Oggi sono andato a Cassino.
La città martire. Chiamata così e conosciuta da tutto il mondo perchè durante la Seconda Guerra Mondiale fu distrutta completamente e con essa fu rasa al suolo la splendida, maestosa Abbazia di Montecassino.
Il faro della civiltà e della cultura occidentale.
Una delle poche ragioni per le quali vale la pena di spingersi fino al centro di questa depressione geografica sulla quale sorge la città.
Nonostante un mio automatico senso di umana solidarietà nei suoi confronti resta una città che non ho mai amato.
Ho iniziato a detestarla da quando nel lontano 1970 ci andavo a scuola.
La mia vita cambiò radicalmente solo quando mio padre, dopo l'ennesimo scivolone in V° ginnasio, non pensò bene di farmi cambiare scuola, mandandomi a Formia.
Dalla città della nebbia passai alla città del sole e del mare.
E i risultati si videro subito. Oddio! Non diventai un genio solo in ragione del mio insediamento nelle bellezze paesistiche che preludono alla Riviera d'Ulisse, ma il livello di serotonina e anche il mio morale si alzarono subito e feci il liceo senza eccellere ma anche senza soverchi problemi.
La caratteristica di Cassino è che dalla parte bassa e brutta si vede bene la parte alta e bella.
Dal centro della città si vede la Rocca Janula (o quello che ne rimane) fatta costruire nel X secolo dall'abate Aligerno, fu per secoli il fulcro militare della signoria della Terra di San Benedetto. Anch'essa fu pesantemente danneggiata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, è stata oggetto di un significativo restauro negli ultimi anni e domina ancora l'odierna Cassino.
Altra perla della città: le Terme Varroniane.
Un parco naturale-termale nato nel dopoguerra nei pressi della villa di Marco Terenzio Varrone, erudito scrittore latino, edificata presso la città di Cassino. Una volta all'estrema periferia, ora praticamente inglobate dal centro abitato.
Altro posto di notevole interesse di Cassino è l'Anfiteatro Romano. Fatto costruire da Ummidia Quadratilla. La struttura è di forma ellittica con il diametro del lato
maggiore pari a circa 85 metri ed il lato minore che raggiunge una
dimensione pari a 69 metri.
L'anno di costruzione risale al I secolo d.C.
Il quartiere in cui sorge
l'anfiteatro, proprio per la presenza di quest'ultimo, è denominato
"Colosseo".
Non proprio famoso per eleganza ed esclusività.
Quando vado in un posto, oltre a rendermi conto delle eventuali bellezze paesistiche, architettoniche, storiche, mi piace sedermi su una panchina e osservare
il campionario di varia umanità (la gente) che mi sfila davanti.
Tra gli altri mi è passato davanti anche qualcuno che ho conosciuto personalmente.
Peppino
Gentile, ad esempio, non una figura di primissimo piano nella DC degli
anni '80 ma comunque un dirigente abbastanza influente. Ricoprì la
carica di Segretario Provinciale e fu anche Consigliere Regionale.
Memoria storica del cassinate e del partito e autore di diverse
pubblicazioni, tra le quali un libro proprio sulla storia della DC
provinciale.
Non è mai stato un mio amico personale e, per questo, ho evitato di salutarlo.
Probabilmente
non mi avrebbe riconosciuto, sebbene ad uno storico (o presunto tale)
si dovrebbe richiedere, se non una buona scrittura, almeno una buona
memoria.
Perciò se proprio non avete una meta migliore o volete per forza andare a Cassino non pretendete troppo dalla città: la delusione sarà più sopportabile; visitate i posti che vi ho segnalato e qualche altro intorno; allontanatevi al più presto dal centro della città, anzi, andatevene a zonzo per l'Alta Terra di Lavoro e per i paesi limitrofi: certamente vi imbatterete in posti più singolari e con motivi di maggiore curiosità e di maggiore interesse.
