venerdì 21 agosto 2020

 Dal mio libro ''L'orto dei frutti dimenticati'' metto qui la eccellente potente e ironica prefazione regalatami dall'amico Fabrizio Salce che proprio ieri e' stato nominato dal sito VinoWay.com Miglior Giornalista Enogastronomico Italiano del 2020. 


  "Un tempo era il caos. Le piante vivevano tutte insieme. Noci, fichi, carciofi, bacche, fave, lupini, more e tutte le altre. Si
nutrivano, si difendevano, si dissetavano a vicenda, una cosa vergognosa! Ma per fortuna è intervenuto prontamente l’uomo che dall’alto della sua indiscussa intelligenza ha sistemato la situazione. Le pere con le pere, le mele con le mele e i carciofi con i carciofi. Tutto meravigliosamente posizionato e rigorosamente ordinato. Basta con questa confusione, voluta poi da chi? Passato del tempo e, dopo approfonditi studi, perché soltanto studiando si ottengono certi risultati, l’uomo ha
selezionato i frutti migliori per la propria sopravvivenza: naturalmente si intente quella dell’uomo. Infine, poco dopo, è stato talmente bravo, che è risuscito a creare nuove specie per trarne reddito economico e non soltanto limitato al sostentamento giornaliero. I frutti potevano rendere. Grande quest’uomo! Con la sua intelligenza e caparbietà ha saputo scegliere quali frutti coltivare e quali no; ha creato appropriate richieste di mercato tali da dover miscelare alcune razze al fine di offrire al consumatore prodotti sempre più idonei: belli e colorati. Per fare tutto questo ha inoltre avuto la capacità, e non è stato poi così semplice, di eliminare tutto l’inutile; quello che non serviva. Varietà poco produttive, frutti dalle forme strane, brutti a vedersi, troppo saporiti e dolci, molto profumati, elementi di disturbo che non avevano alcuna valenza. In fondo e, credo anche giustamente, cosa avrebbe potuto farsene di poche piante, alcune molto vecchie, che per qualche secolo avevano sfamato le popolazioni locali. Se sei intelligente, com’è l’uomo, le butti e basta. E così ha fatto! Già, proprio così. Nel corso di pochi decenni, con quest’uomo, abbiamo perso centinaia di varietà botaniche che non erano solo piante e frutti, fiori e arbusti, verdure e cereali, erano la nostra storia , la nostra cultura, il nostro pane quotidiano, erano la vita. Non si distrugge ciò che ci è stato dato in regalo, non ne avevamo il diritto a farlo. Questa terra non è nostra; è stata e sarà di tutti e noi dovevamo e dobbiamo rispettarla. Ma forse qualcuno lo ha capito. Quando si parla di antichi frutti lo si fa generalmente con quel gusto dolce amaro della nostalgia, nostalgia di un sapore, di un profumo, di un colore che ci riporta al nostro passato. Emozioni che nei frutti che oggi acquistiamo al mercato, tradizionale o moderno che sia, non riusciamo più a vivere. Abbraccio dunque con grande affetto tutte quelle iniziative, e sono tante per fortuna, volte a riportare in vita e alla conoscenza dei più giovani quelle nostre emozioni vissute attraverso un semplice morso a un frutto. Gli studi delle facoltà universitarie, l’apertura di orti e giardini ricchi di vecchie varietà, gli scritti e le iniziative di comunicazione. Ultimamente per fortuna in molti si sono resi conto che quella grande intelligenza passata dell’uomo ha smarrito qualcosa, si è tornati a ricercare i semi di un tempo andato ma ancora a noi vicino, si stanno ripercorrendo vecchi sentieri di campagna e di montagna, si torna nei cortili e sulle mulattiere alla ricerca di tutto ciò che ancora c’è e che va salvato e tutelato. Un fiore, una pianta, un seme e tutto questo è positivo. Non voglio più dunque pensare alle albicocche di cinquant’anni fa con nostalgia ma con una nota presente di un leggero calore ottimista e di una sana strigliatura agli organi. In molti abbiamo capito che è arrivato il momento di cambiare e di voltarsi per riscoprire e riportare il caos. Splendido disordine della natura. Il quadro, oggi, è mutato, così come è successo in altri campi culturali, perché salvare piante e frutti è indubbiamente un fatto di cultura. Il lavoro, grazie a qualcuno, da qualche anno è iniziato, sta a noi adesso andare avanti, aiutare chi ha dato il via alle operazioni, comunicare, cercare, salvare, difendere, perché il nostro passato aiuti questo presente ad diventare un futuro più giusto. Un giardino, un orto, una foresta alimentare con tante varietà naturali sono come un accordo di settima alla chitarra, armonioso, dolce e misterioso. Sono l’amore di chi ci ha donato ciò che abbiamo rischiato di perdere. Riscoprire è in fondo rivivere. Salvatore M. Ruggiero e questo suo libro, come aveva fatto prima di lui Tonino Guerra con il suo Orto dei Frutti Dimenticati, va esattamente in questa tanto auspicata direzione.''

