sabato 22 dicembre 2012

Storie di paese. 23 Nonnu' Salvatore

Oggi e' la Giornata dei Nonni. 
Tratto dal mio libro ''Storie dal paese dei ciclamini'' metto qui la ''Piccola Storia di Paese n.23'', il raccontino che ho dedicato a mio Nonno Salvatore, chiamato da tutti noi nipoti ''Nonnu' '', dei suoi traffici e della sua triste morte.  Lui era il nonno con cui ho convissuto piu' lungamente e che ricordo con particolare nostalgia, sebbene fossi affezionato molto anche a Nonno Gaspare, detto ''Nonnu' Casparrinu''. Avevo solo 4 anni, invece, quando e' morta e ricordo poco, tranne il suo letto di morte, di Nonna Annamaria che in pratica non ho mai conosciuta. Ricordo bene, invece, Nonna Giovanna, glaciale e distaccata con noi nipoti come certi personaggi di Ingmar Bergman. 

                                   
                                          In copertina Mio Nonno Salvatore e il fido setter Fido


   Nonnù Salvatore, come lo chiamavamo in famiglia, aveva cominciato la sua avventura commerciale vendendo da ambulante stracci e un mucchio di altre cose: praticamente tutto quello che poteva essere comprato e venduto, legalmente e, certe volte, con il contributo degli amici napoletani, pieni di risorse, anche illegalmente. A un certo punto della sua sfolgorante carriera di piccolo commerciante, la passione piu' grande di Nonnu' Salvatore, il suo core business, come si direbbe oggi, erano diventati gli orologi svizzeri, che ai suoi tempi, fine anni '50, praticamente c'erano solo quelli, insieme all'oreficeria. Quasi subito si era reso conto che un tale commercio non si poteva fare da ambulante, ma richiedeva una sede fissa. I primi tempi, mentre faceva conoscere la sua nuova attività ai suoi compaesani, accoglieva i clienti a casa nostra, con grande soddisfazione di mia madre che, oltre a fare la commessa, senza retribuzione, doveva far trovare sempre in ordine e pulita la sala dove mio nonno li faceva accomodare e poi servire il caffè quando gli affari si erano chiusi con soddisfazione di entrambe le parti. Senza considerare che alcuni non venivano a casa col vestito della festa, ma magari nelle pause del lavoro in cantiere o nei campi, e mia madre, quasi sempre, quando se n'erano andati, doveva spolverare, scopare e lavare per terra dove erano passati coi loro scarponi da fatica. Dopo i reiterati, antipatici ma fondati rimbrotti di mia madre, mio nonno, suo malgrado, fu costretto a cercarsi un localino da affittare al centro. Trovò una stanzetta decente che dava sulla piazzetta del rione Gelso, proprio dietro la piazza, a due passi dalla Chiesa di S.Margherita: ottima collocazione, centrale, facilmente raggiungibile, ma riservata. I clienti avrebbero raggiunto il negozio facilmente, magari all'uscita della messa domenicale e avrebbero fatto le loro piccole spese al riparo da occhi troppo indiscreti.
   Mio nonno aveva messo una bella insegna all'esterno: Tutto per tutti, una vetrinetta con qualche orologio meccanico a carica manuale e qualche piccolo gioiello, un bancone e due sedie.
  La domenica mattina, a casa mi svegliavano presto, per aiutarlo a portare le valige coi preziosi fino al negozio e fargli da scorta, ma tanto sapevamo che nessuno dei nostri pacifici concittadini ci avrebbe mai rapinati. Il mio paese è sempre stato popolato da gente pacifica; non è mai stato teatro di fatti di sangue. Semmai qualche timore poteva, invece, provenire dai delinquentelli dei paesi vicini. In ogni caso la prudenza non era mai troppa: occhi ben aperti durante il breve tragitto e sempre pronti a darsela a gambe col malloppo ben stretto. Arrivati, sani e salvi, a destinazione, alzavamo la sarcinesca, aprivamo la porta e allestivamo la piccola vetrina. Pronti, per aspettare clienti da servire. Alla fine della giornata, di solito un'oretta abbondante dopo la fine della messa, quando la piazza si era svuotata e le casse del nonno si erano riempite, facevamo il percorso contrario, scortati anche da mio padre che, intanto, ci aveva raggiunti, a metà mattinata. Sfilando lungo Viale della Libertà, per raggiungere al civico n.10 casa nostra, facevamo sosta al Bar di Zio Fiore per comprare un vassoietto di paste assortite che lui faceva arrivare da Vezza, la più famosa pasticceria di Formia, solo la domenica e le altre feste comandate. Ad essere onesto devo anche dire che mio nonno Salvatore, pur non essendo per sua natura molto prodigo, anzi era un po' tirchio, riconosceva il mio impegno e ripagava volentieri il mio aiuto, elargendomi qualche moneta, che io investivo subito buttandola nel bigliardino o nei primi flipper elettrici arrivati in paese. Tanto il gelato me lo comprava papà e le paste me le pagava nonnù. Dopo un po di questo tran-tran domenicale mio nonno realizzò che pagare un affitto, anche minimo, era un inutile spreco di denaro e doveva farsi un suo negozio, anche piccolo. A dire il vero era un po' che aveva adocchiato un fazzoletto di terra in via IV Novembre, poco dopo la strettoia di Luciano Guardianeglio, e aveva messo spia, come si dice da noi quando metti in allerta il proprietario, ma non manifesti apertamente la tua volontà di acquistare, per non farsi vedere troppo interessati ed evitare di far lievitare il prezzo inutilmente. Poi si era messo, pazientemente, ad aspettare l'occasione giusta. Che puntuale, sarebbe arrivata di lì a poco. Un giorno che stava giocando a carte al bar del cognato Filippo Di Bello, in piazza Umberto, aveva visto avvicinarsi di corsa dal fondo del viale la moglie di Pecoreglio tutta trafelata a dirgli che il marito si era deciso a vendere i 15-20 mq per la bella sommetta di 200mila lire ed era pronto a perfezionare il contratto. Mio nonno, che forse si aspettava pure di più, corse a casa, prese i soldi, che naturalmente aveva in contanti e andò a sventolarli sotto il muso di Angelino la pecora. In un attimo avevano fatto il compromesso con tanto di scrittura privata sottoscritta. Di lì a poco, con l'aiuto di suo cognato falegname carpentiere, avrebbe ingrandito la sua proprietà immobiliare, edificando con blocchetti di tufo, due stanzette, una sull'altra, con tanto di tetto in canali e balconcino con ringhiera, al lato della strada, in posizione strategica per la sua attività commerciale.  Dove, ancora oggi, dopo 50 anni, tra mille difficoltà, sopravvive, gestita malamente da me. Seppi dopo che, qualche decina d'anni prima, dove sorge ora il mio negozio c'era un pozzo nel quale s'era buttata una donna suicida. Appena qualche giorno dopo il pozzo era stato interrato e della tragedia s'era subito perso anche il ricordo, al punto che, qualche anno dopo, nessuno si ricordava più il nome della disgraziata.
   Mio padre che, nel '66, quasi in concomitanza con l'arrivo di mio fratello Gaspare, detto Rino, aveva comprato la sua prima automobile, una Fiat 850 cremisi nuova fiammante al prezzo di lire 650.000, e non voleva lasciarla all'aperto, con l'aiuto di suo zio Vincenzo che faceva il falegname, costruì due vetrine mobili su rotelle e, quando il negozio aveva chiuso i battenti, lo trasformava in garage. La sera, quando il negozio era chiuso e doveva ricoverare la macchina, metteva dentro le vetrine facendole scivolare sulle rotelle lungo le pareti interne; la mattina faceva tutto al contrario: tirava su la saracinesca del garage, cacciava fuori la macchina, risistemava le vetrine e apriva l'oreficeria per mio nonno.
   Ci eravamo sistemati quasi da un anno nella nostra nuova casa a Valiavetta, quando mio nonno morì. In realtà non morì subito, mia madre lo trovò con la bava alla bocca, nel suo letto, nella sua stanza. Non sie era alzato alla solita ora perche' colpito da un ictus cerebri, un colpo apoplettico che gli avrebbe lasciato poche ore di vita, come sentenziò il nuovo medico Vittorio, amico di mio padre. Lo avevamo portato all'ospedale di Formia, di corsa con la 127 appartenuta a zio Peppino, l'ex-sindaco, morto l'anno prima, che mi aveva appena regalato proprio mio nonno per farsi scarrozzare. Nonnù era sopravvissuto ancora un paio di giorni, ma si vedeva che non ce l'avrebbe fatta. Era già un miracolo se avesse resistito per qualche ora. Una mattina presto stavo lì, nella sua stanzetta, seduto sul letto accanto vuoto, a seguire i suoi rantoli, a contare i suoi lenti, rumorosi, affannosi respiri. Avevo da poco dato il cambio a mio padre, ch'era restato per la notte. Con me c'era solo Zia Natalina, sua cognata, che corre sempre quando qualcuno della famiglia sta male: è la donna più buona e disinteressata che esista. In quei due lunghissimi giorni di permanenza e di agonia in ospedale, il suo cuore era stato spesso fibrillante, come ebbe modo di dirmi il mio amico medico Raimengia. A un certo punto, mio nonno, poveretto, aveva semplicemente cessato di respirare ed era morto. Come se qualcuno, improvvisamente, avesse tolto la spina. E' stata la prima persona che ho visto morire. Aveva 75 anni, era il 1980. Dopo di lui, a nemmeno una settimana di distanza, toccò a Nonno Gasparrino.

