L'Orto dei frutti dimenticati esiste! Davvero! Esiste nella realtà, non solo nella mia mente "malata".
Si trova a Pennabilli, in provincia di Rimini, ed è nato per volontà di Tonino Guerra, scrittore, poeta
e sceneggiatore dei film di Fellini. Lo ha inserito nel suo più grande circuito dei "Luoghi dell'Anima", le
cui installazioni percorrono l'intero paese e la Valle della Marecchia.
In attesa che l'Orto dei Frutti Dimenticati si realizzi anche al mio paese (ma, onestamente non so so se si realizzerà mai) io ho voluto farne un libro. Anzi due. Uno a colori e uno in bianco e nero; il primo costa 28,00 euro (per evidenti costi di stampa) il secondo costa 14,00 euro.
Ringrazio l'amico Fabrizio Salce, conduttore della trasmissione televisiva "Agrisapori" ed esperto di politiche agroeconomiche che si è gentilmente prestato a firmare una dotta prefazione.
giovedì 29 ottobre 2015
martedì 13 ottobre 2015
LE ANZIANE DONNE DI PAESE.
Queste anziane donne di paese, spesso vedove, col corpo disfatto dall'artrosi, dai parti, dalla vecchiaia e dalla fatica quotidiana, sembrano ancora portare sulle loro spalle tutto il peso della società che hanno retto per una vita.
Mi ricordano certe contadine russe, grasse e rubizze, abituate ad essere carezzate dal vento gelido della steppa oppure le vergare marchigiane. Le mogli dei vergari, cioè di quelli che nella loro fattoria detenevano la verga: il simbolo del comando.
Dopo aver tanto sgobbato, perso il marito, sistemati i figli, conosciuti i nipoti, aspettano solo di andarsene.
Ma, per loro, la morte più che una condanna sarà una liberazione.
Mi ricordano certe contadine russe, grasse e rubizze, abituate ad essere carezzate dal vento gelido della steppa oppure le vergare marchigiane. Le mogli dei vergari, cioè di quelli che nella loro fattoria detenevano la verga: il simbolo del comando.
Dopo aver tanto sgobbato, perso il marito, sistemati i figli, conosciuti i nipoti, aspettano solo di andarsene.
Ma, per loro, la morte più che una condanna sarà una liberazione.
sabato 10 ottobre 2015
Quello che pensava Alessandro, il funaio che somigliava a Nero Wolfe, del disastro del Vajont.
cose non ne capiva granché. Quindi faceva partire commenti
sintetici, come volesse tagliare a corto. Allora quelle considerazioni
mi parevano scontate, se non addirittura banali. A riesaminarle oggi, per un’insospettata concretezza che ho scoperto in lui, si rivelano illuminanti come proiettili traccianti, esplosive come granate. Ne ricordo alcune come fosse ora. Le porto stampate indelebili nel cervello. Nell’autunno del ’63 fummo tutti scioccati dalla tragedia del Vajont. La catastrofe ci colpì forse più di altri - aveva cancellato un villaggio grande, più o meno, come il nostro. 1910 morti in quattro, interminabili, minuti d’orrore. Tutti, indistintamente, avevamo negli occhi, nella testa, e nel cuore, le immagini raccapriccianti dell’immane disastro che vedevamo in TV. Un pomeriggio tardi, di quello che per noi fu un mite ottobre, Alessandro stava, come al solito, seduto sotto casa a lavorare. Intorno alla sua postazione s’era formato spontaneamente un capannello di persone. Cosa che avveniva anch’essa di solito. Lui, mal sopportando la sequela ininterrotta di banali commenti, che ripetendosi da giorni, era costretto, suo malgrado, a sopportare, interruppe per un attimo il lavoro e sbottò all’improvviso. - “Bastava non farla proprio lì quella fottutissima diga. Perdio!” disse contundente. Così - feroce e spiazzante - ancora una volta aveva fulminato tutti. Poi, come non fosse successo niente, riattaccò subito a lavorare. Ma, se ricordo bene, due lacrime gli solcarono le guancione rubizze."
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