https://vinoway.com/approfondimenti/attualita-wine-a-food/fatti/item/7904-fabrizio-salce-miglior-giornalista-enogastronomico-italiano-2020.html?fbclid=IwAR1KHhyxt3kVtEyK_NhOqM05nNQ90XaLK_LXJNdeyhiQAY0jfQQlJDgQpOI

  
Fabrizio Salce è giornalista enogastronomico, iscritto all'ordine italiano e svizzero, conduttore della trasmissione televisiva ''Agrisapori - il mondo che lavora in campo agricolo ed enogastronomico'' - distribuita su un Network di 150 televisioni locali. Ha anche collaborato con diverse strutture televisive italiane e straniere, tra cui Stream News, Stream Verde, Rai World, Rai Export, Gambero Rosso e Mediaset. Scrive per diverse riviste di settore e cura uffici stampa, segue servizi TV per ''Eat Parade'' e conduce una rubrica su Radio LatteMiele inerente alle manifestazioni enogastronomiche che si volgono nel nostro Paese.

giovedì 13 agosto 2020

Appunti sparsi dopo la visione del film ''Vanita' e Affanni'', 1997.

   ''Vanità e affanni'', titolo originale: ''Larmar och gör sig till'' è un film del regista svedese Ingmar Bergman realizzato nel 1997. Il titolo è preso dal ''Macbeth''' di Shakespeare, quinto atto, scena quinta, quando Macbeth dice: "La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore che s'agita e pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato". "S'agita e pavoneggia" si traduce in svedese con "Larmar och gör sig till". Come al solito la traduzione italiana dei titoli dei film di Ingmar Bergman e' abbastanza discutibile. Dopo ''Fanny e Alexander''  nel 1982, il Maestro aveva dichiarato di non avere più intenzione di fare altri film, dedicandosi alla televisione e realizzando, prima di questo lavoro: ''Dopo la prova'' nel 1984 ed ''Il segno'' nel 1986. Ma non e' la prima volta che Ingmar Bergman smentisce se stesso. Le riprese del film si svolsero dall'ottobre 1996 al febbraio 1997 negli studi SVT di Stoccolma e nell'ospedale Ulleråkers di Uppsala. Il film fu prodotto per la televisione svedese e alla sua realizzazione ha partecipato anche la Rai. Forse i dirigenti della Tv italiana volevano farsi perdonare la brutta figura rimediata negli anni '60, quando chiesero al maestro di scrivere e girare un film sulla Passione di Gesu' Cristo e, dopo aver versato come anticipo la modica somma di 30.000 dollari, annullarono il contratto e lo assegnarono a Zeffirelli, autore della madre di tutte le passioni. La sceneggiatura del film riprende una pièce scritta dallo stesso Ingmar Bergman nel 1993, con l'omonimo titolo, inizialmente destinata solo al teatro. In un secondo tempo Ingrid Dahlberg, direttrice delle produzioni drammatiche della Sveriges, propone al regista di realizzare lo stesso progetto per la televisione. Il film e' stato anche presentato nel 1998 al 51 Festival di Cannes nella sezione ''Un Certain Regard'' Il film si divide in due atti, come un vero dramma teatrale. Anzi e' un bellissimo esempio del genere KammerSpielFilm di cui Ingmar Bergman e' maestro indiscusso. 