SMR
(La foto sotto a corredo del mio pezzo è stata gentilmente offerta da "Foto B&B La Costa - Cassino")
giovedì 31 maggio 2012
mercoledì 30 maggio 2012
Ma pò sa lattara chi era?
Oggi pomeriggio - saranno state le 15,30 - percorrevo a passo svelto (forse, illudendomi di fare un po di walking dimagrante), Via 4 Novembre: il decumano principale del mio paese, insieme a Viale della Libertà; la strada che separa casa mia dal mio negozio.
Lungo il lungo tragitto, peraltro deserto, incontro una sola persona: una signora anziana che conosco, ma di cui, colpevolmente, non ricordo mai il nome, nemmeno quando viene al negozio a comprare i ...lazzetta (come chiamano le catenine d'oro dalle mie parti).
Mi ferma e, in dialetto stretto, quasi schiva, mi fa: "O sai ca stonco a legge iu libru teo! O sai ca, puru vecchia come so, (in effetti, avrà l'età di mia madre: 80 anni suonati) ì certe cose m'avea propiu scordate!
...Zi Sandigliu gliu strammaru ...Giuavagni re fanfarrone ....Girardu, .... ma po la lattara chi era?"
Le rispondo cortese, anzi amorevole, come stessi rivolgendomi a mia madre.
(Devo rispetto ad una persona più anziana, uno dei miei pochi lettori e, per giunta, anche mia cliente. Si chiamano pubbliche relazioni o riconoscenza?).
Ma parlo in italiano: "In effetti la lattaia è un personaggio inventato da me: ho preso spunto da un quadro. (n.d.r. La lattaia, anzi, la donna che mesce il latte di Vermeer) Ma, nella realtà, le lattaie erano due persone diverse: quando ero piccolo piccolo andavo da zia Petronilla ai Lormi, la mamma della vecchia guardia comunale; da più grande sono andato da Amelia al Quarto, la moglie del Mulino. Le conoscevi quelle signore, no!"
Risponde, stavolta parlando un corretto italiano anche lei: "Si le conoscevo. E il tuo libro mi piace molto. Grazie per avermi fatto ricordare certe cose che avevo dimenticato! Specialmente alla mia età fa molto piacere ricordarle."
Ecco! Io penso che se uno dei miei obiettivi era (anche) quello di far rivivere attraverso i miei racconti, le mie storie, i miei personaggi, un modo di vivere e di intendere la vita, l'apprezzamento di quella signora testimonia che almeno quell'obiettivo è stato raggiunto. E questo apprezzamento semplice ma vero, che arriva da una persona altrettanto semplice culturalmente ma onesta, è il migliore riconoscimento a cui io potessi aspirare.
Del resto - come diceva il maestro Raffaele Di Siena - è vero:
"Non conta vendere 10 copie di un libro che nessuno legge; conta di più vendere una copia che invece leggono in dieci!" :-)
L'ITAGLIA: IL PAESE DELLA RETORICA E DELLA ..PLETORICA.
L'Italglia è la nazione dei Retori e della Retorica!
Ed anche la nazione dei Pletori e della Pletorica!
Prima facciamo retorica, poi proseguiamo a farla con la Pletorica.
Abbiamo una Retorica e (di conseguenza) una Pletorica per tutto:
bandiera e inno nazionale (a morte chi non lo sa a memoria!),
funerali (meglio se di Stato),
stragi (specie se c'entrano i servizi segreti deviati),
parate militari (facciamola! non la facciamo! ma si non la facciamo e diamo i soldi ai terremotati),
mafia (la nostra cara vecchia...immarcescibile),
crisi economica (la nostra, quella europea e anche quella mondiale; manca solo quella lunare e la marziana, ma arriveranno presto),
tassi, btp, cct e, soprattutto, Spread (che fino a 6 mesi fa nessuno sapeva cosa fosse),
scandali (sono quasi scomparsi dal mondo; restano quasi solo i nostri, SIC!),
mani pulite (abbiamo il brevetto),
terremoti (i nostri e anche quelli degli altri),
tzunami (solo quelli degli altri; da noi si ricorda solo quello di messina 1906),
tasse e disservizi,
fame nel mondo (preferibilmente quella africana)
corruzione e concussione (reati scomparsi negli altri paesi civili; conserviamo
l' esclusiva),
attaccamento alle poltrone,
riforma istituzionale, costituzionale e riduzione del numero dei parlamentari.