smr

lunedì 17 dicembre 2012

Storie di paese. 22

Il mio paese, il paese dove sono nato vivo e lavoro si chiama Coreno Ausonio.
Ausonio, in verità fu aggiunto dopo, verso la metà dell'800, prima era solo Coreno.
Probabilmente l'aggettivo fu aggiunto per dire che fu fondato alle pendici dei monti Ausoni, oppure per significare che l'antico popolo che abitava quelle terre erano gli Ausoni, dai quali derivarono gli Aurunci, anche loro ...bei monti, oppure per differenziarlo da qualche altro Coreno che sta in altre parti d'Italia, ma che io non ho mai trovato.
Oppure, secondo i più maliziosi tra gli abitanti della vicina Ausonia, antica Fratte, dal latino Fractae, che significa bosco atro (nome che sembra estratto dalla saga di Tolkien), per significare che il paese nacque da una loro costola, quando alcuni pastori frattesi, appunto, nel lontano medio-evo, in cerca di pascoli migliori per i loro greggi, si spostarono più a monte, fondando così il piccolo villaggio di Coreno.
Che sia ammetta oppure no la sua nascita da una costola di Fratte bisogna anche ammettere che, storicamente, se ne emancipò nel lontano 17° secolo.
Il problema, comunque, non sarebbe nemmeno l'aggettivo Ausonio, del quale, viste anche le annose polemiche, era meglio fare a meno; il vero problema è il nome, anzi il toponimo: Coreno.

Anzi, il vero problema è accertare da dove derivi? Qual'è il suo vero significato.
Ci sono due tre, o anche quattro, scuole di pensiero.
Una, affascinante, farebbe risalire il toponimo Coreno dal nome Kore (dea greca degli inferi) e Janus (della dea feritilità).
Ma io, modestamente, considero questa ipotesi altamente improbabile, perchè più adatta a spiegare, semmai, il toponimo di una vicina frazione di Ausonia: Correano.
La seconda e terza opinione, lo deriverebbe dal latino Corenius, nome proprio di persona.
Un antico abitante, o anche un'antica famiglia ausona o aurunca.
Ma questo, a sua volta, deriverebbe direttamente o indirettamente, dall'ancora più lontano korine(m) o korune, la clava di Ercole.
A tale proposito si racconta che le fondamenta e i resti di un magnifico tempio in pietra locale dedicato proprio al semi-dio greco Eracle, venerato in zona dagli antichi abitanti pagani, siano stati rinvenuti abbastanza recentemente e poi persi di nuovo, a poca distanza dal centro abitato, e più esattamente nelle campagne di Coreno.
La terza, comunque ugualmente valida e, pertanto, va opportunamente ricordata, farebbe derivare il nome Coreno dal greco: kora+oinou, regione o terra del vino.
E bisogna ammettere che anche questa ipotesi è molto suggestiva, anzi, fino a qualche tempo fa era la più accreditata.
Ed era anche quella che piaceva di più al più famoso storico corenese Don Giuseppe La Valle.
Tuttavia, anche se le numerose coltivazioni di viti presenti sul suo territorio, oggi tutte o quasi in completo stato di abbandono, farebbero supporre che veramente Coreno Ausonio, anzi Coreno e basta, potesse essere la terra del buon vino Falerno o Cecubo, a complicare notevolmente le cose ci si è messo il mio amico enologo autoctono Davide Biagiotti, il quale nella sua tesi di laurea ha sviluppato una teoria assai realistica e molto ben documentata che escluderebbe il significato più probabile di: terra del vino.
Nella sua tesi si legge infatti che le fertili e numerose coltivazioni di uva derivante dal vitigno abbuoto, dalla cui lavorazione, dai tempi degli antichi romani, quindi ab ovo, si produrrebbero i vini citati, Cecubo e Falerno, erano tutte posizionate lungo la linea costiera, pertanto non oltre qualche centinaio di metri dal mare, lungo la fascia che va da S.Felice al Circeo fino a Scauri, quella coincidente, per intenderci, con la cd. Riviera di Ulisse.
Mentre, nel contempo non c'è traccia di tali coltivazioni nell'entroterra, sul territorio più collinoso dell'attuale Coreno, che dista in linea retta almeno sei o sette chilometri dal mare.
Come dire: in vino veritas.
 
E così, ai corenesi che, come me, volessero risolvere il problema del significato e della derivazione del nome del loro paese non resta che mettersi alla ricerca di quel famoso Corenius da cui tutto ebbe inizio o, in via subordinata, cercare tra sassi e cespugli le vestigia di quel tempio fantasma di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto.

smr

domenica 16 dicembre 2012

Storia di paese. 21

   Metto qui un brano estratto dal mio libro ''Storie dal paese dei ciclamini''.


