Il racconto che vi accingete a
leggere non è tutto falso, nel senso
che non è tutto inventato e, quindi,
frutto della mia fantasia; alcuni
spunti, infatti, sono veri, ed hanno
precisi riferimenti storici a fatti, a
nomi, a relativi personaggi
realmente esistiti. Ma non è
nemmeno tutto vero, nel senso che
nella sua costruzione ho fatto
lavorare, oltre che la mera
documentazione, anche una fervida
fantasia. Il racconto, quindi, se da
una parte può considerarsi come
una buona metà del frutto maturo
di una semplice appassionata - seppure, per certi versi, disordinata
e abrupta - ricerca storica; dall'altra
- la metà restante del pomo - si
deve considerare come la mia
schietta invenzione personale usata
da collante per le notizie storiche
che avevo attinte e messe assieme.
Quella mattina presto, quando
il vecchio prete Don
Giovanni Di Siena fu
svegliato all'improvviso dalla
fedele perpetua Sandella, non era
ancora scoccata l'ora del lupo: l'ora
nella quale la maggior parte delle
persone nasce o muore, l'ora delle
paure più ancestrali, l'ora che
succede immediatamente alla notte
più buia e che precede l'alba, ma
quando la luna non è ancora
tramontata e il sole non è ancora
spuntato in cielo. E di certo, quel
prete di campagna, uno dei dieci preti che risiedevano
contemporaneamente nel piccolo
villaggio tra le montagne, con
dodici tra chiese e cappelle, non
poteva nemmeno lontanamente
immaginare quello che sarebbe
successo nel corso di quella
giornata appena iniziata con la
chiamata urgente di una estrema
unzione. Cose così straordinarie e
importanti che gli abitanti di
Coreno avrebbero letto più di
cento anni dopo solo nei libri di
storia. "Tanti giorni, tante ore, per
morire nella grazia di Dio e quel
vecchio pazzo ultraottantenne di
Salvatore il cositore proprio oggi
doveva scegliere per andarsene?" Aveva pensato Don Giovanni. Ma
lui, così ligio al dovere e al suo
ufficio, non aveva mai pensato di
declinare il gentile invito del figlio
a raggiungere al più presto la loro
casa, anzi, avrebbe passato le Alpi
camminando sulle ginocchia pur di
arrivare prima della comare secca;
pur di raggiungere in tempo il
capezzale e benedire il vecchio
morente prima che esalasse
l'ultimo respiro. Quando la fedele
perpetua Sandella gli aveva portato
nel letto la notizia della chiamata
urgente Don Giovanni non era
ancora arrivato al terzo sonno. La
donna, che stava con lui da
quando, appena uscito dal seminario, era stato nominato dal
Vescovo di Gaeta, una trentina
d'anni prima, era entrata come una
Erinni nella sua stanza, quasi
aveva sfondato la porta con una
spallata, con addosso il pesante
scialle di lana che non si toglieva
mai - nemmeno d'estate - e la
candela in mano, e lo aveva quasi
scaraventato giù dal letto dandogli
una delle sue poderose
smanacciate sulle spalle. La stessa
identica energia con la quale
smanacciava nella vecchia madre
di legno l'impasto del pane che
almeno una volta a settimana
faceva in casa, da almeno
cinquant'anni. Si era solo sincerata che il pitale per la notte non fosse
da svuotare poi, come se niente
fosse successo, ma solo quando fu
sicura di averlo svegliato
definitivamente, perché lo aveva
visto seduto sul letto a stropicciarsi
gli occhi con entrambe le mani, era
scesa, borbottando, al piano di
sotto, per accendere la cucina a
legna, per fare il caffè e per
scaldare il latte: sapeva bene che il
suo Don Giovanni, per nessuna
ragione al mondo, sarebbe uscito
di casa senza aver prima
consumato una robusta colazione
contadina - come la chiamava lui.
