Antonio, detto Albero, é un altro di quelli che ci hanno preceduti in Paradiso.
A
me, sinceramente, non interessa se si è buttato o se è caduto accidentalmente in quel
maledetto pozzo.
E la cosa non dovrebbe interessare a nessuno di noi.
E'
un dettaglio ininfluente, nella vita di un uomo, sapere come è morto.
Sapere come sono morte le persone sono solo curiosità per giornalisti
morbosi che conducono trasmissioni coi plastici.
Io Antonio lo
conoscevo, questo è quello che conta.
Ci parlavo spesso e, forse, ho
capito anche qualcosa di quello che pensava e che voleva e
che inseguiva, in questo suo rapido - ma calmo e pacifico - passaggio
terreno.
E questo è quello che conta.
Ci avevano avvicinati,
innanzitutto, il suo nome, dal suono per me molto famigliare: lo
condivideva con mio padre e con mio figlio; la passione per la scrittura
e per la poesia; infine, una certa mia curiosità per chi, in questo
mondo dominato dalla omologazione, riesce ancora ad essere
anticonvenzionale.
Forse, in fondo in fondo, provo gelosia, o
addirittura invidia, per questi individui, perché vorrei essere anch'io
come loro, ma imprigionato nella mia vita comoda, non ci riesco.
Ovviamente, questo, non lo confesso nemmeno a me stesso.
Una delle
ultime volte che ci siamo visti, non molto tempo fa, fu al ritorno da una passeggiata al cimitero coi miei bambini.
Lo incontrai per strada, stava fermo, in fondo a Viale della Libertà.
Quando lo salutai e gli chiesi che cosa ci facesse proprio in quel punto, quasi meravigliato dalla
domanda, con un gesto ampio da seminatore mi mostrò il cielo, e mi rispose che stava
osservando, anzi ammirando la luna ch'era già sorta, grandissima nel cielo azzurro.
E lui era fermo lì, quasi in estasi.
Come se quello spettacolo fosse lo spettacolo più straordinario del mondo.
E a me è rimasto il dubbio che non lo fosse davvero.
Ogni volta che lo incontravo, che vedevo la sua folta e lunga e bianca barba - che con gli anni si era
fatta brizzolata; i suoi occhi neri e furbi; nel suo tipico abito di lino bianco da santone, mi
salutava cordialmente, mi lasciava una delle sue poesie arrotolate nella canna e andava
via, spingendo con energia sui pedali della sua bicicletta cigolante, da figlio dei fiori.
Io ho sempre pensato che, a suo modo, Antonio fosse un privilegiato.
Senza l'assillo delle scadenze bancarie e fiscali, nè i noiosi appuntamenti di lavoro, nè gli orari da rispettare ogni giorno o la pressione della routine quotidiana che stanno ammazzando l'uomo
moderno.
O che, comunque, lo stanno rendendo sempre meno libero.
Lui, come unico, impegno quasi giornaliero, doveva solo raggiungere un angolo della Villa Comunale, una specie di speaker's corner personale dal quale faceva i suoi comizi d'amore per il mondo e per la gente e per la natura.
O, semplicemente, parlava con chiunque lo avvicinasse.
O, si accomodava per scrivere, per appuntare i suoi pensieri, che poi, a casa, avrebbe
trasformato in poesie.
Oppure si divertiva, semplicemente, a guardare l'umanità ansiosa che lo circondava.
In ogni caso, quello che mi appariva evidente era che fosse soddisfatto, della sua vita e di come si svolgeva; era esattamente quello che voleva accadesse,
quello che faceva era quello che lui aveva scelto di fare.
Lui si era
pure costruito, quasi da solo, la sua piccola casa nella contrada
Cesari, nel giardino della pietra fiorita, come poeticamente aveva
battezzato il suo podere.
Quello era il suo regno; lì viveva una parte
della sua vita neopauperista, a diretto, anzi, strettissimo contatto con
la natura che amava e rispettava.
Tra le aiuole di pietra che ancora
circondano i fusti delle querce e degli ulivi secolari.
Tra le felci, i
lentischi e le stramme selvatiche.
Tra gli uccelli e gli altri piccoli
animali del bosco.
Le forme di vita che amava e rispettava.
Il posto
deve è andato e dove si trova ora, il suo paradiso - che potrebbe essere
anche il wallhalla o le praterie di manitù, sarebbe lo stesso - è un
posto dove, finalmente, potrà attingere l'acqua con le sue grandi mani
unite a coppa, direttamente dal ruscello; per berla.
Dove potrà
strappare la verdura dalla terra e cogliere i frutti maturi dagli
alberi; per cibarsene.
Dove fumerà tabacco che lui stesso avrà
coltivato; essiccato e arrotolato con le sue mani.
Perché fumare era
un piccolo piacere che non si negava.
Quel gesto che per gli altri era
un vizio riprovevole, lui lo faceva apparire un'abitudine quasi
salutistica.
Forse perché era l'unico vizio che aveva, oltre al vizio di
vivere come gli piaceva.
Perché il suo Paradiso, in fondo, era la Terra,
come lui la pensava.
Come lui la voleva.
Come lui l'ha amata.
Ciao Antonio, ciao Albero, eri un personaggio, forse strampalato e pittoresco, ma vero e onesto.
Ci hai solo preceduti.