Quest'anno ricorre il decimo anniversario della pubblicazione del mio primo libro, la raccolta di racconti paesologici ''Le Stagioni della Latttaia''. E ricorre anche il 31° anniversario della morte di mio padre Ruggiero Antonio, detto l'Americano, metto qui l'intero capitolo del mio libro dedicato a lui.
Piccola Storia n. Sette: L’aula di mio Padre.
(1928-1990)
Per chiunque sarebbe problematico - se non impossibile - mettere a
confronto un uomo e un luogo. Anche se il luogo è dove una persona,
quasi fondendosi con quello, ha passato una buona porzione della sua
vita. Ma per me mio padre e la sua aula si somigliavano davvero. Gli
accredito alcune caratteristiche comuni. Potevano apparire, secondo i
momenti e le occasioni, ugualmente austeri e solenni o ridenti e
informali, severi e spartani o aperti e accoglienti. Potevano essere,
secondo le necessità, sobri, rigidi, seri, oppure diventare esuberanti,
duttili, perfino divertenti. Come? Cercherò di spiegarlo più avanti.
Mio padre era maestro, insegnava alle Elementari. L’ha fatto per più
di trent’anni. Quasi tutti passati nell’aula ospitata al primo piano
della scuola. Immediatamente dopo l’androne - dove attacca il lungo
corridoio che una volta portava al refettorio. Quando lo percorro,
ancora mi sembra di fiutare nell’aria l’odore del latte condensato che
le cuoche ci servivano a colazione - tutte le sante mattine. Non
andava meglio a pranzo - ci toccava una sbobba di riso e fagioli.
Come spesso succede quando si è piccoli, l’aula, già enorme, mi
appariva immensa, smisurata. E lo diventava ancora di più per
l’intensa luminosità che, acquisita con le prime luci dell’alba,
conservava per l’intera giornata. Quell’invidiabile pregio proveniva
dalla scelta azzeccata di orientare a mezzogiorno i due finestroni.
Adesso è cambiato tutto, solo i muri sono gli stessi. Allora, a destra
della porta d’ingresso, sul lato più corto, c’era una grande lavagna -
da sempre nello stesso angolo. Messa di sbieco, rispetto allo squadro
delle pareti, per consentire alla classe di seguire perfettamente, da
ogni prospettiva, le sue spiegazioni. Sovente il maestro impartiva da
lì, in piedi, le sue lezioni. Più avanti la cattedra. Rialzata su un’ampia
pedana di legno - come era in uso in quegli anni. Serviva a creare
negli alunni un sempre utile metus. Alle spalle del maestro,
inchiodato al muro, il crocifisso - di norma in un paese di radicata confessione cattolica - corredato dall’immancabile rametto d’ulivo
coperto da uno strato di polvere spesso un anno. Spuntava sulla testa
del cristo - infilato tra le spalle e la piccola croce di legno. Quel
piccolo ramo benedetto era offerto con reverenza - per la ricorrenza
delle Palme - da un alunno zelante. Lo stesso che era solito fornire
ingenuamente la bacchetta, sempre d’ulivo, che poi sperimentava per
primo. Ne saggiava l’elasticità e l’efficacia dei colpi stendendo
arrendevole le piccole mani, con le palme rivolte verso l’alto - in
piedi davanti a lui. Sotto al crocifisso la foto del Presidente. Allora -
mi sembra - era Segni. Sul lato destro dell’aula un armadio marrone
di fòrmica e ferro che mio padre teneva chiuso a chiave. Dentro,
ordinatamente disposto sui ripiani interni, c’era quanto potesse
servirgli per l’attività didattica. Poche cose. I registri di classe;
blocchi da disegno con fogli ruvidi e lisci; cartelle per documenti;
pile di quaderni a righe e a quadretti con copertina nera e profilo
delle pagine rosso; penne Bic blu e nere raccolte in fasci tenuti con
l’elastico; lapis di grafite; matite colorate metà blu metà rosso
indispensabili per le sue correzioni; risme di fogli formato protocollo
per i compiti in classe; una scatola di latta contenente qualche
galletta per uno spuntino veloce; caramelle alla menta per lui, mou
per premiare decorosamente l’acume degli scolari; giochi elettrici
fatti artigianalmente con fili luci campanelli e pulsanti, costruiti per
verificare i riflessi e la preparazione; un’utile spillatrice a pinza
verde; una maglia di lana da impiegare per un rapido cambio.