Una zuppa di latte gigantesca che
lei gli serviva da anni nella stessa insalatiera piccola e sbreccata e
che consisteva in un mezzo litro di
latte abbondante e fumante, appena
sporcato da un goccio di caffè nero
caldo, e due o tre spesse fette di
pane, praticamente, una mezza
pagnotta di pane casareccio tuffata
dentro a spugnare lentamente. Un
paio di cucchiaiate piene piene di
miele di carrubo, del quale andava
pazzo, ben sciolte e il prete
sarebbe stato bene fino al
lontanissimo pranzo di
mezzogiorno. Non era ancora
passata mezz'ora dalla chiamata e
lui era già pronto ad uscire. Per
non perdere il vizio aveva anche
trovato il tempo di dire due o tre preghiere del mattino. Invece, non
aveva trovato il tempo, né la
voglia, di farsi la barba. Non ci
pensava nemmeno di radersi alle
quattro del mattino e per giunta in
pieno inverno. Eppoi era diventato
un suo piccolo vezzo: d'inverno
amava portare la barba lunga di tre
giorni. Ogni tre giorni l'accorciava
con la forbice affilata che il
barbiere Angelo Farina gli aveva
regalato, appena arrivato in paese,
insieme a un altrettanto affilato e
prezioso rasoio col manico d'osso
vero. Poi, quando l'aria cominciava
a scaldarsi, in primavera inoltrata,
ricominciava a radersi, provando
un vero piacere fisico. Uno dei pochi. Dopo aver fatto colazione,
rifocillato per bene, Don Giovanni
era sceso fino al portone, aveva
tolto la pesante sbarra di ferro e,
girando il chiavistello, l'aveva
aperto. Come era solito fare, prima
di uscire, si era fermato un
momento e si era affacciato
sull'uscio della canonica che dava
sulla stradina in discesa che
separava la chiesa e la canonica
dalla piazza principale del paese,
guardando prima a destra e poi a
sinistra. L'alba non era ancora
spuntata e non sapeva se quel
giorno avesse visto in cielo un
timido sole; la luce dell'unica
lampada a olio accesa in piazza era scarsa e lui non era riuscito a
vedere niente. Ma tanto non c'era
niente da vedere, là fuori. Ma tanto
nemmeno s'aspettava di vedere
qualcosa. Era solo un'abitudine
innocua benché inveterata.
Era una mattina presto di un
giorno della metà di marzo
dell'Anno Domini 1799,
faceva molto freddo e la neve
aveva continuato a cadere copiosa
durante tu
bianca bianca, fitta fitta, che in
qualche ora aveva coperto tutto e si
era perfino attaccata ai muri e alle
finestre, smossa e mulinata,
quand'era ancora in aria, da una
tramontana, che al paese, in quel
periodo dell'anno era di casa, ogni
santo giorno. Poi, all'improvviso,
era cessata, ma qualche fiocco
ghiacciato continuava a cadere,
anzi a muoversi in orizzontale,
spinto velocemente da folate di
vento freddo. Una delle tante folate
di vento ghiacciato che scendeva
da Costamagni colpì il vecchio
prete Don Giovanni Di Siena in
pieno volto come un pugno di
ferro. Gli fece quasi male fisicamente. La sua faccia
sembrava improvvisamente
trasformata in un puntaspilli,
tempestata com'era di minuscole
punture ghiacciate. Il vento gelido
gli frustava le guance e gli
trafiggeva le pupille; l'odore
ferroso del freddo gli bruciava le
narici ad ogni respiro; lui, per tutta
risposta, chiamato dal suo ufficio
ineludibile, chiuse intrepido la
bocca, strizzò gli occhi, si alzò per
bene il lungo bavero del tabarro,
dentro al quale si era avvolto,
arrotolandoselo addosso un paio di
volte, si appiattì per bene, con due
colpi ben assestati del palmo
aperto sulla testa, il cappellaccio di feltro a falde larghe dal quale non
si separava mai quando usciva
fuori d'inverno e scese i tre gradini
tre che lo separavano dalla strada.