Et alia! (praticamente potete aggiungere a piacere vostro).
Insomma tutto quanto possa essere oggetto di Retorica e di Pletorica.
Abbiamo anche dei Sacerdoti della Retorica e della Pletorica (leggi il grande sughero: Bruno Vespa) che officiano le loro messe possibilmente in TV (sulle reti nazionale), in prima serata, con ospiti più o meno capaci ma tutti volenterosi (e pagati! Sic!).
E dopo tutti sappiamo di più di geologia, di magnitudo e di epicentri: vuoi mettere?
Solo la Storia e i libri non ci insegnano mai niente.
Insomma siamo straordinari: possiamo essere ...terremotati, ma non siamo ...terremutati e non muteremo mai, tanto meno in meglio.
Ormai si può dire senza timore di essere smentiti che non cambieremo mai, anzi, che conserviamo ampi margini di ...peggioramento.
Sta proprio in questo il nostro limite e la nostra peculiarità.
Non siamo soli nella galassia, ma siamo i soli!
Siamo unici!
VIVA L'ITAGLIA!
P.S. E che non lo so? Anche il mio pezzo è Retorica e Pletorica! Ergo non tenetene conto.
SMR
martedì 29 maggio 2012
Esercizi di paesologia: Pontinia e San Felice al Circeo.
ESERCICI DI PAESOLOGIA. PONTINIA E SAN FELICE AL CIRCEO.
Prosegue il mio diario di visite paesologiche: il rendiconto delle cose curiose derivante da una serie di viaggi nei paesi e nelle città della provincia di Frosinone e quella di Latina.
Stamattina percorro la famigerata Pontina per raggiungere Pontinia.
Altra cittadina anonima della pianura Pontina.
Altro posto senza storia, senza personalità e senza centro storico.
Alla prima indicazione che trovo sulla mia strada, andando verso Latina, svolto a destra e imbocco un vialone lungo e stretto, un rotolone d'asfalto nero "srotolato" dritto dritto tra i campi verdi che si stendono a destra e a sinistra.
Fortuna, di chi la percorre: il viale è ombreggiato. Altissimi salici, solo salici, poco meno che secolari, lo proteggono dal sole e dal caldo, che qui d'estate dev'essere torrido.
I progettisti di strade del periodo fascista dovevano avere l'ossessione del sole e del caldo: e dovevano per forza risolvere il problema dell'ombra.
A questo scopo avevano pensato bene, come ad esempio sulla vecchia Appia, di piantare filari di alberi lungo tutto il percorso delle strade, nuove o vecchie che fossero.
La spiegazione ufficiale più accreditata, la vulgata, è che gli alberi dovessero appunto ombreggiare il percorso delle carrozzelle a cavalli, che avanzavano, per ovvie ragioni, molto più lentamente delle attuali automobili.
Gli alberi che vedo ai bordi della strada che mi porta a Pontinia sono, stranamente, secchi o bruciati: chi la percorre, penso agli allegroni che ancora sfumazzano, butta con tutta evidenza le cicche accese dal finestrino appiccando piccoli incendi nelle sterpaglie basse che costeggiano la via; le fiamme si propagano alla parte bassa dei rami estinguendosi subito tra le foglie verdi.
Sulla gigantesca rotonda erbosa che sta proprio all'inizio della città, ci trovi sempre un venditore di frutta di stagione, forse abusivo, forse un piccolo coltivatore in proprio.
