Ho reclamato,
dall’uomo distratto che stava di
guardia,
il permesso di entrare da solo,
nella stanza fredda.
Ho voluto salutare mio padre,
per l’ultima volta.
Siamo stati insieme per lunghi
minuti,
ma entrambi eravamo soli.
Lui impietrito,
avvolto in lenzuolo bianco;
io senza parole,
raccolto in una preghiera muta,
il viso segnato dalle ultime lacrime
che avevo da versare.
Come per un miracolo,
il suo volto non era più sofferente.
Papà sembrava guarito,
restituito per sempre all’espressione serena
di sempre.
Quella che nelle eterne settimane
precedenti avevo dimenticato.
Ho avuto l’audacia di scoprire il suo corpo.
Era nudo,
sotto il sudario.
L’ho osservato per interminabili
momenti.
Ho letto, cucita nelle sue carni,
una lunga inutile ferita,
testimone della scienza
impotente,
che s’arrende al mistero
insopportabile della Vita
e della Morte.
E’ stata la prova più dura di tutta
la mia vita.
Sembra mostruoso,
ma può essere
lecito,
scoprirsi a pregare perché
una persona che ami non viva più,
sofferente,
ma si spenga al più presto.
Oggi,
quando mi capita d’entrare
nella chiesa deserta,
percepisco ancora gli echi
del necrologio commosso del suo
collega più caro,
interrotto dai frequenti singhiozzi
degli altri.
Uscendo,
avverto lontano il
crepitio sordo dell’ultimo applauso,
al passaggio della bara,
portata a spalla dai suoi amici più
fedeli,
mentre sulla piazza cala,
come un velo pesante,
immateriale e dolente,
il fiacco rintocco della campana
a martello dei morti.
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