S'incamminò, finalmente,
attraversando veloce la piazza. E
sparì subito nel buio pesto che
l'attendeva nello stretto Vicolo
delle Carceri, vicino alla Casa
della Corte, oggi Casa Comunale;
già casa Petricone Diomede, ora
casa Di Massa.
La casa dove era nato, dove
abitava, dove aveva sempre
lavorato, e dove sarebbe morto
Salvatore il cositore stava in salita,
in un vicolo stretto, appena
passato, sulla destra, l'Arco dei Carpentieri. In tutto distava un
centinaio di metri dalla canonica.
Ma in quella notte buia, con quel
tempo da lupi e con quel freddo a
Don Giovanni quei cento metri
erano sembrati un centinaio di
chilometri. Li aveva percorsi non
perfettamente dritto, ma
praticamente piegato in avanti,
quasi a metà, andando
faticosamente controvento e quasi
in apnea. Calpestando il tappeto
soffice della neve che stava già
trasformandosi in ghiaccio. Se poi,
al già tragico rito dell'estrema
unzione, per il quale era stato
chiamato e che lo attendeva,
avesse aggiunto i pessimi auspici che tutti avevano tratto dall'eclissi
solare del 11 febbraio appena
passato, le allarmanti notizie
riguardanti le truppe francesi ormai
allo sbando che sciamavano per
tutta l'Alta Terra di Lavoro facendo
il bello e il cattivo tempo e, per
finire, il retrogusto amarognolo di
un cattivo presentimento che aveva
in bocca da quando era stato
svegliato di soprassalto la mattina
presto, il quadro nefasto di quella
giornata appena iniziata sarebbe
stato completo. Se tutto fosse
andato bene comunque si sarebbe
conclusa con un funerale - pensò il
prete. Se tutto fosse andato male
chissà cosa sarebbe potuto succedere. E un attimo dopo si
trovò davanti la porta del povero
Salvatore. Afferrò il batacchio di
bronzo e, quasi per scrollarsi dalla
mente quei brutti pensieri lo sbatté
con forza due o tre volte. Assorto e
infreddolito com'era non s'era
nemmeno accorto che la porta era
solo socchiusa e che l'ingresso e le
scale erano rischiarate da una
lampada ad olio lasciata lì per
fargli luce. Ebbe appena il tempo
per pensare a quanto premurosi e
ossequiosi erano i suoi amati fedeli
che fu raggiunto dal figlio di
Salvatore, un trentenne robusto e
irsuto che gli si parò davanti per
prendergli il tabarro e accompagnarlo alla camera da letto
dove giaceva il padre. Nello stesso
momento in cui Don Giovanni si
apprestava ad impartire il
sacramento al moribondo, in quasi
tutte le abitazioni dei tredici casali del
paese i fuochi erano stati accesi,
l'acqua calda sobbolliva già nei
cocci e, per piccoli e grandi,
s'improvvisava una parca
colazione fatta di latte allungato
con caffè d'orzo, accompagnato
con qualche tozzo di pane
raffermo. I più abbienti avrebbero
aggiunto al primo e in qualche
caso unico pasto caldo della
giornata, anche qualche noce e
qualche fico secco, presi dal fondo della grossa panca di legno di
quercia che faceva anche da
dispensa. I capifamiglia e i cinque
eletti dal popolo alla carica di
amministratori, dopo che Antonio
De Gori, sindaco nel 1799, sarebbe
decaduto dalla carica, si erano dati
appuntamento di buon'ora, per le
sei del mattino, alla taverna del
Pipistrello. Ordine del giorno:
discutere il da farsi dopo le notizie
giunte, a tarda sera del giorno
precedente, dalla vicina
Castelforte. La ferale notizia,
infatti, portata al galoppo da un
abitante di Ventosa che aveva
assistito da un'altura ai tafferugli
avvenuti al centro del paese, consisteva nella rivolta scatenata
dagli abitanti contro le truppe degli
invasori francesi. Qualche
centinaio di persone armate di
forconi, badili, asce e falcioni, ne
avevano malmenati e trucidati
molti, mettendo in fuga i pochi che
erano riusciti a salvarsi dal
macello. Quello che restava del