Espone la sua merce a chilometri zero sul marciapiedi e indossa sempre un cappellone da gringo che lo aiuta a sopravvivere sotto il sole caldo che alle 10 di stamattina si fa già sentire sulla pelle.
Ha esposto i suoi primi cocomeri. Ne tiene uno "spaccato" che sormonta in due metà praticamente uguali la piccola piramide verde e bianca. Le usa come mostra. Magari le fa anche assaggiare.
La polpa è rossa, rosso fuoco e praticamente senza buccia. Promette di essere acquoso e zuccherino al punto giusto.
Poi ha i meloni: stessa strategia, ne ha aperto uno con la polpa bene in vista, gialla, invitante e, anche questo, promette di essere maturo al punto giusto.
Ed ha esposta anche una cassetta colma di patate che da lontano mi parevano noci di cocco, per quanto erano grandi.
Il paesone si stende in un perfetto piano sulla solita pianta geometrica prevista dai costruttori primigeni ispirati o "costretti" dal razionalismo fascista: lunghissimi viali intersecati ogni 10-15 metri da altre strade più piccole ad angolo retto, sui quali si affacciano anonimi palazzetti tutti nuovi, tutti uguali, tutti bruttini, tutti coi balconi, tutti con gli infissi in alluminio anodizzato.
Il centro della cittadina ospita (come avevo già notato la settimana scorsa anche nella cugina Sabaudia) il Palazzo Municipale con una torre a pianta quadrata non molto alta che affaccia su una piazza brulla, spoglia, senza piante nè aiuole.
Non posso nemmeno fermare qualche indigeno da intervistare; quindi non scoprirò oggi se c'è qualcosa da vedere e se Pontinia ha qualche peculiarità storica, paesistica o gastronomica.
E' un fatto che io non veda librerie, musei o giardinetti attrezzati.
E questo non depone certo positivamente in favore di una vivace attività socio-culturale.
E non vedo nemmeno piste ciclabili, sebbene anche verso il centro abbia incontrato diverse persone che si spostavano in bici, zig-zagando pericolosamente in mezzo alla strada.
Ci sono, invece, diversi distributori di benzina, anche al centro, una mezza dozzina di gioiellerie, diverse macellerie e negozietti di abbigliamento.
La sensazione è che gli amministratori, ammesso che ci siano, siano dediti solo alla ordinaria amministrazione e non abbiano molta fantasia, nè grossa voglia di fare più di quello che sono costretti a fare.
La mia incursione è, comunque, durata troppo poco per poterne cavare giudizi definitivi.
Intanto il mio lavoro è finito: devo muovermi, torno verso casa, ma prima faccio una capatina a San Felice al Circeo, con Sperlonga e Terracina le vere perle marine della provincia pontina.
Percorro la Pontina, stavolta, verso sud, sempre accompagnato dalle zaffate di letame che arrivano ad intermittenza.
La lucetta rossa della riserva carburante inizia a farmi l'occhiolino.
Mi fermo in una stazione di servizio della Erg, il distributore di ...Totti.
L'esercente, un arzillo e occhialuto, vecchietto che parla con uno spiccato accento romano ma sta a 100 km da Roma, ci tiene a farmi sapere che di lì passa spesso il famoso calciatore e la'altrettanto famosa moglie. Tiene appeso al box, come fosse una reliquia o un reperto archeologico di uguale inestimabile valore, un cartello di cartone, sul quale, con un grosso pennarello Totti ha aggiunto di suo pugno, col pennarello nero, alle scritte già esistenti, Terracina, Sabaudia e Sperlonga: "ER CIRCEO".
Magari nello stesso distributore sarà passato qualche premio Nobel che non giocava a pallone ma non ha lasciata traccia e nessuno si pregia di ricordarlo con lo stesso entusiasmo.
Mah! Così va il mondo!