Succedeva spesso che sudasse giocando a pallone coi ragazzi.
Ricordo che l’intervallo della sua classe costituiva l’invidia
dell’intero istituto. Era l’unico maestro che portava fuori gli alunni,
per farli giocare a pallone in cortile - maschi e femmine, insieme.
Tutti gli altri - compreso me, la mia classe e il resto della scuola -
uscivano una sola volta l’anno - non certo per giocare a pallone. In
autunno inoltrato. Quando c’era la Festa degli Alberi. In fila per due.
Evviva! La lunga parete a sinistra della porta, la più spaziosa,
ospitava le smisurate carte geografiche d’Italia, d’Europa, del
Mondo; acquerelli scelti tra i lavori migliori degli alunni più
promettenti; un gigantesco abbecedario illustrato, con disegni a
colori pastello, che aveva pitturato lui stesso. In fondo all’aula si stagliavano due grandi stipi di legno, con ante di vetro trasparente. A
malapena riuscivano ad ospitare i libri in carico alla biblioteca.
Poche centinaia, ma stretti, pressati - come dovessero schizzare fuori
da un momento all’altro. Infilati di taglio sui ripiani, in perfetto
ordine, rivolti in favore dello sguardo di chi li cercasse. Tutti
immancabilmente riportavano, incollata sul dorso, la lista grigia di
catalogazione. Tre righe, vergate a mano in calligrafia con la sua
stilografica. In mezzo alle librerie il maestro aveva accatastato i
pochi libri residui, i meno richiesti, quelli da restaurare, le riviste, i
settimanali dei quali il centro di lettura aveva l’abbonamento. Tutto
quello che serviva per le attività ricreative era stato appartato
ordinatamente dentro capaci scatoloni di cartone. Spiccavano su tutto
il resto due o tre paia di guantoni da boxe in pelle. Li conservava
gelosamente dalle sue esperienze giovanili - come fossero sacre
reliquie. Gli servivano solo per scambiare allusioni di pugni con i più
audaci. I pochi che osavano accettare la sua sfida. Stavano insieme a
diversi palloni di gomma e di cuoio marrone, alcuni gonfiati, in
attesa d’essere usati, altri ancora sgonfi, tenuti di riserva; corde da
allenamento coi manici di legno per saltelli sul posto; cavalletti di
metallo per la corsa ad ostacoli; quant’altro fosse utile per gli sport
che si praticano all’aria aperta. La stanza era illuminata da due grandi
lampadari sferici. Li chiamavo confidenzialmente globi. Erano fatti
di un vetro opaco. Pendevano minacciosi dal soffitto, sostenuti
miracolosamente da sottili tubi di metallo. Non passavo mai sotto la
loro perpendicolare. Avevo una fobia: che si staccassero
all’improvviso e, cadendo a piombo, mi colpissero in testa. Allora
erano insostituibili accessori che trovavi in tutte le scuole e in tutti
gli uffici pubblici. Oggi non si usano più. Mi capita di vederne
qualcuno al mercatino. Sono considerati oggetti di modernariato.
Nella sua aula, di mattina teneva le regolari lezioni scolastiche. Di
sera la mutava in biblioteca. Per tutti diventava il Centro di Lettura.
L’aula di mio padre e il Centro di Lettura erano la medesima cosa.