distaccamento francese si era
faticosamente riunito in un casale
disabitato nelle campagne della
contrada Aurito, ad appena qualche
chilometro da Coreno, e sarebbe
sicuramente passato nelle
vicinanze del paese o attraverso il
centro per aggregarsi al comando
francese di stanza ad Ausonia. Una compagnia di cinquanta soldati,
esattamente quarantanove, malamente armati,
benché stanchi, affamati e morti di
freddo, di lì a poco sarebbe potuta
sfilare lentamente attraverso il
decumano principale del paese e,
percorrendo la vecchia via delle
Stramete, avrebbe tentato di
raggiungere la vicina Ausonia. Da
lì, unendosi a quello che rimaneva
del potente esercito invasore
francese, avrebbe cercato
d'imbarcarsi e di tornare in
Francia. Gli abitanti di Coreno,
date le scarse simpatie provate per
i francesi, specie dopo che
Napoleone era tornato per
insediarsi sul trono che era stato dei Borbone, si erano posti una
domanda più che legittima;
volevano meditare bene sul da
farsi: vendicarsi delle vessazioni o
costruire ponti d'oro ai soldati
francesi? Far pagare care ai
francesi le costrizioni generali, le
leve continue e obbligatorie e tutte
le altre imposizioni o accelerare la
loro fuga? Di questo avrebbero
animatamente discusso quella
mattina presto. I primi ad arrivare
alla taverna del Pipistrello, ch'era
poco lontano dalla piazza e dal
rione Pozzi, furono il sindaco del
1799 Antonio De Gori e quattro
dei cinque consiglieri eletti per
l'anno 1800 (uno di loro era lo stesso sindaco): Mattia Biagiotti,
Angelo Ruggiero, Giuseppe La
Valle e Francesco Di Vito. Poi, a
mano a mano arrivarono i
rappresentanti di tutte le famiglie,
da tutti i tredici casali di Coreno:
gli Vori, gli Onofri, gli Stavoli, i
Rollagni, i Carelli, la Torre, i
Curti, i Magni, i Pozzi, i Lormi, i
Tucci, la Piazza, i Ranoccoli. Ad
essi si sarebbero aggiunti, appena
oltre l'orario dell'appuntamento, il
medico, il notaro, i due giudici a
contratto e lo speziale. E solo
verso la fine dell'animata
discussione anche Don Giovanni di
Siena, ch'era stato avvertito
dell'importante incontro dal figlio di Salvatore il cositore, prima di
lasciare la casa del morituro. Il
giovane, peraltro, mentre passava
in extremis la notizia al prete, si
era pure meravigliato che lo stesso
non sapesse niente di quanto
accadesse in paese in quelle ore e
che non fosse stato invitato alla
riunione strategica; ma gli era più
che evidente il motivo per il quale
né gli amministratori né i
capifamiglia, né medico, né lo
speziale e nemmeno il notaro
avevano anche lontanamente
accarezzata l'idea di avere il prete
fra i piedi mentre discutevano fra
loro quelle questioni: il giovane
aveva ascoltato i sermoni del prete la domenica durante la messa
cantata e da qualche anno, Don
Giovanni Di Siena, praticamente
da quando l'invasione francese era
iniziata, non aveva fatto altro che,
invitare i suoi concittadini alla
calma e alla collaborazione con
l'invasore, magari anche facendo
buon viso a cattivo gioco, per
evitare inutili violenze e anche per
avere il tempo di vedere come si
fosse messa la questione col Papa e
coi Borbone. Una strategia
doppiogiochista dettata, anzi
suggerita in segreto, dalle alte sfere
ecclesiastiche che evidentemente
collideva con le intenzioni
bellicose e tutt'altro che pacifiche dei concittadini di Coreno e degli
altri paesi dell'Alta Terra di
Lavoro. Il figlio di Salvatore il
cositore aveva dato al prete, prima
un po' d'acqua, poi la notizia
esplosiva dell'assemblea pubblica
ma segreta, poi una robusta sorsata
di quella grappa aromatizzata al
corniolo che producevano
clandestinamente in famiglia e
riservavano solo agli amici o alle
persone importanti.