Arrivo al bivio per San Felice, svolto, mentre il solito camionista impaziente ma cortese mi strombazza dietro e mi mostra gentilmente la strada che devo fare, esponendo fuori dal finestrino il suo dito medio.
Devo percorrere ancora 5 km per arrivare al centro della cittadina, notissima per le vacanze estive di molti vip e per il profilo della montagna nella quale molti vedono il volto la maga Circe.
La strada è interrotta da artistici, colorati, quanto invisibili (sono tutti all'ombra e difficilmente avvistabili) dissuasori di velocità: ci arrivi in velocità, ci salti sopra rimbalzando rumorosamente con l'auto e ti ricordi che, oltre a rallentare, devi pure fare un salto dal tuo meccanico per un controllo degli ammortizzatori.
Dentro il centro abitato è tutto un pullulare di negozietti inneggianti alla maga omerica: pizzeria circe, macelleria circe, perfino un'officina maga circe e altre amenità.
Oppure piccole botteghe con l'ingresso sormontato da pretenziose insegne scritte in inglese. Evidentemente strizzano l'occhio ai sempre meno numerosi turisti anglofoni.
All'improvviso una riflessione: ma se c'è la crisi e non se ne esce; se tutti si lamentano che non ci sono più soldi in giro perchè ci sono così tante banche, e ultimamente se ne vedono sorgere sempre di più e sempre più nuove? Misteri per Kazzenger!
Mentre sono assorto in queste riflessioni sui massimi sistemi vengo svegliato dal rombo inconfondibile di un motore da 4.000 cavalli: passa una Ferrari imballata dal traffico, poi una Maserati seguita da una Cayenne.
A proposito di soldi!
Ovviamente a San Felice abbondano le agenzie immobiliari e i cartelli rossi e verdi: Affittasi! Locasi!
Per i pochi o tanti che ancora possono permettersi di sborsare i 4-5.000 euro richiesti in alta stagione per un appartamentino di 30 mq o i 30.000 richiesti per una villetta che fa sicuramente più status ed è anche più riparata dagli sguardi indiscreti dei celebrity-watchings.
Mentre sono fermo sulla via principale assisto al via vai ininterrotto di grossi Suv e fuoristrada che arrogantemente calpestano l'asfalto con pneumatici da camion e cerchi da 18 pollici e con le loro grosse marmitte argentate irrorano l'aria di venefici miasmi carbonici.
Sembra che loro unica ragione di esistenza sia ingolfare le strette strade cittadine ed occupare due o tre parcheggi per volta.
Sono fermo in macchina da un po quando mi accorgo che sto cominciando a sudare: saremo intorno ai trenta gradi ed è solo il 29 Maggio.
Il caldo, a ferragosto, qui dovrà essere infernale.
Me lo conferma pure un facondo macellaio al quale mi rivolgo per sapere qualcosa di più della città.
E' in vena di confessioni, anche perchè al momento non ha clienti carnivori.
Mi confida di servire tutti i vip e le teste coronate del circondario.
Annovera tra i suoi clienti famosi attori, attrici, registi, principi e principesse e mi snocciola i nomi dei soliti noti del gossip, qualcuno pure morto, come il povero Castagna.
Poi aggiunge fiero che quando porta la carne ordinata preventivamente dal maggiordomo alla villa della principessa Cruciani sulla montagna della maga, le guardie del corpo ispezionano la sua auto, i grossi incarti di carne e pure lui. Avranno molto da fare dato il volume del suo corpaccione cresciuto a dismisura con vagonate di bistecche di vitello
Però, non c'è niente da fare. Se vuoi sapere le cose del posto devi parlare con la gente che incontri per strada.
Ormai sono le 12,30, stanco e affamato e accaldato non vedo l'ora di raggiungere le mie colline ciociare, meno rinomate ma sicuramente più fresche.
Faccio a ritroso la strada verso casa.
