Oggi sarebbe stato il compleanno di Ingmar Ernst Bergman.
Il più grande regista di tutti i tempi è nato il 14 Luglio del 1917 a Uppsala, una cittadina a nord di Stoccolma, in Svezia.
Per ricordare questa data importante metto qui la presentazione, da me firmata, del mio libro "Il Genio di Uppsala". Il più completo ed esaustivo (circa 330 pagine) tra tutti quelli che ho dedicato al grande cineasta.
Chi avrà la costanza e la curiosità di leggerlo si farà anche un'idea della sua grandezza.
Presentazione
La ragione, direi anzi la necessità, che ha costituito la scaturigine
primordiale di questo libro, deriva dalla volontà di sgombrare il campo da
alcuni luoghi comuni che da molto, troppo tempo accompagnano il cinema
di Ingmar Bergman.
L'autore non ritiene accettabile, infatti, la posizione di rifiuto - quasi
pregiudiziale - che molte persone (anche alcune di quelle che si autodefiniscono
colte) assumono davanti alla pachidermica filmografia di
Bergman, accampando come giustificazione, assai generica e frettolosa, la
ragione secondo la quale i suoi film, sovente e tranne qualche rara
eccezione, siano tristi, difficili da capire, noiosi, se non addirittura
pericolosa causa di depressione psichica.
Ritengo, quindi, partendo dal semplice assunto che tutti noi finiamo per
amare solo ciò che conosciamo, rifuggendo di conseguenza, da tutto ciò che
ci è ignoto, sia importante divulgare, spiegandolo a chi lo ignora (appunto),
il grande cinema di Bergman, e che la diffusione e la conoscenza siano un
ottimo viatico alla piena e profonda comprensione delle tematiche in esso
contenute.
Sicuro che - come mi piace dire - un mondo popolato da un gran numero di
bergmaniani sarebbe certamente un mondo migliore di quello sul quale
viviamo.
A proposito del grande cinema di Ingmar Bergman, l'autore di questo
saggio ha maturato, da tempo e nel tempo, alcune opinioni personali, che
vuole qui rapidamente elencare e spiegare all'eventuale spaesato lettore.
Esse sono maturate in un quarto di secolo di appassionata ricerca, di studio,
informazione e documentazione sull'opera di quello che (quasi)
universalmente viene considerato: the best director ever. Ma, l'autore deve
pure ammettere che, forse, quelle opinioni non possono essere considerate
esclusivamente personali, nel senso che esse potrebbero essere agevolmente
condivise da tutti coloro che Bergman lo amano, almeno quanto lui.
Tuffarsi nella filmografia di Bergman è come effettuare una discesa nel
mallstroem dei sentimenti umani; significa essere rapiti e restare
imprigionati in una vera e propria tempesta di stati d'animo contrapposti,
spesso contrastanti, spesso inesplicabili.
Prima opinione
Ingmar Bergman ha, in qualche modo, legato la sua fama globale ai
cineforum. Anzi, si può affermare, senza timore di essere smentiti, che il
suo cinema rappresenti il cinema da cineforum per antonomasia. Nel senso
di cinema d'autore, ovviamente.
Anche chi scrive queste note, come molti altri appassionati cinefili, ha
infatti iniziato a vedere i suoi film più famosi e importanti (Il settimo
sigillo; Il posto delle fragole; La fontana della vergine; e poi tutti gli altri
girati negli anni '50 e '60), nelle proiezioni organizzate da una assai
volenterosa associazione di cinefili, nel paese in cui è nato, vive, e
attualmente lavora.
Certamente, di quei film non capì tutto subito, anzi, probabilmente,
all'epoca gli sfuggi la grossa parte del loro profondo significato.
Ma nel poco o tanto - non so - che gli rimase, che finì per sedimentarsi
nella sua mente di quelle visioni partecipate, ovviamente ancora non
supportate da saldi parametri culturali - assenti nel suo retroterra culturale
ancora in via di formazione - era nettissima la sensazione di aver assistito
ad uno spettacolo che recava in se qualcosa di grandioso visivamente,
artisticamente, filosoficamente, ontologicamente. Pur versando nella
ignoranza più crassa, infatti, egli si rendeva perfettamente conto che i temi
trattati, i problemi affrontati, i serrati dialoghi tra i protagonisti, le robuste
sceneggiature, i continui ed eloquenti riferimenti culturali, filosofici e
religiosi, la perfezione tecnica delle riprese, le interpretazioni stratosferiche
degli attori, insomma il sontuoso impianto complessivo di quei film
riconduceva ai grandi interrogativi esistenziali che già da qualche anno
risuonavano nella sua coscienza e nella sua anima.