   ''Quando ero piccolo e il mio paese non era ancora a crescita zero, cioè il numero dei morti non superava il numero dei nuovi nati, al mio quartiere, le Casette, c'era sempre una vera torma di ragazzini che, ogni giorno, finita la scuola, nei lunghi pomeriggi estivi sciamavano lungo tutto Viale della Libertà per giocare o, semplicemente, per ammazzare il tempo. Quando ci eravamo stretti tutti al solito luogo di ritrovo, intorno al muretto della Curva, che divideva a metà il viale, non eravamo mai meno di una ventina, tra ragazzi e ragazze. Tutti tra i sei o sette e gli undici o docici anni.
C'erano Mimì, Nicola e Tonino, i tre fratelli Belmonte, solo dopo un pò arrivò pure Maurizio; Angela, Michele e Maria, i fratelli Adriano, che dopo se ne andarono a Roma; io e Annetta, la grande e le mie due sorelle più piccole Vannina e Mirella, i quattro Ruggiero, solo più tardi sarebbe arrivato Rino, l'ultimo, alla metà degli anni '60; Sergio e Teresa, fratello e sorella Di Massa; Angela, Marcello e Antonietta, tre dei molti figli di Di Raimo Eliseo; Maria e Franchina, le due sorelle Belmonte; Gaetano Ruggiero, figlio solo; Enzo Di Massa, aveva un fratello, ma se n'era andato in Brasile giovanissimo e non era più tornato; Sergio Ruggiero, il figlio del postino, che aveva fratelli e sorelle ma tutti più grandi di lui; Antonietta e Armida, le due sorelle Girasoli, che prima sono andate a Pavia e poi a Roma. Altri ragazzini arrivavano dai rioni vicini: Giuseppe e Tonino Di Vito, col cugino Antonio Ruggiero, ad esempio, arrivavano, per unirsi a noi, dai lontani Rollagni, come pure Marcello Stavole e Benigno Costanzo. La nostra specialità era la guerra tra indiani e cow-boy, che si combatteva nel bosco di querce dietro casa mia, nel cuore dei MerruniLa guerra era meglio che giocare a pallone, perchè a pallone nel campo sportivo potevamo giocare solo i maschietti, mentre alla guerra potevano partecipare pure le ragazzine. A loro era assegnato il ruolo di affascinanti squaws, ovviamente. Un'altra specialità che avevamo affinata nel tempo era svuotare i cespugli di alloro per farci i nostri rifugi. Quello più piccolo tra di noi s'infilava da sotto e una volta all'interno cominciava a tagliare i rami con una piccola sega o anche un coltello affilato, facendo in modo che non si diradasse troppo, anzi, lasciandolo apparentemente intatto, almeno dall'esterno. Se il lavoro era fatto a regola d'arte riuscivamo a ricavare all'interno del cespuglio una piccola stanzetta, un buen retiro, che i grandi utilizzavano come nascondiglio per il loro rito delle seghe collettive e noi più piccoli per il rito, altrettanto sacro, delle cicche collettive. C'era sempre tra noi qualcuno che riusciva a sfilare, senza essere visto, due o tre sigarette dal pacchetto del padre e a portarle in comunità per fumarcele assieme, tra grasse risate, sonori scoppi di tosse e qualche lacrimone. Con le frasche estratte dal cespuglio d'alloro costruivamo delle capanne: o il classico tepee a forma di cono da veri indiani o stese tra due grosse pietre cave dei rifugi improvvisati. Dipendeva molto dal tempo che avevamo a disposizione per costruirle. Per gli archi, invece, i rami dell'alloro non era utilizzabile, troppo duro e difforme; era preferibile, invece, usare i rami d'ulivo, più leggeri e flessibili, mentre per le frecce usavamo delle canne sottili. Pure per le fionde cercavamo le forcine adatte tra i rami degli alberi d'ulivo, mentre dalle vecchie camere d'aria delle biciclette tagliavamo le caratteristiche molle arancioni o nere. Un pezzo di pelle quadrato, preso da una vecchia scarpa, per metterci dentro i proiettili ed era fatta. Davide contro Golia, ogni giorno nel bosco. Quando non ci andava di giocare a pallone e nemmeno di fare la guerra tra indiani e cow-boys andavamo per funghi. I Merruni erano pieni di carrubi e i tronchi dei carrubi sono il terreno di coltura preferito dagli accettogli, una specie di grossa escrescenza bianco-marrone, carnosa, morbida e molto fragrante che alle prime piogge settembrine nasce sui tronchi degli alberi di carrubo. Li trovavi facilmente, inseguendo il forte odore che emanavano. Chi l'ha assaggiato assicura che è un fungo buonissimo e – purtroppo – rarissimo. Si presenta come una massa informe, compatta. A piena maturazione, ad appena due tre giorni dalla comparsa, assume un colore rosalatteo con venature giallognole.
Il gusto di questo fungo è decisamente diverso da quello di tutti gli altri funghi: è più vicino al sapore del filetto di maiale, del quale ha anche la consistenza. Si sviluppa all'esterno delle radici, dei rami o dei tronchi dei carrubi. Io, purtroppo, parlo de relato, non ne ho mai conosciuto il sapore: ogni volta che ne trovavo uno, e coi miei amici, lo dividevamo come si fa tra fratelli carnali, portavo regolarmente a casa la mia parte, ma mio padre, appena lo avvistava lo buttava subito fuori dalla finestra, dalla parte del bosco, da dove era venuto. Ancora prima che potessi iniziare la lenta cottura nel sugo di pomodoro fresco. Poi, assumendo un atteggiamento drammatico, ricordava a tutti che in un paese dell'Abruzzo che si chiama Pero dei Santi, nella Valle Roveto, un'intera famiglia qualche anno prima, era stata sterminata da funghi velenosi raccolti incautamente nel bosco. I miei amici, che avevano genitori forse meno colti ed informati dei miei, ma sicuramente più pragmatici, li mangiavano regolarmente e il giorno dopo mi assicuravano che si erano gustata, invece, una favolosa zuppa di funghi di carrubo. Dopo qualche anno ho scoperto che forse mio padre poteva avere ragione e, comunque, che i suoi timori non erano del tutto infondati. Come insegnano anche i nostri saggi contadini ciociari, se nei pressi dell’albero di carrubo, fino a 3-4 metri, cresce un albero d’ulivo, non bisogna assolutamente raccogliere il fungo e consumarlo. La vicinanza dei due apparati radicali, ne contamina in qualche modo la linfa e il fungo di carrubo presenta una certa tossicità. Forse non causerà la morte per avvelenamento, ma sicuramente potrà procurare seri problemi gastroenterici e anche epatici all'incauto consumatore. Nonostante tutto confesso che avrei corso volentieri il rischio: avrei voluto conoscere il sapore di quella leccornìa giovanile di cui non ricordo nemmeno l'odore. I nostri saggi contadini ciociari riferiscono, da secoli e secoli, che, in cucina, la morte sua è in umido con cipolla ed estratto concentrato di pomodoro, oppure a spezzatino con aglio, olio, prezzemolo e filetti di pomodoro fresco. E accompagnano ancora questa preziosa ricetta con due raccomandazioni. La prima: se, per caso, il fungo che avete raccolto è già un po’ passato di maturazione e la sua polpa, pur piena e compatta, è diventata un po’ legnosa, tagliatelo a fettine sottili, fatelo marinare un’ora in acqua e limone o aceto e cucinatelo come una normale cotoletta; la seconda: per la cottura del fungo di carrubo è indispensabile il tegame di coccio.