Iniziai ad entrarci da piccolo. Non avevo ancora tre anni - da poco
avevo imparato a camminare con speditezza. Prima lo facevo solo
per salutarlo o per rivedere i suoi alunni. Avevo finito per conoscerli
tutti ed ero diventato la loro mascotte. In seguito ci andavo a prendermi i romanzi di Salgàri. Quando imparai a leggere continuai
ad andarci quasi tutti i giorni. A ripensarci ora mi accorgo che da
piccolo passavo molto più tempo assieme a mio padre. Quando ho
iniziato a volare da solo, i nostri rapporti si sono fatti, gradualmente,
meno assidui. Anche quando la sua destinazione mutava, l’aula di
mio padre restava densamente popolata. Era anche l’unico posto in
paese dove ci si potesse incontrare e, magari, fare un po’ di salotto.
Non c’è più un posto come quello. Lo chiamano progresso. Ma non
tutta la modernità produce vero progresso. Nelle poche ore in cui era
aperta, la biblioteca era molto più frequentata dell’unico bar che
avevamo in paese. Ci andavano gli scolari che avevano seguito le
lezioni del mattino; appassionati lettori; molti adulti; i ragazzi della
squadra di calcio. In pratica tutti quelli del paese. All’epoca in paese
si giocava solo al pallone. Non era raro sentire drappelli di giovani
che, incontrandosi per strada, si chiedevano: ”Andiamo al centro di
lettura?”. E s’avviavano in gruppo, verso l’edificio scolastico. Chi ci
andava in genere lo faceva per consultare le grandi enciclopedie.
Allora nessuno le possedeva, solo il Centro di lettura le aveva. Ora
sono su CD-Rom. Oppure ci si andava per prendere in prestito le
opere dei narratori classici. I best-sellers non c’erano - o ci erano
sconosciuti. La nazionalità dello scrittore era ininfluente sulla scelta
del libro. Che gli autori fossero inglesi o russi, francesi o italiani,
costituiva particolare totalmente trascurabile. Interessava solo poter
trovare quello che oggi, con una punta di snobismo, si sente sempre
più spesso definire cibo per la mente. Evidentemente allora si
mangiava di più, ma quel nutrimento era raro e costoso. Come per
una strana metamorfosi, ogni sera, dal lunedì al venerdì, per tre ore,
dalle sedici e trenta alle diciannove e trenta, la destinazione dell’aula
cambiava. Tutto quello che di giorno ne costituiva l’arredamento
scompariva agli occhi dei frequentatori. Si continuavano ad usare
solo i banchi e gli scaffali. I registri di classe rapidamente sostituiti
da un massiccio brogliaccio, sul quale mio padre, preoccupato di
tenerlo in perfetto ordine, provvedeva ad annotare con la stessa
precisione i prestiti e le rese. Forse esiste ancora, coperto di polvere,
dimenticato in uno scatolone, tra le vecchie cose senza vita della
biblioteca che oggi sarebbero ancora utili. Anche la lavagna mutava il suo utilizzo consueto. Accadeva di
regola il venerdì sera. Era in vista la partita del Campionato di Terza
Categoria. Allora diventava strumento indispensabile per illustrare
gli schemi calcistici che lui stesso aveva ideato. Li spiegava ai
giocatori accompagnandoli a lunghi discorsi. All’epoca mi parevano
noiosi. Persino indecifrabili, in certi passaggi. A volte ricorreva pure
a ridondanti frasi in latino. Pochi le capivano davvero - quasi
nessuno. Ma lui non voleva sfoggiare la sua cultura, nemmeno
mettere in difficoltà i suoi ragazzi. Lo faceva, con autorevolezza che
allora m’incantava, solo per rafforzare i concetti. Cominciai a sentire
“ubi maior minor cessat” - lo diceva sempre - e altre strane frasi in
latino, proprio da lui, al Centro di Lettura. Al rapido tracciato del
rettangolo di gioco faceva seguire un florilegio di frecce, numeri,
direzioni, spostamenti, che delineava con tratto sempre preciso, quasi
con pignoleria. Usava gessetti bianchi o colorati. Spiegava
ripetutamente tutti i movimenti. Li ripeteva fino a quando i giocatori
non li avevano mandati a memoria. Coinvolgeva tutti nella
discussione, in una sorta di accademia del calcio. Aveva adottato una
specie di alto metodo socratico applicato al pallone. Tutti dovevano
dimostrare di essere in grado di riprodurli fedelmente su un vero
campo da giuoco. Alla fine della lezione lo accertava interrogandoli.
