Metto qui un racconto tratto dal mio libro
''Storie di Briganti Ciociari e Altri Racconti''.
Pasquale C, impiegato postale sulla settantina ormai in pensione, non si era mai sposato, viveva da solo nella vecchia casa di famiglia “agliu Ceoso[1]”; la casa in cui aveva abitato fin da piccolo con la madre, il padre e l'unica sorella, prima che quella si sposasse; la casa nella quale (si vantava e lo fa ancora) era nato il suo predecessore più illustre, tale Cherubino Coreno, grande musicista e talentuoso flautista, anzi maestro di stromenti di fiato presso il Conservatorio di Santa Maria di Loreto a Napoli dal 1749 al 1762 e - pare - ospitato anche alla corte dei Borbone, dove insegnò lo strumento al rampollo dei reali. Cherubino, il parente più noto di Pasquale, nacque a Coreno nel 1706 e morì nel 1764. In realtà non si sa con certezza se la casa di Pasquale C fosse davvero quella in cui nacque Cherubino, ed è ancora in corso una accanita disputa con la famiglia dei vicini che vorrebbero l'esclusiva delle origini e della parentela più stretta. Ma tant'è, in assenza di prove certe e, soprattutto, definitive qualcuno ha pensato bene di apporre due targhe sulle due pareti di due case diverse ma contigue e così la faccenda è stata risolta e archiviata salomonicamente ma con approssimazione tutta paesana. In realtà Pasquale C era tornato ad abitare nella vecchia casa di famiglia in pieno centro storico poco prima che andasse in pensione, avendo passata buona parte della sua vita lavorativa in giro per l'Italia. Non aveva mai chiesto il trasferimento all'ufficio 51 postale del suo paese nativo, pure avendone maturato da anni il pieno diritto, forse per una questione di riservatezza personale oppure perché, pretendendo di conoscere bene i suoi compaesani, preferiva tenersi fuori da eventuali beghe. Da un po' di tempo Pasquale C aveva preso l'abitudine, in primavera, di uscire dal suo studio buio e polveroso e andarsene a leggere in terrazzo, dove aveva allestito un confortevole buen retiro; un paio di sedie sdraio di plastica da giardino, una per se e una per un eventuale ospite che però non arrivava mai. Era un solitario per scelta di vita e si guardava bene dall'invitare qualcuno a casa sua. Praticamente l'unico ospite che avesse regolare e legittimo accesso alla casa era la donna di servizio che una volta la settimana varcava la soglia di pietra viva e diventava l'unico abitante della casa per tre ore. L'unico abitante perché, nel frattempo Pasquale C usciva per sbrigare qualche commissione e tornava solo dopo che quella, terminate le faccende e ritirata la busta del salario lasciata nel vuota-tasche all'ingresso, era già uscita. Quattro sedie, sempre bianche e di plastica e sempre da giardino, terminavano quell'arredamento rabberciato sul terrazzino, disposte ordinatamente attorno a un tavolinetto, anch'esso bianco di plastica e da giardino, messo lì per appoggiarci qualche bibita e i libri, proprio sotto a un ombrellone da mare, perennemente chiuso, che Pasquale C apriva solo in piena estate per ripararsi dal solleone. E proprio lì, sul suo bel terrazzino arredato, che un bel giorno, inaspettatamente, avvenne un fatto straordinario, destinato a cambiare il corso regolare anzi, perfino monotono, della vita da pensionato solitario e un po' misantropo di Pasquale C. L'uomo fece amicizia con una gazza. La gazza o gazza ladra (Pica pica, secondo la denominazione di Linneo) è un grosso uccello bicolore della famiglia dei corvidi. Una volta era molto comune, ma stazionava solo nei boschi e nelle zone montane, da qualche anno, invece, si è molto diffuso anche all'interno del centro abitato, e i suoi numeri sembrano aumentati esponenzialmente, forse perché sottratti alla caccia intensiva di un tempo. Il fatto strano, anzi le due cose strane, nel nostro caso, sono che nel dialetto del mio paese quell'uccello si chiama proprio pica; è bicolore, nero e bianco, proprio come i colori sociali della Juventus, squadra per la quale Pasquale C ha fatto un tifo sfegatato fin da bambino. Ebbene, da quando per la prima volta, con simpatia era stato accolto da Pasquale C sulla terrazza della sua abitazione, in un bel pomeriggio di primavera, uno di quelli col cielo sereno, solo un po' screziato di nuvole, e il primo caldo, per i quattro o cinque anni successivi, l'uccello aveva continuato ad andarci tutti i giorni, dopo pranzo, alla stessa ora. Quando Pasquale saliva sulla loggia a leggersi il giornale e i suoi libri e a godersi un bel po' del tiepido sole di collina, meritato dopo i rigori invernali. Per tutti i mesi della primavera e anche per quelli estivi successivi, da aprile a settembre inoltrato, la pica arrivava dall'alto con una specie di frullo quasi impercettibile, planando sul muretto di cinta del terrazzino dove Pasquale C divorava avidamente i suoi libri di filosofia o di storia. A parte un primo attimo di stupore, Pasquale C non aveva mai manifestato disappunto per le incursioni dell'uccello, per la verità un po' indiscreto e invadente, col passare dei