smr

sabato 15 dicembre 2012

Storie di paese. 20

Mio nonno Salvatore, Nonnù o Nonnu Salvatore, come lo chiamavamo in famiglia, aveva un grande fiuto per i piccoli affari e aveva cominciato a commerciare abbigliamento di seconda mano, subito dopo la guerra.
Faceva i mercati nei paesi vicini e anche alcune grosse fiere.
Certe volte infilava la sua bancarella anche in qualche campo boario.
A quei tempi, in zona, si organizzavano spesso, per le compravendite di animali di tutte le taglie: dai pulcini alle vacche. 
Siccome non aveva mai preso la patente ma aveva comunque comprato una macchina, una Topolino Fiat, era accompagnato sul posto da un autista (di solito erano o Minicu Roccu o il cugino Frosinone) e spesso dall'altro mio nonno Gasparrino Biagiotti, che, in cerca di prima occupazione, momentaneamente gli faceva da assistente alle vendite.
Sebbene i rapporti tra i due non fossero proprio idilliaci: Gaspare tendeva ad essere sempre onestissimo e non aveva malizia, al contrario di Nonnù Salvatore.
Quando un villico si misurava un pantalone o una giacca che risultava di qualche taglia più grande il primo diceva chiaramente al potenziale acquirente che non andava bene e bisognava cambiare taglia; il secondo, con un po' di malizia, sapendo di non avere la taglia giusta, stringeva il pugno intorno alla stoffa in eccesso, alla vita o dietro le spalle e diceva al cliente che andava benissimo, anzi, che con quel capo addosso, era un vero elegantone.
La malizia di mio nonno Salvatore permetteva di non perdere solo la vendita, ma non produceva alcun danno all'icauto acquirente: quello si sarebbe presentato la settimana successiva a pretendere di cambiare il pantalone o la giacca, con uno di taglia inferiore.
Che mio nonno aveva tutto il tempo di procurare.
Tuttavia, nonostante i rimbrotti dei poveri clienti insoddisfatti, mio nonno, al quale prendere in giro i villici doveva procurare un immenso piacere, non aveva mai pensato di modificare i suoi sistemi di vendita. Ad esempio, assortendosi meglio.
Ma a lui piaceva avere un po' di soldi in tasca, anzichè investirli tutti in merce. E continuava così.
L'altro nonno finì presto di violentare le sue saldezze morali, quando, di lì a poco, trovò l'occupazione definitiva, lasciando nonnu Salvatore da solo, senza assistente e in ambasce.

Verso la metà degli anni '50 accettò un posto da usciere all'ospedale Gemma De Posis di Cassino, gentilmente offertogli da Giulio Andreotti, che all'epoca ancora non era il Divo Giulio.
Quel posto era davvero soddisfacente: fatica fisica nulla e tante relazioni pubbliche, per le quali mio nonno Gaspare, al contrario di Nonnù Salvatore, aveva un vero talento.
Dopo un po che faceva questo commercio Nonnù Salvatore, pensò bene di mettersi in proprio: aveva capito, finalmente, che avrebbe guadagnavato di più.
I vestiti li faceva tagliare e cucire con stoffa da poco, di quart'ordine, pagata davvero poco. Ma almeno era resistente.
Spesso usava la tela dei paracadute che i giovani di Coreno trovavano ancora in montagna, magari appessi al ramo di un albero.
Il paracadutista si era impigliato cadendo e aveva tagliato le corde per liberarsi e salvarsi dai soldati tedeschi sempre in agguato.
Il paracadute era rimasto lì per settimane se non per mesi, la stoffa era talmente pesante e impermeabile che restava quasi intatta, solo un po stinta.
Ma tanto mio nonno ne avrebbe dovuto ricavare pantaloni da lavoro per contadini, mica smocking per signori.
Tutti sapevano che mio nonno comprava e vendeva di tutto e portavano a lui tutto quello che trovavano in montagna: schegge, bossoli vuoti di proiettili, polvere da sparo, paracadute, proiettili di Garand inesplosi, perfino i denti d'oro estratti dalla bocca dei cadaveri insepolti.
Ovviamente era abbastanza intelligente per capire che l'oro andava scambiato solo con altro oro e cominciò così ad interessarsi di oreficeria.
Di lì a poco avrebbe iniziato una nuova attività da orefice-orologiaio, con tanto di negozio.
Normalmente, mio nonno andava a Napoli con l'amico barbiere e qualche altro piccolo commerciante di Coreno suo amico e piazzava tutta la merce a Forcella, il mercato nero dietro a Piazza Garibaldi, zona Stazione FS.
Con quello che ricavava comprava tutto quello che serviva a lui per il suo piccolo commercio e quello che gli era stato ordinato dai suoi clienti.
Allora il mercoledì sera si portava appresso fasci pesantissimi di fioretti di ferro per le cave di marmo, balle di cartine per sigarette, buste piene di tabacco trinciato e sigari Toscani, lamette per rasoi da barba, abiti e scarpe nuove ed usate, orologi meccanici di marca, e molto altro ciarpame che comunque fosse suscettibile di essere venduto ai paesani.
Perfino le pietrine che si mettevano negli acciarini a benzina tipo Zippo.
Ovviamente insieme a tutta questa roba, per noi affascinante ma inservibile, portava anche qualche regalino per mia madre e per noi.
Per mia madre si trattava di cose da indossare, ma che mia madre non indossava mai perchè le reputava troppo dozzinali.
Dopo tutto era la figlia di Nonno Gaspare, e si sa, la mela non cade mai troppo lontana dall'albero.
Secondo il giudizio di mio nonno era semplicemente fanatica.
Per noi bambini si trattava quasi sempre di cose da mangiare.
Specialità gastronomiche napoletane, vere e proprie leccornìe.
Mi ricordo con struggente nostalgia le pizzette napoletane al pomodoro e mozzarella, i panzerotti ripieni di mozzarella, acciughe, pomodoro e basilico, i tarallucci morbidi glassati e le trecce di pasta lievitata candite e spolverate di zucchero. Oltre alle immancabili sfogliatelle.
E sotto Natale gli struffoli o la cicerchiata con i diavoletti colorati sopra.
Ma che panettoni, pandori, torroni e copeta.
Gli struffoli sono tutt'oggi il mio dolce natalizio preferito.
In pratica, mio nonno tornava da Napoli carico come un asino: allo stesso modo o forse anche di più di come era partito.
Ma la cosa più strana che abbia mai portato da Napoli fu un grosso fucile con una sola canna, un Beretta calibro 20 con tanto di bandoliera piena di cartucce.
Strana, non in assoluto, strana per lui, perchè mio nonno stava ad un'arma come il Papa poteva stare a un romanzo erotico.
Quando si presentò alla porta di casa col fucile in spalla e la bandoliera a tracolla e l'immancabile cappello in testa e le mani piene di buste e sacchetti mia madre non poteva credere ai suoi occhi.
Siccome era in possesso di un'ironia pungente, anzi corrosiva e proprio mio nonno era il suo bersaglio preferito, gli fece cenno di entrare, ma prima...
"Ah! Sei tu? Mi era parso, per un attimo, di avere sull'uscio di casa il brigante Faosaperata."
Non so se sia mito o storia, ad ogni modo il brigante Faosaperata si chiamava così da quando sfuggi ai gendarmi che lo inseguivano sulla neve, facendosene beffa perchè si era infilate le scarpe al contrario, producendo delle tracce che sembravano andare nella direzione opposta alla sua.
Ad ogni modo, dopo essere entrato in casa, mio nonno si era infilato in bagno per darsi una sciacquata e per pensare una replica efficace.
Ne era uscito raggiante e felice come un bambino.
Siccome non si perdeva mai d'animo, e anche per non darla vinta a mia madre, come se niente fosse successo, si era seduto al tavolo della cucina per rifocillarsi e aveva cominciato a raccontare.
"Ad un certo punto della vita uno deve pur prendersi qualche soddisfazione, deve farsi passare qualche sfizio, o dovrebbe soltanto lavorare come un mulo?".
Disse. E proseguì, teneramente:
"Allora oggi ho pensato bene di comprare questo fucile, una vera occasione, perchè il mio desiderio, da sempre, era di averne uno tutto mio. E mi piacerebbe andare a caccia e sparare ai beccafichi sotto gli alberi di fichi dei Vallisconti."
E, aggiunse, che quei beccafichi li avrebbe spiumati  a mano, uno per uno, eviscerati, cotti, arrostiti sul fuoco, e mangiati, caldi caldi, quasi interi, con tutte le ossa, che sono molto tenere e gustose, quanto e più della poca carne che hanno attaccata.
L'idea a me non sembrava affatto malvagia, anzi tutt'altro, mi pareva divertente, anche perchè aveva detto subito che a me sarebbe stato affidato un compito delicato, di grande responsabilità: raccogliere e recuperare gli uccellini caduti a terra prima che li prendesse il nostro Fido, un magnifico esemplare di Setter Laverack, e se li mangiasse lui con tutte le penne.
Naturalmente il sogno di mio nonno restò un sogno realizzato solo a metà.
Come era successo per la Topolino, aveva comprato il fucile ma non poté mai usarlo perchè non aveva la licenza di caccia e non aveva tempo né voglia di studiare per prendersela.