Il panorama mozzafiato, lungo la Riviera d'Ulisse, che mi godo percorrendo la Flacca, affacciata su un mare azzurro e calmo, mi riconcilia col mondo.
SMR
domenica 27 maggio 2012
Salvatore M.Ruggiero legge LE STAGIONI DELLA LATTAIA
Coreno Ausonio Villa Comunale - Open Space 12 Agosto 2011
Salvatore M.Ruggiero legge brani tratti dalla sua raccolta di racconti paesologici:
LE STAGIONI DELLA LATTAIA
dalla Piccola Storia n.6 Don Peppino, il prete che vedeva lontano.
http://www.youtube.com/watch?v=4x1AgevSskM
Salvatore M.Ruggiero legge brani tratti dalla sua raccolta di racconti paesologici:
LE STAGIONI DELLA LATTAIA
dalla Piccola Storia n.6 Don Peppino, il prete che vedeva lontano.
http://www.youtube.com/watch?v=4x1AgevSskM
Salvatore M.Ruggiero legge LE STAGIONI DELLA LATTAIA
Coreno Ausonio (FR) Villa Comunale - Open Space12 Agosto 2011
Salvatore M.Ruggiero legge dalla sua raccolta di racconti paesologici:
LE STAGIONI DELLA LATTAIA
la Piccola storia n.6 Giovanni, il contadino vero.
http://www.youtube.com/watch?v=dBLhO-T2KyI
Salvatore M.Ruggiero legge dalla sua raccolta di racconti paesologici:
LE STAGIONI DELLA LATTAIA
la Piccola storia n.6 Giovanni, il contadino vero.
http://www.youtube.com/watch?v=dBLhO-T2KyI
Salvatore M.Ruggiero legge LE STAGIONI DELLA LATTAIA
Coreno Ausonio (FR) Villa Comunale - Open Space
12 Agosto 2011
Salvatore M.Ruggiero legge un brano da
"LE STAGIONI DELLA LATTAIA"
la "Piccola Storia n.7 L'aula di mio padre".
http://www.youtube.com/watch?v=huJ9_O1gQUY&feature=g-all-u
venerdì 25 maggio 2012
Voglio davvero una Laurea in... Bergmanologia!
Questo, ovviamente, è uno scherzo.
Ma mi piacerebbe veramente laurearmi in ...Bergmanologia.
Alla facoltà di Storia del Cinema di Stoccolma si studia la filmografia di Ingmar Ernst Bergman: se non sbaglio tiene dei corsi la professoressa emerita Birgitta Steene, insegnante all'Università di Washington ed autrice di un libro che contiene l'Opera Omnia del Maestro: Ingmar Bergman a reference guide. Sessant'anni di carriera tutta ad altissimi livelli nei settori più diversi: film, opere teatrali, libri, radio, opera lirica e letteratura.
giovedì 24 maggio 2012
Esercizi di paesologia: Sabaudia (LT)
24 Maggio 2012 h.10.45 Sabaudia (LT)
Dalla Pontina al centro di Sabaudia, dopo aver fatto la grande rotonda di nuova costruzione girando a sinistra direzione Latina, si percorre una striscia d'asfalto dritta come un fuso, lunga qualche chilometro e non più larga di 5 o 6 metri.
Questo nastro srotolato d'asfalto nero attraversa una vasta zona pianeggiante tutta coltivata e piena di serre.
Un mio amico della zona qualche anno fa mi diceva che la vendita al Mof di prodotti coltivati in ognuna di quelle tende opache, stondate e torride poteva rendere fino a 25 milioni l'anno.
Oggi non lo so se è la stessa cosa: ma a giudicare dalle belle casette, in alcuni casi vere e proprie villette, i cui ingressi affacciano direttamente sulla strada, sembrerebbe che non rendano di meno.
Dopo un paio di chilometri attraverso un'afrore intenso e irrespirabile di letame, si passa un'altra rotonda, si gira a destra e ci si infila su un vialone d'ingresso largo una ventina di metri che porta dritti dritti al Municipio.
