sabato 28 ottobre 2017

La civiltà dell’immagine, il diritto d’informazione e la banalizzazione della violenza.


   Ieri mattina, mentre ero alla guida, ascoltando la radio, pensavo a una frase sinistra che ricordavo di aver ascoltato nel film "Il settimo sigillo". Una frase apocalittica, che fa venire i brividi a chiunque l'ascolti. A sentire quelle parole mi si rovesciava nella testa l'antico eppure eloquente aforisma di Confucio: "Vale più un'immagine che mille parole." Anche se, mentre l’ascolti, non vedi niente, come oggi usa in TV, non puoi fare a meno di lavorare di fantasia; non puoi fare a meno di immaginare la scena che viene raccontata e tutto il dolore e la violenza in essa espressa, espressa nelle parole orrifiche che stai ascoltando.
La frase del film recita così: “A Farjestad tutti parlavano di sinistri presagi e di altre orribili cose. Due cavalli si erano mangiati l'un l'altro nella notte, e nel cimitero si erano scoperte le tombe, e i resti di cadaveri si erano sparsi dappertutto. Ieri pomeriggio sono stati visti quattro soli nel cielo.”
Chi la proferisce fa riferimento agli oscuri presagi di una fine del mondo imminente, annunciati da una immane pestilenza - la morte nera - che sta decimando la popolazione d'Europa intorno al 1350. Bene, quella frase, dicevo fra me e me ieri mattina, è molto eloquente e significativa. Ed è l’esatta antitesi di quanto avviene oggi, nel tempo della civiltà dell’immagine; nell’epoca del diritto d’informazione. 
Essa produce, secondo me, il semplice risultato di “volgarizzare” la violenza, di banalizzarla e, quindi, di neutralizzarla.
E, mentre guidavo, continuavo a pensare: quanto c’è di più diverso, anzi di diametralmente opposto alla banalizzazione del male che oggi la TV produce annunciando le notizie terribili delle stragi dell'ISIS; documentando catastrofi e attentati terroristici; passando sul video, senza soluzione di continuità le immagini di morti ammazzati o di corpi mutilati dalle esplosioni. 
E lo pensavo, ad esempio, anche in relazione alle immagini della strage di Capaci o a quelle ancora più sconvolgenti del crollo delle Torri Gemelle, l'11 settembre del 2001.
E, allora, chiedevo a me stesso “e se, invece di vedere in TV e osservare, con punte di voyeurismo quasi compiaciuto ma subito dopo distratto, le immagini delle violenze che ogni giorno si verificano in ogni angolo del mondo, ci limitassimo ad ascoltare una voce sconosciuta e lontana, e senza volto, che ce le racconta, che narra la violenza, senza avere la possibilità di vedere il volto di chi parla, come alla radio, questo non sarebbe più efficace? Questo “non vedere”, questo “solo ascoltare” non potrebbe aiutarci ad elaborare meglio la immane portata di certi avvenimenti? Intendo, ovviamente, senza la banalizzazione delle immagini viste e riviste mille volte, che finiscono per svuotare di significato qualunque gravità e qualunque intollerabile scena, anche la più rivoltante o irritante?
Riflettiamo un attimo, quindi, sull'uso distorto che la TV fa della violenza e del sangue umani; analizziamo l’utilizzo anti-propedeutico, non sussidiario, giustificato esclusivamente dalla necessità di costruire audience, del giornalismo televisivo.
Le immagini del sangue, dei corpi straziati, di persone urlanti di dolore e di paura, anche versate a profusione nelle nostre case, anzi, proprio perché versate a profusione, senza soluzione di continuità, davanti ai nostri occhi finiscono per esaurire contestualmente la loro forza; finiscono per perdere la loro capacità d'impatto; per fallire il compito e l'obiettivo che si prefiggono, che dovrebbero avere: cioè di insegnarci ad esecrarle e a prenderne le distanze. 
Quelle immagini rendono inutili loro stesse, si rendono addirittura dannose. 
Si! Dannose. Perché ci fanno abituare ad esse; ci inducono a conviverci. Replicate all'infinito non ci insegnano più niente. Perdono anche il loro piccolo valore didascalico. Non c'è niente di più inutilmente freddo e asettico della violenza, del sangue versato per terra, dei corpi mutilati, delle salme esangui, visti e rivisti mille volte: non insegnano più niente ai vivi. Non ci dicono più niente. Nemmeno ci ammoniscono più. Non hanno più alcun valore, semplicemente.


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