Don Giovanni, a quel punto, aveva
davanti solo due strade praticabili:
una facile facile, l'altra molto
difficile, anzi, difficilissima:
andare a Gaeta, in udienza dal
Vescovo, al quale avrebbe spifferato tutto ma, con quel
tempaccio, ci avrebbe messo una
giornata intera; o andare di corsa
all'assemblea popolare e sperare di
convincere quei testoni a non fare
pazzie. Scelse la seconda
alternativa, quella più difficile;
Don Giovanni si precipitò sul
posto, conquistò il centro
dell'assemblea, prese la parola e
levò alto il suo disappunto. Ma
inutilmente, anche dopo la sua
invettiva che, in certi passaggi,
pareva quasi un anatema, una
reprimenda, i concittadini bellicosi
e determinati non cambiarono idea,
avendo deciso quasi all'unanimità
di vendicarsi dei francesi: li avrebbero attesi e attaccati in
località Fontanelle. Un vero e
proprio agguato attendeva i
malcapitati quarantanove soldati francesi, e
quasi sicuramente la fine del loro
percorso terreno. Non rimaneva
che procurasi le armi, riunirsi in
piazza, mandare un paio di vedette
in osservazione e trasferirsi tra i
cespugli della via delle Stramete
per farla finita coi maledetti
francesi.
A pochi chilometri di distanza dal
centro abitato di Coreno una
compagnia di soldati francesi, anzi
quello che ne restava, esattamente quarantanove, ridotti in brandelli dagli
abitanti di Castelforte, mezzi nudi, morti di fame, di freddo e di stenti;
feriti fisicamente e
psicologicamente depressi, si erano
da poco incamminati verso
Coreno, raccolti in una mesta e
silenziosa fila indiana; facevano a
ritroso la strada che avevano
percorso festanti e allegri solo
qualche giorno prima.
Calpestavano la neve fresca a passi
lenti e cadenzati; chi con stivali
sfondati, chi a piedi nudi. Avevano
deciso di passare all'interno del
centro abitato, invece di aggirarlo;
avrebbero così evitato un percorso
più accidentato; una lunga e più
faticosa diaspora tra i campi e tra i
boschi e tra le pietre. E confidavano pure che seppure
avessero incontrato nei campi
qualche contadino o anche cittadini
di Coreno per la strada, al massimo
quelli avrebbero potuto deriderli e
offenderli; non avrebbero mai
immaginato che la pacifica
popolazione di Coreno potesse
adire le vie di fatto, usando la
violenza contro inermi e disarmati
soldati in ritirata. Se fossero stati
fortunati, con cinque o sei ore di
cammino avrebbero raggiunto il
distaccamento di Ausonia. E da lì,
dopo qualche ora di riposo,
avrebbero ripreso la marcia verso
il porto più vicino dove si
sarebbero imbarcati per la Francia. La brutta avventura sarebbe stata
archiviata nel giro di qualche
settimana.
Intanto Michele Lavalle, la
giovane sentinella appostata sulla
collina dalle parti della contrada
Poera; l'altra, un certo Pasquale Di
Vito, anch'egli molto giovane e
dalla buona vista, era stata piazzata
più a valle su una piccola altura tra
i boschi di Cannotteranea - aveva
avvistato la piccola compagnia
francese in lento avvicinamento.