    Nel primo atto la vicenda e' ambientata e inizia in un ospedale psichiatrico di Uppsala, citta' natale del regista. Siamo nell'ottobre del 1925. Il primo personaggio è quello dell'ingegnere Carl Åkerblom di 54 anni. Il film si apre con l'immagine del protagonista che ascolta e riascolta col grammofono le note d'apertura dell'ultimo lied di Franz Schubert, ''Der Leiermann'' dal ''Winterreise''' che costituirà il leitmotiv di tutto il film. Il Royal Patent Office, l'Uffico Brevetti svedese gli ha appena rifiutato con una lettera letta dalla moglie il brevetto della "macchina da presa". La motivazione? E' già stata inventato nel 1866 da R. W Paul. Carl è ricoverato per ripetute crisi di furore. Durante una delle ultime ha tentato di uccidere la sua compagna, Pauline Thibault.  Siamo al cospetto di quello stesso zio Carl di ''Fanny e Alexander'', un doppio del vero  zio materno di Ingmar Bergman descritto nell'autobiografia ''Lanterna magica'', noto per i suoi fantasiosi progetti di inventore. Carl e' ossessionato dalla vicenda umana del musicista Franz Shubert, dalla sua musica e dalla sua morte immatura causata a soli 40 dalla sifilide. In un incubo gli appare "Rig-mor", un ambiguo e spaventoso clown bianco che impersona la morte e che continuerà a riapparirgli nel corso del film. Il secondo personaggio, ricoverato nella stanza di Carl, è il professor Osvald Vogler, strampalato marito di una donna ricchissima e sordomuta che verrà ben presto a portarlo via da lì. Vogler racconta a Carl la storia della contessina Mizzi, una bellissima e giovanissima prostituta viennese, mantenuta di un conte e finita suicida: nasce fra i due il progetto di realizzare, col finanziamento della moglie di Vogler, il primo film muto doppiato in diretta che avrà titolo "La gioia della ragazza Gioiosa" e che intreccerà l'ultima fase della vita di Shubert alla vicenda di Mizzi. Nel secondo atto siamo invece nei disadorni e poveri interni della ''lega della Temperanza'' nella cittadina di Granaes in Dalecarlia, contea a nord ovest di stoccolma, al confine con la Norvegia. Sono stati trasformati per l'occasione in una provvisoria e improvvisata sala cinematografica prima, in un set teatrale dopo. Fuori imperversa una tempesta di neve. E' per questo motivo che vengono venduti solo undici biglietti? Uno alla volta, mestamente e silenziosamente, arrivano gli sparuti spettatori. Bergman sottolinea l'autobiografismo presente nel film offrendo molti indizi. Curiosamente fra gli spettatori dello spettacolo allestito dallo zio Carl e' facile riconoscere personaggi e attori di altri suoi film precedenti: la maestra del film ''Luci d'inverno'' Märta Lundberg, la moglie del pescatore suicida sempre del film ''Luci d'inverno'' Karin Persso, una delle interpreti del film d'esordio ''Crisi'' Inga Landgré, l'interprete della giovane Karin nel film ''La fontana della Vergine'' Birgitta Pettersson. E alcuni dei suoi familiari piu' carila madre Karin interpretata dall'attrice Pernilla August e la nonna Anna Åkerblom interpretata dall'attrice Anita Björk. Infine il personaggio del proiezionista Petrus Landahl che è molto somigliante al maestro come appare nelle fotografie giovanili.

   Appena all'inizio del secondo atto, improvvisamente, Mia Falk, attrice e amante di Akerblom, lascia la compagnia. Quasi senza accorgersene Pauline, Carl, Vogler e il proiezionista Petrus Landahl, preparano comunque la proiezione del film. Carl mette fuori servizio la centralina in modo che la lampada ad arco possa funzionare. Ma poco dopo le prime sequenze scoppia un incendio, avventurosamente estinto dal coraggioso Landahl. La compagnia unita nell'amore per l'arte e per il proprio lavoro, per non deludere il piccolo pubblico e, probabilmente, anche per non rimborsare i biglietti, decide di continuare il film come opera teatrale. Alla fine della rappresentazione e solo dopo i convenevoli di rito gli spettatori vanno via. Il successivo arrivo della polizia, dopo l'ennesima apparizione di Rigmor a Carl che forse medita il suicidio, riporta Vogler in manicomio.

   Alcuni temi del film sono i temi ricorrenti della cinematografia di Ingmar Bergman. I fantasmi e i luoghi dell'infanzia, insieme ai personaggi che l'hanno animata ed influenzata: lo zio Carl, la madre, la nonna. Il valore universale e salvifico dell'Arte. Il rapporto, alcune volte conflittuale alcune volte osmotico e complementare, del cinema col teatro. Il sesso. Le origini del cinematografo. La morte, rappresentata dal clown Rigmor. Il dolore della malattia, la follia e il manicomio. Tra i ricoverati dell'ospedale appare in un cammeo anche lo stesso regista, e' l'uomo alto e magro in piedi contro la parete fuori della stanza di Carl Åkerblom. Infine, la musica. Ingmar Bergman fa in molti dei suoi film un uso fondamentale della colonna sonora, attribuendo alle musiche che predilige, di Bach, di Mozart, di Chopin e altri compositori tra i piu' grandi, un ruolo centrale, quasi cardinale. In piu' non e' un mistero che fosse ''ossessionato'' dalla musica, era affascinato dalla ricerca delle radici storiche della musica, conduceva personalmente delle ricerche per riuscire a scoprire da dove la musica provenisse.

   La sceneggiatura del genio di Uppsala e' di ferro, anzi, di piu'. L'intrepretazione di tutti gli attori bergmaniani, capeggiati dal decano Erland Josephson magistrale. 

   Film da vedere e rivedere. 

  Per chiudere, il mio stato d'animo dopo la visione riassunto eloquentemente in una battuta dello stesso film. ''Non sto naufragando... sto risalendo!''