Non smetteva mai d'essere maestro. Era buio già da un po’ quando
spegneva le luci, chiudeva a chiave le porte e i suoi ragazzi
sciamavano in Piazza della Quercia. Puntuale, alle otto di sera, uno
scoppio di tosse da fumo e il pesante portone di casa sbattuto con
forza alle spalle - per bloccare il chiavistello di ferro - ci avvertivano
che era arrivato in fondo alle scale di casa. Finalmente tornava da noi.
L’unico abilitato a rimboccarci le coperte.
Oggi, a più di quarant’anni da quei giorni felici, passo sempre
davanti alla scuola. E’ sulla strada che percorro ogni giorno - non
molto lontano da casa. Non entro mai. E’ ancora doloroso. Non posso
dimenticare chi c’era - quello che vi accadeva. Lo rivedo come nei
fotogrammi rallentati di un film. Ci riesco con naturalezza solo quando si vota. Quando
l’organizzazione dei seggi, per due o tre giorni, stravolge l’aspetto
dell’aula che apparteneva a mio padre.
Ma questa è un’altra storia.
Solo una volta ho trovato il coraggio e la forza d’entrare. Ero da
solo. Il portone schiuso e l’edificio apparentemente deserto
costituivano una tentazione troppo grande. Non ho resistito. Ho fatto
il gran passo. Non l’avessi mai fatto. Dentro quel guscio, ormai
vuoto, mi sono sorpreso a considerare, con concretezza mista a
delusione, che l’aula di mio padre non ha più la stessa luce di allora.
Un bel giorno qualcuno ha deciso di blindare le grandi finestre
con due pesanti inferriate grigie.
Quelle inferriate, tristi e grigie, e l’assenza, ancora più triste e
grigia, del maestro, hanno oscurato, per sempre, ai miei occhi
.....l’aula di mio padre.
Ancora due o tre cose sull'Americano....
era mio padre.
Da piccolo ho sempre pensato che mio padre fosse l’uomo più forte
del mondo. Forse l’idea non è proprio la più originale, dato che,
probabilmente, tutti i figli, da piccoli, pensano lo stesso dei loro
padri. Lui però aveva davvero un fisico roccioso. Pareva una statua
scolpita in un blocco di granito. Vigeland: ne ho visto centinaia,
plasmate come lui. Conservo una sua fotografia fatta al mare. E’
l’emblema di quanto vado dicendo. Era giovane - avrà avuto neanche
trent’anni - e un autentico atleta. Sostiene mio zio a cavalcioni sulle
spalle, e due amici con la sola forza delle braccia e delle gambe
piantate saldamente nella sabbia. Sorride. Appare divertito. Per nulla
affaticato dallo sforzo - che pure doveva essere immane. Mio padre è
morto già da quasi vent'anni – mi sembra ieri. Se n’è andato quando
tutti avevamo ancora bisogno di lui. Ce l’ha portato via un cancro
allo stomaco. Causa del decesso: Adenocarcinoma Gastrico. L’unica
malattia che temeva davvero. Tutte le altre le avrebbe prese a calci
nel culo. Quella no. Di quella aveva veramente paura. Si era convinto
che anche sua madre - mia nonna - ne fosse morta. E anche lei
prematuramente. Lui stava già cominciando a morire. Ma nessuno di
noi s’è accorto che era gravemente ammalato. Neanche il dottore
incapace al quale si era rivolto fiducioso - voleva curarlo col
Ranidil?! - che per vedergli dentro lo stomaco gli ha cacciato dieci
volte un tubo nero in gola. Solo lui presagiva la fine del viaggio.