Sono passati quasi cinquant'anni e ancora sto aspettando nel mio letto che nonnu Salvatore venga a svegliarmi per una battuta di caccia al beccafico.
Di quei bei tempi mi restano mille di questi semplici, meravigliosi, colorati ricordi e il piccolo fucile a una sola canna Beretta calibro 20 comprato a Napoli da mio nonno.
I primi sono tutti gelosamente conservati nella mia testa e cercherò di narrali, sebbene non ne sia capace; il secondo resta conservato, altrettanto gelosamente, chiuso nell'armadietto di caccia in cantina.
Insieme ai fucili da caccia veri di mio padre.



smr

domenica 9 dicembre 2012

Storie di paese. 19

Quella volta che Nino Manfredi venne al mio paese: che festa!

                   (nella foto Nino Manfredi e Don Peppino La Valle, da http://www.corenese.it/)



Una volta, al mio paese, è venuto Nino Manfredi.

Era, se non ricordo male, la metà degli anni '70.
Nino Manfredi aveva da poco fatto costruire la sua villetta a Scauri, affacciata sulla celeberrima Spiaggia dei Sassolini.
Un posto che io conoscevo bene, perchè mio padre ogni estate ci portava al mare a Scauri, prendeva un ombrellone per quindici giorni al Lido Delizia e qualche volta, deviando dal consueto tragitto sull'Appia, ci portava a vedere questa spiaggetta deliziosa, fatta tutta di sassolini e resti di conghiglie, ben nascosta dietro a Monte d'Oro.
Negli anni '60, Nino Manfredi, in cerca di un buen retiro in riva al mare, l'aveva trovata e se n'era innamorato subito.
La Spiaggia, poi, fu immortalata nel film "Per grazia ricevuta" (vincitore del premio per l'opera prima a Cannes, nel 1971) dello stesso Manfredi, e nello sceneggiato "Il conte di Montecristo" con Gerard Depardieu e Ornella Muti. 
Altre scene dello stesso film vennero girate in una bellissima villa di Via del Golfo, nella zona di Scauri vecchia.
Nino Manfredi aveva deciso che proprio sulla Spiaggia dei Sassolini, il posto più esclusivo di Scauri, sarebbe sorta la sua villa. 
Oggi quel posto ricade nel territorio del Parco Nazionale della Riviera d'Ulisse e non sarebbe possibile ottenere nemmeno l'autorizzazione per l'installazione  di una cuccia per cani.
Ma quella era l'epoca della cementificazione selvaggia a Minturno e un sindaco democristiano più che compiacente, anzi, lusingato all'idea di ospitare il famoso attore nel territorio del suo comune, facendo uno strappo alle norme edilizie del PRG (in realtà non so se Scauri ne abbia mai avuto uno), gli aveva fatto avere facilmente e rapidamente la tanto agognata concessione edilizia (che, peraltro, non si negava a nessuno ne facesse richiesta, figuriamoci a Mnafredi). 
L'artista lo aveva ripagato facendosi vedere ogni tanto a braccetto con lui, sul lungomare della cittadina tirrenica a fargli un po di  pubblicità con la sua popolarità e a ricambiare il simpatico gesto accettando anche di ricevere la cittadinanza onoraria d'ordinanza.
Ad essere onesti fino in fondo bisogna dire che quella casa, oltre a regalare i famosi tramonti mozzafiato sul mare davanti a Monte d'Oro cari, qualche migliao di anni fa, anche al princeps senatus Marco Emilio Scauro, che diede il suo nome alla cittadina, regalò più di qualche grattacapo al suo leggittimo proprietario.
Successe quando, qualche decennio fa, egli confessò candidamente ad un giornale locale di essere stato costretto a rivolgersi ad un piccolo boss locale della camorra per far cessare la rumorosa attività notturna di un giovane pescatore di frodo, che quasi ogni notte andava a far esplodere le sue bombe nelle acque di fronte alla villa, disturbando ovviamente i sonni dell'attore.
Insorse immediatamente, tuonando strali contro di lui il titolare della parrocchia di S.Albina, il mio compaesano Don Simone di Vito, addidando come pessimo esempio il comportamento equivoco  e quanto meno improvvido dell'inconsapevole Nino Manfredi.




Sempre a Scauri, ma dall'altro lato della riviera, a sud, verso Napoli, nei pressi di Monte d'Argento, aveva la sua casetta di legno da pesca, meno pretenziosa e con affaccio sulle acque salmastre della foce del Garigliano, Zì Petrucciu 'e scafaritthu, un mio compaesano, ricco imprenditore del marmo.

L'aveva fatta costruire per ospitarci gli attrezzi per la pesca ma, soprattutto, per piazzarci una bilancia nuova fiammante: con la quale pescava per il suo esclusivo fabbisogno personale, d'estate, quasi ogni giorno, al ritorno dalla consueta supervisione nelle sue cave.
Pietro Parente era un gourmet: amava il pesce appena pescato, la falanghina fresca, la convivialità e tutta la buona tavola.
Non so come avesse conosciuto Nino Manfredi, ma non dovava essere stato così difficile.
Secondo me era successo, presumibilmente, durante una delle loro scorribande nei numerosi ristoranti locali, alla spasmodica ricerca del pesce fresco del Tirreno, di cui, entrambi erano ghiotti.
E così un bel giorno aveva addirittura invitato il famoso attore al suo casotto sul fiume.
E qualche tempo dopo aveva pensato bene di invitarlo in visita privata al suo paese, per fargli vedere la sua principesca dimora nuova, stategicamente piazzata proprio al centro del paese e - perchè no! - per alimentare un po la sua popolarità presso i conpaesani e il suo personale ego, entrambe cose che non fanno mai male a nessuno.
Nino Manfredi era un tipo ruspante, che di fronte a un bagno di folla e a un pranzo luculliano non si tirava mai indietro, e venne di buon grado a Coreno Ausonio: l'ultimo paese (in senso geografico e non solo) della "sua" Ciociaria.
E si! Perchè, forse non tutti lo sanno, ma anche Nino Manfredi, uno dei più grandi e noti attori italiani di sempre è ciociaro, essendo nato a una cinquantina di chilometri più a nord di Coreno Ausonio, esattamente a Castro dei Volsci. Tra le montagne di Ceprano e Amaseno.