giorni anzi, aveva scoperto che gli piaceva proprio essere interrotto, l'arrivo puntuale dell'uccello gli consentiva di tirare il fiato, di chiudere il libro, e pensare addirittura che avesse finalmente un vero ospite da accogliere. I due, messa da parte una naturale diffidenza iniziale, erano diventati veri amici e, addirittura, parlavano fra loro, Pasquale C con le parole, l'uccello col becco, con le ali e con gli sguardi. E il bello è che i due, pur non parlando la stessa lingua, avevano finito per capirsi, ognuno dei due riusciva a intendere perfettamente quello che l'altro voleva dire. Quando la pica ebbe preso definitivamente confidenza col suo nuovo amico umano, col suo ospite, saltava dal muretto all'avambraccio di Pasquale C e prendeva a becchettare le pagine del libro che il suo aveva in mano, come volesse girarle da sola per passare più rapidamente alla successiva. Allora Pasquale C si faceva fintamente più serio e intimava all'uccello di smetterla, la gazza come se capisse di aver esagerato la smetteva davvero e aspettava paziente che Pasquale C interrompesse spontaneamente la sua lettura e le offrisse del cibo. Pasquale C aveva abituato troppo bene la gazza, l'aveva viziata, perché ogni giorno preparava per lei e le faceva trovare delle vere e proprie prelibatezze. Arrivò perfino ad offrirle delle scaglie del formaggio di forma più pregiato, parmigiano o anche grana, che la pica mostrava di gradire molto, manco fosse un topo. Quando i pezzi di formaggio che Pasquale C offriva alla pica erano piccoli, quella li inghiottiva avidamente, ma quando erano un po' più grandi del solito li beccava ma senza mangiarli, li portava via, si librava in volo e tornava solo dopo qualche decina di minuti. Pasquale C aveva pensato che, non troppo lontano da lì, la pica avesse un nido con dei pulcini, oppure un compagno, o entrambi e con essi divideva il cibo avuto in dono dal suo amico. Un anno, in primavera, Pasquale C aveva da poco ripreso a salire in terrazza, ma la gazza non si presentò. Dopo un primo attimo d'iniziale sconforto, Pasquale C sembrava rassegnato a non vederla più atterrare dall'alto sul muretto della sua loggia e solo ogni tanto interrompeva la sua amata lettura, si metteva il libro sul grembo e guardava in alto; sperava di scorgere la sua pica in volo sopra la sua testa. Aveva nostalgia del suo amico uccello. Alla fine aveva pensato che fosse morto di vecchiaia, sebbene non avesse idea di quanto lunga fosse la vita di un uccello di quella specie, oppure che fosse rimasto vittima di qualche cacciatore senza scrupoli. La caccia non da più carnieri pieni come una volta e c'è sempre qualche cacciatore da strapazzo che arriva a sfogare la sua rabbia anche contro uccelli non commestibili. La pica non sarebbe più tornata! L'anno dopo, in primavera, appena l'aria aveva preso a farsi più tiepida, Pasquale C aveva di nuovo allestito il suo salottino pensile e tutti i giorni saliva a leggere i suoi libri. Un bel giorno era salito in terrazza e lo aveva letto con una specie di piacevole presentimento, senza sapere come, né perché, aveva ripensato alla sua gazza ed aveva immaginato che quel giorno stesso l'avrebbe rivista. E così fu! Mentre se ne stava lì a leggere, scoprendosi distratto, svogliato, come se pensasse ad altro, a qualcosa che doveva avvenire, ecco da lontano la sagoma bicolore della sua gazza e il frullo delle sue ali che sentiva sempre quando quella atterrava a casa sua. Ma stavolta la scena fu diversa. La gazza con gli occhi vispi atterrò sul muretto della loggia e si piegò su un lato, come se una zampetta non avesse retto più il suo peso. Pasquale C la prese tra le mani, cercando di scoprire da cosa fosse stato determinato quel movimento strano, girando l'uccello tra le mani e tendendone le ali e le zampette alla ricerca dell'evidente problema si accorse subito che uno degli arti dell'uccello doveva aver subito una frattura e l'ossicino si era rimarginato male, compromettendone per sempre l'atterraggio e lo stazionamento. La pica, secondo l'attendibile ricostruzione di Pasquale C, doveva essere rimasta vittima di una tagliola o dei pallini di piombo di un cacciatore di frodo, ma era riuscita, benché ferita, a scappare e a fare ritorno al suo nido, dove si era curata da sola ma era rimata oltraggiata nell'arto. L'anno dopo era tornata dall'amico, come avesse intuito che quello era stato in pensiero per lei, non lo aveva dimenticato, sapeva che Pasquale C l'avrebbe aspettata, non si sarebbe rassegnato alla sua assenza, che l'avrebbe accolta ed accudita ancora. E così era stato! Ancora oggi, dopo una dozzina d'anni dalla prima volta, e ad un lustro dall'incidente, la pica in primavera torna sul terrazzino della casa di Pasquale C (e del suo avo Cherubino Coreno), che la accudisce e le regala i suoi cibi raffinati, le sue scaglie di parmigiano, il suo formaggio preferito. La gazza, tiene sempre per sé le più piccole e porta, invece, le grandi ai suoi pulcini e al suo compagno.
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