Quando fu sicuro di quello che
aveva visto, si alzò
immediatamente, balzando in piedi
con la velocità di una molla, dal
suo rifugio dietro a un grosso masso e correndo verso il tratturo
prese la via per Coreno da sud-est.
In poco più di cinque minuti - come il
corridore di maratona - raggiunse
la locanda del Pipistrello, il
quartier generale dei rivoltosi. La
movimentata ma assai breve
assemblea cittadina si era conclusa
col voto favorevole alla
rappresaglia. Contrari erano stati
solo il voto del consigliere
Biagiotti, che aveva uno zio prete e
il parere, benché favorevole senza
espressione di voto e nemmeno
richiesto, del prete della parrocchia
di S. Margherita V.M.. I due erano
stati i soli a lasciare la locanda,
non senza un codazzo polemico e trascinandosi dietro una marea di
insulti e di improperi da parte degli
altri presenti che contavano su una
unanimità piena. Gli altri quattro consiglieri erano rimasti; come
erano rimasti i capifamiglia, i due
giudici a contratto, e gli anziani.
L'unico ch'era mancato era
Salvatore il cositore, sul punto di
andarsene dalla sera precedente.
Ora non restava che tornare a casa
velocemente, cercare ciascuno
un'arma e radunarsi in piazza per
poi prendere la strada delle
Stramete e raggiungere il punto
dell'agguato, alle Fontanelle.
Quasi a metà strada tra Coreno e
Ausonia. Tutto, qualsiasi arma, anche impropria, bastava che fosse
da taglio o contundente, avrebbe
fatto al caso: naturalmente erano
da privilegiare i fucili, anche quelli
da caccia, e sarebbero state gradite
anche le pistole da ricaricare; ma
anche i forconi per smuovere la
paglia, i falcioni per mietere il
fieno e la suglia, i bastoni snodati
per battere i ceci e i fagioli sull'aia
sarebbero andati bene. Qualcuno
era anche andato in cantina a
recuperare la mazza di ferro del
torchio per l'uva. Alla fine dopo
circa un'ora all'appuntamento in
piazza si erano presentate più di cento persone. Quasi tutti uomini
maturi, forti e motivati, più qualche giovane la cui età era
compresa tra i venti e i trent'anni,
che non aveva voluto che il padre
andasse da solo. Quando si furono
radunati tutti partirono con passo
svelto per ritrovarsi dopo appena
mezz'ora tutti acquattati tra i
cespugli e dietro i sassi sulla
collina che domina il passaggio a
valle delle Fontanelle, poco dopo
il Belvedere e prima del Castello, e
non avrebbero avuto molto da
aspettare perché non era passata
più di un'ora da quando si erano
trasferiti e non erano passate più di
tre da quando la vedetta aveva
avvistati i francesi alle Poera. Il
tempo era passato anche piacevolmente e senza soverchi
nervosismi avendo appreso,
sempre dalla vedetta, che i francesi
erano disarmati e assai malmessi.
Il piano congegnato dai rivoltosi
era semplice ma pareva assai
efficace: far sfilare lungo la strada
i francesi, poi, mentre un drappello
di corenesi li avrebbe presi alle
spalle per neutralizzarli con le armi
improprie, dalla collina chi era in
possesso di un fucile o di una
pistola avrebbe fatto fuoco dal lato
destro scoperto. Quando l'ultimo
soldato francese era sfilato sulla
perpendicolare degli appostati, da
un lato una settantina di corenesi si
staccarono scendendo di corsa a valle. Armati di forconi, falcioni,
bastoni di ferro e di mazze di legno
cominciarono a colpire
violentemente e a massacrare i
poveri soldati, quasi tutti
disarmati; dall'appostamento ch'era
una cinquantina di metri sulla
collina che dominava la strada gli
altri, quelli armati di fucili e
pistole, aprirono il fuoco; una
gragnola di colpi arrivò sul lato
destro della fila indiana, i francesi
cominciarono a cadere come pere
mature. La mattanza durò in tutto
nemmeno una decina di minuti: la
strada si era, rapidamente, coperta
di cadaveri e di corpi agonizzanti e
rantolanti, rivoletti di porpora si spargevano lentamente sulla neve
bianca. Dei quarantanove soldati francesi
nessuno avrebbe rivisto il suolo
patrio. E per molto tempo nessuno
avrebbe più saputo niente di loro.