Per la verità - mi sia consentito di aprire una succosa parentesi - la provincia di Frosinone e la Ciociaria hanno dato i natali ad altri due mostri sacri del cinema italiano: a Sora è nato il grande regista ed attore Vittorio De Sica e a Fontana Liri l'altro grandissimo attore Marcello Mastroianni.

E non è finita quì, perchè a Frosinone, nel capoluogo, è nato un altro grande del cinema italiano: Carlo Ludovico Bragaglia, precursore, negli anni venti, del grande cinema muto italiano; mentre da due cittadini di Cervaro nacque, in America, Anthony Minghella, morto prematuramente e autore del grande The english patient, vincitore di ben 9 premi Oscar.


Insomma, la Ciociaria (o Alta Terra di Lavoro) ha dato un bel contributo pesante al nostro grande cinema nazionale.

Chiudo la parentesi.


E fu così che Nino Manfredi, rispondendo ad un gentile invito del caro amico Pietro Parente, in un tiepido pomeriggio di primavera, venne a Coreno, partendo da Scauri o da Castro dei Volsci - non so - e, percorrendo un bel tratto della Cassino-Mare, la nuova SS 630, appena finita ed inaugurata.

Naturalmente tra gli abitanti del paese si era da giorni sparsa la voce dell'arrivo del regista e indimenticabile interprete del fim Per grazia ricevuta, fresco reduce dal Festival di Cannes, girato al paese del collega ed amico Marcello Mastroianni, che tanto somiglia a Coreno Ausonio e agli altri 91 centri della provincia ciociara.
Inutile dire che quella che doveva essere una visita strettamente privata, per l'arrivo in paese di uno dei personaggi più noti e polari di tutta la nazione, si era ben presto e quasi spontaneamente trasformata in una visita ufficiale.
Quando l'attore col suo autista arrivarono a Coreno, facendosi faticosamente largo tra due ali di folla che stazionavano da ore lungo tutto il Viale della Libertà, dal camposanto fino a Piazza Umberto, pargheggiarono la Fiat 1100 all'interno del distributore dell'Agip, grigio e rosso, nuovo di zecca. Sceso dall'auto, il grande Manfredi, fu accolto dal caloroso fraterno abbraccio di Pietro Parente e dalle urla inneggianti dei suoi euforici concittadini.
Inutile dire che quella che doveva essere una breve e veloce passeggiata di qualche decina di metri, fino alla casa dell'imprenditore, finì per durare qualche ora.
Chi si offriva di ospitare Manfredi in casa sua, anche solo per un centesimo di secondo; chi gli offriva da gustare un caffè caldo caldo appena uscito o un bicchiere di vino locale appena imbottigliato; chi gli chiedeva l'autografo e chi invece pretendeva in omaggio una foto di scena con qualche attrice famosa e formosa, magari pure autografata.
Prima di poter arrivare a casa del suo anfitrione ed imboccare il maestoso portale di marmo, Nino Manfredi fu costretto a stringere qualche migliaio di mani, praticamente quelle di tutti i cittadini corensesi; baciare sulle guance qualche decina di bambini piccoli appena nati, offerti dalle loro giovani madri; invitato, anzi strattonato, a posare per centinaia di foto ricordo, compresa quella, in cui sta col parroco Don Peppino Lavalle, che illustra la mia storia; a raccontare qualche gustoso, ma anche pruriginoso, aneddoto sullo sfavillante mondo della celluloide, in lungo e in largo frequentato.


Da quei lontani anni '70, se si esclude l'ospitata di qualche cantante o gruppo rock più o meno di moda o di un personaggio politico di levatura nazionale, democristiano o comunista, nessun altra persona famosa, nessun'altra stella del cinema è più venuta a turbare la sonnacchiosa quiete montana del mio paese.

A meno che l'evento non mi sia sfuggito. Ma penso di poterlo escludere.


Degli interpreti principali di quello spettacolare pomeriggio, Pietro Parente è morto, qualche decina di anni fa, dopo aver impersonato, per gentile concessione del suo amico attore e per il suo perfetto phisique du rhole la parte del capostazione, con tanto di cappello, mustacchi e fischietto, nel film Cafè Express diretto da Nanni Loy.

Nino Manfredi ha continuato, anche saltuariamente, a frequentare la sua villa con affaccio sulla Spiaggia dei Sassolini e le scene dorate del cinema, fino alla sua morte, avvenuta qualche anno fa, nel 2004, a Roma.
Don Peppino La Valle è morto anche lui. Gli sopravvivono, oltre alle fotografie, qualche libro di storia stampato postumo e un sacco di aneddoti, anche non proprio edificanti, diciamo pure compromettenti.
E, purtroppo, sono morte anche una buona parte delle comparse strepitanti che quel giorno parteciparono alla storica kermesse.


A me è piaciuto solo ricordare, a qualche sparuto lettore, un evento curioso ed irripetibile della nostra storia recente, altrimenti assai povera.




smr

sabato 8 dicembre 2012

Storie di paese. 18


Come facevano gli antichi abitanti del mio paese a sapere esattamente o, anche, con buona approssimazione, che ore fossero?
Come facevano a sapere quando era arrivata l'ora di lasciare il lavoro nei campi per arrampicarsi in paese per la notte, attraverso la salita della vecchia, impervia Strada Serra?

Prima della seconda grande guerra gli orologi da polso non erano ancora troppo diffusi in paese, qualche raro esemplare era appannaggio solo dei pochi, ricchi notabili.
Si sarebbero dovuti aspettare gli anni dell'immediato dopoguerra, gli anni della ricca ricostruzione perchè mio nonno, il mitico Nonnu Salvatore, conosciuto da tutti in paese come zì Salvatore gl'arefece potesse cominciare a smerciare e a diffondere - antesignano del mercato parallelo - gli Zenith, i Longines, i Tissot, i Vetta, orologi meccanici a carica manuale, d'acciao o laminati d'oro che qualcuno ancora mostra orgoglioso sul polso raggrinzito dalla vecchiaia, quando mi incontra per strada o viene al negozio per la manutenzione.

Mio nonno li comprava a Napoli, in Piazza Mercato, a Forcella, dietro alla Stazione Centrale, e li rivendeva a rate - un tanto al mese - a Coreno, per una cifra complessiva che spesso valeva uno stimpendio mensile. 
Dovevano essere davvero soldi ben spesi, all'epoca, perchè quegli orologi sono sopravvissuti a molti proprietari e anche a mio nonno.

