrebbero rimosso dalla loro mente o confuso con un sogno collettivo. Il plotone di omicidi composto di gente normale e di padri di famiglia si avviò mestamente verso il paese. In salita, con passo stanco, tutti erano svuotati dalle forze. Svuotati di energia ma  convinti di aver fatto la cosa giusta. Avrebbero certamente accelerato la fuga dei francesi dai territori occupati. La coscienza personale in subbuglio sarebbe stata sedata e soddisfatta dalla constatazione di aver agito per il bene comune e per un interesse superiore. Oltre che per l'affermazione della giustizia.