Ora per i rivoltosi si poneva il
problema di finire i moribondi
feriti a morte con pugnali e
baionette. Un colpo al cuore e il
trapasso era agevolato. Quindi di
sgombrare la strada dai cadaveri e
di nasconderli definitivamente alla
vista degli altri scout francesi, che
certamente li avrebbero cercati, e
delle autorità del regno. Qualcuno
si era ricordato che nelle vicinanze,
ad appena un centinaio di metri,
c'era un podere di proprietà di certo Giuseppe Ruggiero, e al
centro del podere c'era un pozzo.
L'uomo non aveva partecipato
all'agguato, perché troppo anziano,
ma tutti pensarono che l'odio che
aveva sempre mostrato di nutrire
nei confronti dei francesi gli
avrebbe certamente suggerito di
mettere a disposizione la sua
proprietà per una giusta causa
comune. Anche se una volta
riempito di cadaveri il pozzo, va da
se, non sarebbe stato più
utilizzabile. Anzi avrebbe dovuto
essere interrato e sigillato per
evitare possibili epidemie.
All'unanimità si decise di sfruttare
la possibilità, non c'era tempo per scavare una grande fossa comune.
Due o tre uomini per volta presero
per le gambe e per i piedi un
soldato francese e lo trasportarono
nelle vicinanze del pozzo. Mentre
qualcuno più giovane e veloce
sarebbe corso al paese per caricare
un carretto di calce e di badili. Era
in uso all'epoca di tenere sempre a
disposizione delle grosse quantità
di calce nelle fornaci scavate
apposta per quello scopo; le
calcare. Ogni strato di cadaveri
sarebbe stato coperto con una
abbondante spolverata di calce e di
terriccio e pietre; alla fine del
lavoro il pozzo sarebbe stato
sigillato con un tappo di malta e pietre. Nessuno si sarebbe più
accorto del macabro contenuto del
pozzo. In giro si sarebbe sparsa la
voce ch'era stato avvelenato da
qualche animale in
decomposizione e il padrone era
stato costretto a interrarlo. Quando
tutti i cadaveri furono rimossi,
trasportati e buttati nel pozzo gli
uomini, ormai sfiniti, tornarono sul
luogo della strage, per cancellare
ogni traccia: grattarono la neve, il
ghiaccio e lo strato più superficiale
della ghiaia insanguinata che
copriva il fondo della strada
sterrata. Poi riportarono un nuovo
strato di ghiaia e sopra di essa
sparsero badilate di neve fresca. Nel giro di un'altra ora sembrava
che lì non fosse successo mai
niente. Presto il ricordo della
strage sarebbe stato rimosso oltre
che dal suolo anche dalla testa
degli stessi autori; l'eccidio
sanguinolento sarebbe diventato un
avvenimento incerto e dai contorni
indefiniti; una specie di mito, di
imago, che tutti, alla fine,
avrebbero rimosso dalla loro mente
o confuso con un sogno collettivo.
Il plotone di omicidi composto di
gente normale e di padri di
famiglia si avviò mestamente verso
il paese. In salita, con passo
stanco, tutti erano svuotati dalle
forze. Svuotati di energia ma convinti di aver fatto la cosa
giusta. Avrebbero certamente
accelerato la fuga dei francesi dai
territori occupati. La coscienza
personale in subbuglio sarebbe
stata sedata e soddisfatta dalla
constatazione di aver agito per il
bene comune e per un interesse
superiore. Oltre che per
l'affermazione della giustizia.
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