Chi siamo? Dove andiamo? Qual'è il significato della nostra esistenza
terrena? Chi ci ha creati? Esiste davvero un Dio? Ci sarà mai data
l'opportunità di vederlo? Interrogativi tutti destinati a restare - ahimè! -
senza risposte esaustive, né definitive, ma che in modo semplice avevano
almeno l'effetto immediato di sollevare il popolo bergmaniano dalla
banalità, di innalzarlo dalla apparente inutilità della sua vita quotidiana,
elevandolo verso il trascendente, o almeno verso un'idea di trascendenza
che tutti, nella loro mente, hanno e si costruiscono.
Seconda opinione
La seconda opinione è legata indissolubilmente alla estrema coerenza,
quasi pervicace e monocorde, pur nell'ammissione della sua estrema
complessità, dei temi e degli argomenti trattati ed eviscerati da Bergman nei
suoi film.
Dal primo all'ultimo di una serie di più di 50 film girati in più di 50 anni di
attività il Maestro non ha mai perso di vista le grandi problematiche
esistenziali; si è sempre occupato dei problemi ontologici dell'uomo
moderno, dei suoi sentimenti, delle sue paure, delle sue psicosi, delle sue
angosce, dei suoi demoni.
Come uno speleologo si è calato nei meandri dell'anima umana, negli
angoli oscuri della psiche e ha posto davanti all'obiettivo della sua
speculazione tutti i più grandi quesiti filosofici dell'uomo storico.
Ha usato il suo cinema per porsi una notevole quantità di domande; e per
cercare, al contempo, delle risposte plausibili a queste domande.
Alcune di esse sono venute, altre sono mancate, più o meno
clamorosamente. Tuttavia si può dire che l'obiettivo di Bergman, per sua
stessa ammissione, non era certo quello di dipanare il mistero insondabile
della vita e della morte, bensì quello molto meno ambizioso e molto più
umano di tentare, attraverso la sua arte, d'intavolare un inizio di
discussione; di tentare un approfondimento; di fornire degli abbozzi di
spiegazione; di avviare su una via di conoscenza che potesse permettere di
avvistare almeno una flebile luce in fondo al tunnel; di istradare su un
sentiero di esperienza, possibilmente meno impervio e scosceso di quanto
non potesse apparire senza i suoi preziosi insegnamenti.
Terza opinione
Ingmar Bergman ha avuto, tra le innumerevoli altre, la indubbia capacità di
contornarsi di attori e attrici straordinari. Senza di loro, cosa sarebbe stato il
cinema e, soprattutto, cosa sarebbe stato il suo cinema? Avrebbe avuto la
stessa straordinaria forza espressiva, la stessa straordinaria efficacia? Cosa
sarebbe stato della sua arte se Bergman non avesse avuto sottomano e non
avesse saputo trovare, istruire, plasmare e far crescere professionalmente e
umanamente attori e attrici del calibro di Max von Sidow e Gunnar
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Bjornstrand; di Bibi Anderson e Liv Ulman; di Ingrid Thulin e Ulla
Jacobson? Oppure, se non avesse potuto sfruttare per la rappresentazione
delle sue complesse ed articolate sceneggiature interpreti che erano o che
sono diventati, anche per merito dei suoi film, dei veri e propri mostri sacri
del cinema mondiale? Mi riferisco, ovviamente, a Viktor Sjostrom, Erland
Josephson, Nils Joffe, Ingrid Bergman, etc. . Bergman stesso, parlando
delle sue sceneggiature, dei suoi testi scritti per il cinema, confessa:
“...quando l'attore, alla fine, s'impossessa delle sue parole e le trasforma in
espressioni sue proprie, lui stesso finisce per perdere il contatto con il
significato originale delle battute. Gli artisti riescono a destare nuova vita
in scene piene solo di chiacchiere”.
Quarta opinione
Ingmar Bergman, per sua stessa ammissione, ha usato il suo cinema, la sua
arte, i suoi film anche come normalissimo, prosaico strumento per
raggiungere una fama globale imperitura e per assicurarsi l'agiatezza
economica (se non una vera ricchezza); che spesso gli sono mancate: si
pensi, ad esempio, al suo disastroso inizio di carriera. Ha usato - anche di
questo particolare veniamo a conoscenza per sua stessa ammissione - i film
come vere e proprie sedute di auto-psicanalisi. Ha lavorato nel cinema
trasmettendo, attraverso le sue sceneggiature e le sue riprese, agli attori le
sue proprie angosce, le sue proprie paure, le sue proprie psicosi. Perché essi
interpretando i suoi personaggi, le trasmettessero allo spettatore. A noi. Non
ha mai fatto mistero di avere accumulato nel corso della sua infanzia
problematiche psicologiche, derivanti dagli strani rapporti intrattenuti, suo
malgrado, con la madre e col padre. A proposito di tale sofferto rapporto
famigliare, egli stesso ammise: “Immagino che i più forti impulsi a girare Il
posto delle fragole siano derivati proprio dal dissidio coi miei genitori. Io
mi ritraevo nella figura di mio padre, cercando spiegazioni alle amare
controversie con mia madre. Credevo di capire di essere stato un bambino
non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi...