Stessa storia per gli orologi tascabili; solo chi aveva un ricco zio emigrato in America poteva vantare il possesso di un Elgin d'argentone o di un Roskoph, rumoroso ma indistruttibile, col quadrante in ceramica, se l'avo, invece di andare in America col piroscafo, fosse restato a lavorare nel vecchio continente.

L'orologio della torre campanaria non so se c'era; e se c'era non si vedeva certo dalla campagna.
Allora, siccome dalle mie parti si dice ed è vero: scarpe grosse, cervello fino; la necessità aguzza l'ingegno, a qualcuno di quei villici arguti dev'essere venuta un'idea veramente brillante.
Si doveva cercare, individuare e sfruttare necessariamente un segno naturale sulla montagna di Fammera, che fosse facilmente visibile, anche da molto lontano, da chiunque si trovasse nelle campagne di Coreno ed avesse bisogno di regolarsi.
E così fu.
Fu segnalata una grossa formazione rocciosa, un enorme esemplare di calcare sporgente, bianco abbagliante, proprio a destra della base di uno sperone di roccia più grande, a metà dell'altezza della montagna: quando l'ombra di quello sperone fosse stata proiettata su quella pietra, spaccandola quasi a metà, potevi essere sicuro che, in quella stagione, o anche nelle altre potevano essere: le dodici, l'una, le due o le tre spaccate, del pomeriggio.
A quell'ora convenzionale si doveva interrompere il lavoro e cominciare a preparare la vappata o il saccapà perchè, di lì a poco, si doveva intraprendere la strada del ritorno, lunga e dura. 
La lunga e dura giornata di lavoro nei campi sarebbe finita; ma non la strada per casa: quella attendeva immobile, inesorabile, immutabile, lungo i ripidi declivi della collina i contadini stanchi e sudati.

                (http://www.pinoparente.it/?p=184)


Per ironia della sorte, oggi che gli orologi si sono diffusi e inflazionati - tutti ne hanno almeno uno sul polso - non ci sono più contadini in campagna, che hanno necessità di sapere l'ora.
Nessuno butta più l'occhio verso la roccia dimenticata sulla montagna di Fammera.
Qualche anno fa un gruppetto di buontemponi lo sguardo verso Fammera deve averlo l'ha buttato ancora una volta per accorgersi che la pietra sulla montagna non si vedeva più.
Le pietre, dalle nostre parti, ingrigiscono col tempo,; col tempo e con le intemperie e i licheni, perdono il loro pallore lucente. 
Allora quel gruppetto di amici ha raggiunto a piedi la roccia, armato di pennelli e vernice, l'ha dipinta di bianco, per farla vedere bene da lontano, ancora una volta.
Anche se non si sa bene da chi. 
Forse da tutta la gente del paese, che ha dimenticato la vecchia tradizione dell'orologio di pietra.
Oggi, per vedere l'ora, non serve guardare da lontano una grossa pietra verniciata in montagna; basta guardarsi sul polso. O su quello del vicino.


smr

mercoledì 5 dicembre 2012

Storie di paese. 17


Vi siete mai chiesti come mai sempre ai mariti tocca l'incombenza triste di buttare l'immmondizia? 
Non so da cosa dipenda questa assurda abitudine, ma fatto si è che anche oggi mi è toccato e sono andato.
Solo che oggi è successo un fatto strano.

Mentre buttavo il cartone della pizza, l'occhio mi è caduto all'interno della campana della carta. 
Dentro, galleggiavano in superficie, c'erano tre libri, parevano seminuovi nella semioscurità. 
Naturalmente ho infilato il braccio e li ho raccolti.
Recuperandoli dal sicuro "riciclaggio" al quale erano stati condannati.
Sapete, sono curioso come una scimmia, e non ho resistito.

Il primo libro s'intitola: 
"Perchè ai pinguini piace freddo?
Sottotitolo: "Le risposte alle domande che non vi siete mai sognati di fare". 
Lo giro per leggere la quarta di copertina, ma il mistero invece di diradarsi s'infittisce.
Un'altra serie di domande topiche. 
A raffica, ma ve ne risparmio alcune, le più balzane: 
perchè gli gnocchi tornano sempre a galla?; 
sarà poi vero che i gatti cadono sempre in piedi?;
quante goccie d'acqua ci sono in una nuvola?; et alia. 
Spero, almeno, che quel certo Mick O'Hara, come si è firmato il curatore, abbia le risposte giuste e definitive a questa bella scartavetrata di quesiti esistenziali. 



Il secondo libro ripescato s'intitola: 
"Lorelei" di Ionel Teodoreanu. 
Da quel poco che ho potuto arguire sfogliandolo subito dev'essere scritto in lingua rumena.
L'autore, come mi hanno rivelato le successive ricerche su Google, morto prima che io nascessi, è stato uno scrittore e avvocato romeno, molto noto in patria, meno fuori, principalmente ricordato per i suoi racconti autobiografici legati all'infanzia, all'adolescenza ed a ricordi di famiglia. 
E si è anche meritata una citazione sulla Treccani. 
A pensarci bene penso che questo, forse non gli altri due, l'abbia buttato Veronica, la badante rumena di una vecchina che abita poco lontano dal centro raccolta rifiuti.
Anche se non penso che leggerò mai il suo libro, lo terrò da conto, come ricordo. 
Anch'io sono appassionato ai ricordi della mia adolescenza, come Teodoreanu e soprattutto come Bergman.


Il terzo e ultimo libro è: 
"Mente sana in corpo sano" di L.Ron Hubbard, il più grande autore di best sellers sul miglioramento personale, come fa notare una debita nota sulla sovracoperta. 
Questo nome non mi è nuovo! Mi dico a mente.



Ma non sarà mica il fondatore di scientology? Mi chiedo.
Si! E' proprio lui. 
Allora, mettiamola così, siccome non mi sarei mai, eppoi mai, sognato di comprare un suo libro, approfitto del ritrovamento incidentale per darci un'occhiata, ma senza farmi nessuna illusione sulla validità del contenuto.
Preferisco, piuttosto, fare un corso accelerato di rumeno e leggere il libro di Teodoreanu.
 

Dopo tutto, come diceva Proust:     

"Quando di un antico passato non sussiste niente, 

dopo la morte degli esseri, 
dopo la distruzione delle cose, 
soli, più fragili ma più intensi, più immateriali, più persistenti, più fedeli,
l’odore e il sapore restano ancora a lungo, 

come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, 
sulla rovina di tutto il resto, a reggere, senza piegarsi,
sulla loro gocciolina quasi impalpabile, 

l’immenso edificio del ricordo."


smr

Storie di paese. 16


Pietro: "nomen est omen".
E mai come in questo caso è proprio vero che il nome è un presagio: perchè Pietro, l'ultimo scalpellino corenese, forse il più bravo, ha associato, anzi, legato indissolubilmente la sua vita alla pietra che ha lavorato per una vita.
Buona parte della sua esistenza, nei fatti, l'ha passata seduto per terra, a scalpellare i blocchetti di pietra per farne macère, i caratteristici muri a secco, costruiti solo con cubetti di pietra locale, smussati a colpi di mazzuola e scalpello, e messi uno sull'altro senza malta o altri collanti artificiali.
E la sua opera gli è sopravvissuta.
Lui, che non era certo un omaccione, tutt'altro - era corto, smilzo e nervoso - con la passione, la necessità e l'esperienza aveva sviluppato una tecnica sopraffina: riusciva a individuare ad occhio il punto esatto dove abbattere il colpo di mazzuola per togliere l'eccesso di calcare e squadrare perfettamente il blocchetto che reggeva tra le due ginocchia ossute.
Dalla piattezza, dalla geometria e dall'angolo della pietra dipendevano, non solo l'estetica, ma anche la saldezza e la robustezza della macèra
Se erano state fatte a regola d'arte, e quelle di Zi Petrucciu lo erano, le macère sarebbero state così resistenti da stare in piedi per i secoli e i millenni a venire.
Se fossero state fatte - come qualche volta è accaduto - con imperizia, pressa e approssimazione sarebbero state destinate a crollare miseramente, accartocciandosi a terra, pietra su pietra alla prima pioggia violenta che le avesse flagellate.