Ricordo - chi potrà mai dimenticarlo - l’ultimo sguardo rivolto dalla
strada, verso casa, in alto, prima di salire in macchina, il giorno che
partì per il S. Eugenio. Era avvilito, sapeva che non sarebbe più
tornato. Era una luminosa mattina di giugno, ma una notte buia gli
era già calata addosso. La sua fine improvvisa a tutti è sembrata una
beffa. Proprio l’organo che permette agli uomini di sopravvivere,
dentro di lui si è rifiutato di funzionare ancora. Come impazzito, l’ha ucciso. Quel male è ferocemente subdolo. Ti attacca da dentro,
silenzioso e invisibile. Ti consuma inesorabile, mentre continui a fare
tutto normalmente. Spesso non ti accorgi d’averlo se non quando è
troppo tardi. Allora ho capito veramente come siano fragili gli
uomini, anche quelli che sembrano forti. Come siamo fragili.
Reclamando dall’uomo distratto che stava di guardia il permesso
d’entrare da solo nella stanza fredda, ho voluto salutare mio padre
per l’ultima volta. Siamo stati insieme per lunghi minuti, ma
entrambi eravamo soli. Lui impietrito, avvolto in lenzuolo bianco; io
senza parole, raccolto in una preghiera muta, il viso segnato dalle
ultime lacrime che avevo da versare. Ma, come per un miracolo, il
suo volto non era più sofferente. Papà sembrava guarito - restituito
per sempre all’espressione serena di sempre. Quella che nelle eterne
settimane precedenti avevo dimenticato. Ho avuto l’audacia di
scoprire il suo corpo. Era nudo sotto il sudario. L’ho osservato per
interminabili momenti. Ho letto, cucita nelle sue carni, una lunga
inutile ferita - testimone della scienza impotente che s’arrende al
mistero insopportabile della Vita e della Morte. E’ stata la prova più
dura di tutta la mia vita. Sembra mostruoso, ma può essere lecito,
scoprirsi a pregare perché una persona che ami non viva più,
sofferente, ma si spenga al più presto. Oggi, quando mi capita
d’entrare nella chiesa deserta percepisco ancora gli echi del
necrologio commosso del suo collega più caro - interrotto dai
frequenti singhiozzi degli altri. Uscendo, avverto lontano il crepitio
sordo dell’ultimo applauso al passaggio della bara portata a spalla
dai suoi amici più fedeli - mentre sulla piazza cala, come un velo
pesante, immateriale e dolente, il fiacco rintocco della campana a
martello dei morti. Le attività di mio padre hanno contribuito a farne
un punto di riferimento nella comunità del paese - per l’istruzione, la
cultura e la ricreazione. Gli hanno meritato la considerazione
unanime d’eccellente e moderno insegnante. Oltre che di campione
impareggiabile nella organizzazione del tempo libero - in particolare
del calcio. In paese è considerato l’eroe eponimo del pallone. Al
pallone ha legato indissolubilmente il suo nome. Allenava i giovani
per farne calciatori, ma in realtà il suo vero disegno era più
ambizioso: cercava di formare uomini. Amava anche il pugilato. Quando l’incontro era nobile arte,
eleganza e strategia veloce - una danza, un balletto. Non massacro
violento. E gli piaceva la caccia. Quella ecologica, se ne esistesse
una. Rispettava profondamente la natura e gli animali, e interpretava
l’attività venatoria senza accanimento. Era capace di stare fuori
un’intera giornata, dall’alba al tramonto, attrezzato di tutto punto, il
fucile carico sempre in spalla, la sicura innestata, senza sparare un
solo colpo. Non riteneva un fallimento il rientro a casa, dopo una
battuta, senza aver ucciso bestiole indifese. Un carniere che restava
mestamente vuoto non lo innervosiva. Sembrava invece un evento in
grado di procurargli una sensazione di piacevole serenità. Quando
era in quello stato gli leggevi negli occhi un benessere quasi
euforico.