fisica e psichica. Il diario di mia madre ha in seguito confermato questa
mia impressione: mia madre era profondamente ambivalente nei suoi
sentimenti verso il suo disgraziato, morente bambino”. Ingmar Bergman non ha mai evitato di parlare dei suoi personali problemi,
magari preferendo trincerarsi dietro a più opportuni silenzi, oppure dietro al
comodo paravento di strategiche omissioni o anche dietro a una artificiosa
mancanza di chiarezza. Ha lui stesso messo i suoi estimatori a parte dei
piccoli o grandi segreti personali spesso sconvenienti e poco affascinanti, se
non addirittura imbarazzanti. Insomma, pur attribuendosi certamente una
buona dose di genialità artistica ed ammettendo l'indiscussa grandezza di
alcune delle sue opere, non ha mai rifiutato il suo ruolo di uomo storico,
pieno di difetti, di essere umano con luci ed ombre, di persona in fondo
normale, potenzialmente geniale, ma anche debole e fallibile. Lui stesso ne
ha parlato apertamente e scritto altrettanto chiaramente nelle sue varie
biografie. A modestissimo avviso dell'autore, anche in questo suo
anticonvenzionale, originale ed estroso atteggiamento va ricercata una parte
cospicua della sua grandezza.
Quinta e ultima opinione
Nel corso della sua lunghissima carriera cinematografica, Ingmar Bergman
ha prodotto una serie di film nei quali ha affrontato direttamente le
tematiche religiose; ha espresso ansie e inquietudini della cultura del suo
tempo; ha indagato sui sentimenti e sui rapporti interpersonali, intersessuali
e interfamigliari; ha, perfino, tradotto in immagini le sue stesse paure
personali. Nelle altre sue opere che pure non sembrano rivolte altrettanto
apertamente al trascendente, né alla metafisica, si percepisce nel linguaggio
e nelle messe in scena allestite dal maestro svedese un retroterra che
rimanda alla sua profonda formazione protestante scandinava, alle sue
rocciose letture di formazione (soprattutto Strindberg, Ibsen e Kirchegaard)
e alla sua solida cultura biblica. Dall'analisi dei suoi film più importanti, si
scoprirà che non solo di Dio o del suo silenzio o della sua assenza, si tratta,
ma di un rapporto che coinvolge e chiama in causa anche le modificazioni
socio-economico-culturali a cui è andata incontro la società in un arco
temporale di quasi sessant'anni. Cambiano i riferimenti sociali e quelli
culturali, e cambia anche, in un certo senso, l'antropologia che il regista si
trova di fronte; evolve, inesorabilmente, la disposizione con cui uomini e
donne del nostro tempo sperimentano il proprio incontro con gli altri e la
ricerca, eventuale, di una parola trascendente.
Tutti i suoi film contengono importanti connotazioni culturali, religiose, sentimentali, psicologiche,
sociali, finanche politiche, in un senso molto lato.
Solo per necessità di
informazione, anche sommaria, ne accenniamo di seguito una rapida
elencazione:
• I film della fine degli anni '40, gli anni dell'esordio ma anche gli
anni del disagio sociale in Svezia e dell'inizio del cd. neorealismo:
Crisi (1946), Piove sul nostro amore (1946), La terra del desiderio
(1947), Musica nel buio (1948), Città portuale (1948), Prigione
(1949), Sete (1949), Verso la gioia (1950), Questo non accadrebbe
qui (1950);
• I film degli anni '50, in cui, per primo, Bergman aveva cominciato a
fare il punto sulla condizione femminile, sul ruolo della donna nella
società moderna e a preconizzare certe sue importanti conquiste
sessuali: Un'estate d'amore (1951), Donne in attesa (1952),
Monica e il desiderio (1953), Una vampata d'amore (1953), Una
lezione d’amore (1954), Sogni di donna (1955), Sorrisi d’una notte
d’estate (1955), Alle soglie della vita (1958);
• i film, dei primi anni '60, la cd. Trilogia Religiosa, o di Dio, o
dell'assenza di Dio. I film del confronto diretto dell'uomo con Dio:
Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1963), Il silenzio
(1963);
• i film sui turbamenti della psiche e sulla fenomenologia
dell'occulto: Il volto (1958), Persona (1966), L’ora del lupo (1968);
• i film della sua adesione ferma e convinta alla battaglia civile
pacifista e della conseguente presa di distanza dalla guerra: La
vergogna (1968);
• i film, non facilmente dimenticabili, i grandi momenti di una
creatività in cui la vera risposta era l’arte in sé (“ars gratia artis”),
l'arte alta come così alto in quegli anni ancora il cinema non era
stato; i suoi capolavori assoluti: Il settimo sigillo (1956), Il posto
delle fragole (1957), La fontana della vergine (1960), Sussurri e
grida (1972), Scene da un matrimonio (1975), Sinfonia d'autunno
(1978);
• e infine, l'ultima grande tappa della sua lunga carriera, il canto del
cigno e testamento poetico autobiografico appunto Fanny e
Alexander (1982).