L'uso di delimitare le proprietà e di terrazzare il poco terreno scosceso per renderlo coltivabile è molto antico.  
Affonda le proprie radici molto indietro nei tempi, bel oltre i mille anni che distano dalla fondazione ufficiale di Coreno.
Ci riporta indietro di millenni, direttamente ai miti pelasgici.
La leggenda più accreditata, narra, infatti, che, quando il dio Saturno fu spodestato dal figlio Giove, scappò dall'Olimpo e fu costretto all'esilio in Ausonia (l'antica Italia), si nascose nel Lazio (dal latino: latere, appunto, nascondere)



Accolto amichevolmente dal dio Giano, solidale con lui, avrebbe fondato le cinque città mitologiche saturnie.  
Tutte dai nomi inizianti per A: Arpino, Anagni, Alatri, Arce, Atina.
In più da buon dio delle messi abbondanti insegnò l'agricoltura alle genti di quei luoghi.
E quelle ancora oggi ne vivono. 
Infine generò il primo re del Lazio: Pico. 
Altro nome molto noto in Ciociaria: è anche il nome di un paese, il paese natale del grande scrittore Tommaso Landolfi. 
E, per fare un affronto al figlio, usurpatore di troni divini, avrebbe anche svelato agli antichi abitanti della Ciociaria Felix il segreto della costruzione delle mura ciclopiche o pelasgiche che sorgono solo in Ciociaria e nell'Alta Terra di Lavoro.

"Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante." 
(dal libro di SMR: "Le stagioni della lattaia", presentazione dell'autore) 

Ora che anche gli ultimissimi scalpellini - colleghi di Zì Petrucciu - che, alla fine della loro carriera, lavoravano per hobby e non per soldi, se ne sono andati tutti, quasi contemporaneamente, c'è un altro modo per fare i muri a secco: è stato brevettato di recente da una società marmifera, che tra i suoi innovativi prodotti annovera trionfalmente i cd. QUBA STONES (detti anche ...gabbioni): pietre informi raccolte ed infilate in una gabbia di rete metallica sigillata maglia per maglia. 



 Ma i Quba Stones sono tutta un'altra cosa, rispetto alle macère di Zì Petrucciu.

La pietra è la stessa, e anche la funzione.
Ma manca il suono ritmato della mazzuola che si abbatte sul masso, manca la fatica umana, manca la polvere da respirare e, soprattutto, manca la ...poesia che solo i vecchi artigiani sapevano infondere nel loro lavoro.
 

Non so se Zi Petrucciu abbia appreso la sua arte di maceratore dal dio Saturno: quello che è certo è che se l'è portata dietro, con se, nell'Olimpo degli scalpellini. 
...Se esiste davvero.

smr

martedì 4 dicembre 2012

Storie di paese. 15


 Ogni anno di questi tempi mio padre prendeva me e mia sorella Anna e ci portava in montagna, un pomeriggio di un giorno feriale, subito dopo pranzo.
Facevamo una lunga passeggiata nei boschi, in salita, alla ricerca di un bel ginepro da usare come albero di Natale.
Era diventata una tradizione; una bella tradizione; la nostra bella tradizione natalizia.
Dovevamo cercare nella rada macchia mediterranea delle nostre montagne un ginepro abbastanza dritto e pieno, con la classica forma a goccia, non più alto di un paio di metri, facilmente trasportabile.
Più o meno come quello della foto.
E non era facile trovarlo perchè il ginepro, dalle nostre parti, raramente diventa un albero vero; spesso resta un arbusto informe o assume la forma tonda di un cespuglio basso.
Qualche volta, infatti, non lo avevamo trovato con quelle caratteristiche precise.
Ma non desistevamo: mio padre aveva affinato una buona tecnica e riusciva ad assemblarne ad occhio anche due tre pezzi presi da due tre piante diverse.
Quindi tagliava i rami da alberelli diversi e, una volta tornati a casa, li legava stretti stretti fra loro col filo di ferro e gli dava la forma di un vero albero di Natale.
La chioma di aghi verdi, fitta fitta, non permetteva a nessuno di vedere il trucchetto: le palline e gli altri addobbi avrebbero fatto il resto.
Una volta individuata la pianta o le piante che  facevano al nostro bisogno, dovevamo abbattere il ginepro dalla base del tronco, ma non ci sentivamo in colpa: un vero spirito ecologista, negli anni '60,  non era ancora diffuso dalle nostre parti.
Portavamo sempre con noi una sega, un'accetta e una corda: con le prime due facevamo un lavoro pulito a tagliarlo quasi da terra e ad aggistare il tronco, con la corda lo legavamo, trascinandolo sull'erba, per portarlo fino alla strada.
Da lì mio padre l'avrebbe portato a spalla fino a casa.

La vera festa era quando l'albero eletto arrivava finalmente nel salone di casa.
Dopo aver posizionato per bene l'alberello su una base di marmo, di quelle che reggono gli ombrelloni dei bar in estate, lo portavamo nell'angolo vicino alla finestra che dava su Viale della Libertà e cominciavamo ad addobbarlo con palline, festoni, lucette.
Per ultimo mio padre che ovviamente era il più alto posizionava il puntale dorato.
Solo a quel punto la sua frase d'obbligo.
Rivolto a tutti noi, che assistevamo in silenzio al rito conclusivo, con una espressione tra il serio e il faceto, come solo lui sapeva fare così bene:
"La vita è come l'albero di Natale - diceva - c'è sempre qualcuno che rompe le palline."
Poi chiudeva il suo breve discorso d'inaugurazione con la classica raccomandazione d'obbligo:
"Voi però cercate di evitare di farlo... almeno per quest'anno."

Ingmar Bergman racconta nelle sue memorie:  
"...sono profondamente fissato alla mia infanzia. Alcune impressioni sono estremamente vivaci: la luce, l'odore, tutto... E' tutto come in un film. Da pochi frammenti di un film, che ho impostato ed è in esecuzione, posso ricostruire tutto nei minimi dettagli. L'unica cosa che non posso ricrearne sono gli odori."
Aveva ragione: gli odori dell'infanzia non si possono ricreare; puoi solo augurarti di ri-sentirli, anche solo per caso.
A me basta ri-sentire l'odore penetrante del ginepro e della sua resina per rituffarmi nei miei ricordi d'infanzia degli anni '60: quell'odore acre, che avrebbe impregnato la casa per quasi un mese, era il primo segnale invisibile ma certo che di lì a poco, a casa nostra ci sarebbe stata una grande festa.