Mio padre è ricordato in paese per l’innata capacità di motivare i
giovani e avviarli alla piena autocoscienza. Era abile ad intuire le
inclinazioni degli allievi - anche le più nascoste - sapendole
indirizzare sapientemente, e senza soperchierie, verso un corretto
sviluppo delle attitudini e della personalità. Queste doti non comuni
hanno contribuito in modo decisivo al coinvolgimento di generazioni
intere ed alla buona riuscita delle sue occupazioni professionali e
sociali. Gli hanno fatto guadagnare la stima e la gratitudine degli
allievi, ma soprattutto dei loro genitori, che vedevano in lui un
ulteriore, insperato supporto per l’educazione dei figli.
Mio padre aveva una personalità forte. Era una persona concreta,
determinata, in possesso di un carattere schietto e leale, a volte
spigoloso, esigente, con parametri di valutazione rigidi. Ma prima di
imporli agli altri, aveva provveduto a comandarli a se stesso. In
genere gli adolescenti crescendo tendono a sviluppare un rapporto
conflittuale coi genitori. Provano un senso d’avversione, li rifiutano,
hanno propensione a escluderli dalle loro vite. Come se ne
vergognassero. A me non è mai successo con mio padre. Lui era il
mio vanto. Una parte fondante della mia esistenza - fin quando c’è
stato. E, attraverso i suoi preziosi insegnamenti, anche dopo.
Era una di quelle persone, ormai rare, che sceglieva anche di
essere impopolare, se serviva a far prevalere la verità. Diceva sempre
quello che andava detto, non quello che gli conveniva di più dire; sceglieva sempre di fare quello che andava fatto, non quello che gli
conveniva di più fare. Sapeva bene che un tale comportamento
intransigente non gli avrebbe procurato certo vantaggi - piuttosto
qualche problema. Ma lui prendeva sempre una parte. Era una delle
rare persone che ho stimato e ammirato. E che avrei stimato e
ammirato molto, anche se non fosse stato mio padre. E se non avessi
mille altre ragioni, me ne basterebbe una sola: l’ho visto spendere la
sua intera vita per predicare, in ogni occasione utile, ma senza un filo
di retorica la correttezza, l’onestà, la sincerità. A giudicare dai
risultati ottenuti il suo è stato un lungo inesaudito soliloquio.
Mio padre ha cercato d’insegnarmi la bellezza e la
straordinarietà della vita; ma anche la complessità e la difficoltà del
vivere quotidiano. Forse inconsapevolmente mi ha anche educato al
piacere; molto meno al dovere. E, chissà, che per questo motivo in
debba essergli grato, ancora di più. Mi metteva costantemente in
guardia sugli ostacoli che ognuno incontra se decide di vivere la sua
vita pienamente; se si dispone ad assecondare la propria libertà di
spirito; stabilisce di esercitare il libero arbitrio. Non mi ha mai
consigliato altrimenti, non ha mai tentato di persuadermi, o
costringermi, a vivere la mia vita in maniera diversa.
Mi ha lasciato in eredità la sua alopecia, ma anche la sua
fierezza e la sua personale filosofia di vita - essenziale e sincera. A
quella mi sono ispirato, costantemente. Cercando, nel contempo di
costruirmene una che fosse solo mia.
In passato mi è stata preziosa. Lo è ancora di più in un’epoca di
valori ignorati, quando non oltraggiati. Sono perfettamente cosciente
di non avere le sue qualità, e anche consapevole delle differenze che
ci distinguono. Angustiato dall’intimo convincimento - che a volte si
fa certezza - di non poterlo eguagliare, non mi resta che custodire
gelosamente l’orgoglio di essere suo figlio.
smr