Classico esempio di architettura "Littoria" degli anni trenta, anzi esempio del cd. "razionalismo italiano", la Torre Civica a pianta quadrata è la costruzione più alta della città, l'unica alta: tutt'intorno alla piazza che domina sono tutte case a due massimo tre piani.
Nei ricordi che Bernardo Bertolucci dedica ad Alberto Moravia si parla di Sabaudia.
Moravia e il padre del regista si recarono, portando con se il giovane Bernardo, sul litorale della città pontina per cercare una casa da comprare, possibilmente a ridosso delle dune.
Era il 1958.
A distanza di vent'anni Bertolucci torna a Sabaudia per girare il suo film "La Luna" e "...la città dell'orribile architettura fascista, diventa bellissima."
Ovviamente in città non c'è un centro storico: non può esserci in una città senza storia, fondata durante il Ventennio fascista esattamente nel 1934, all'epoca della Bonifica della Pianura Pontina.
I turisti in cerca di stradine lastricate e musei a cielo aperto possono astenersi dal raggiungerla.
Tuttavia ci sono altri motivi per andare a Sabaudia.
A parte quelli commerciali che hanno spinto me stamattina, ne trovo almeno altri quattro o cinque, tutti plausibili : il mare d'estate, balneabile, azzurro, pulito e bellissimo; il mare d'inverno, anzi la spiaggia, da percorrere lentamente aspirando salsedine o di corsa, o anche in bici e a cavallo (ci sono ancora le dune); la casa di Paolini e Moravia (una "casa molto semplice: un cubo, idealmente diviso in due: un cubo con una terrazza a sinistra e una a destra. "Pier Paolo aveva la parte sinistra guardando dal mare e Alberto la parte destra." Scrive sempre Bertolucci); il Parco Nazionale del Circeo; il pesce fresco cucinato al momento nei numerosi ristoranti della zona; i prodotti della terra e la mozzarella di bufala.
SMR
P.S. metto qui un interessante contributo filmato, tratto da YouTube, che riguarda Pasolini e Sabaudia.
http://www.youtube.com/watch?v=e6ki-p1eW2o&feature=g-vrec
Dalla Pontina al centro di Sabaudia, dopo aver fatto la grande rotonda di nuova costruzione girando a sinistra direzione Latina, si percorre una striscia d'asfalto dritta come un fuso, lunga qualche chilometro e non più larga di 5 o 6 metri.
Questo nastro srotolato d'asfalto nero attraversa una vasta zona pianeggiante tutta coltivata e piena di serre.
Un mio amico della zona qualche anno fa mi diceva che la vendita al Mof di prodotti coltivati in ognuna di quelle tende opache, stondate e torride poteva rendere fino a 25 milioni l'anno.
Oggi non lo so se è la stessa cosa: ma a giudicare dalle belle casette, in alcuni casi vere e proprie villette, i cui ingressi affacciano direttamente sulla strada, sembrerebbe che non rendano di meno.
Dopo un paio di chilometri attraverso un'afrore intenso e irrespirabile di letame, si passa un'altra rotonda, si gira a destra e ci si infila su un vialone d'ingresso largo una ventina di metri che porta dritti dritti al Municipio.
Classico esempio di architettura "Littoria" degli anni trenta, anzi esempio del cd. "razionalismo italiano", la Torre Civica a pianta quadrata è la costruzione più alta della città, l'unica alta: tutt'intorno alla piazza che domina sono tutte case a due massimo tre piani.
Nei ricordi che Bernardo Bertolucci dedica ad Alberto Moravia si parla di Sabaudia.
Moravia e il padre del regista si recarono, portando con se il giovane Bernardo, sul litorale della città pontina per cercare una casa da comprare, possibilmente a ridosso delle dune.
Era il 1958.
A distanza di vent'anni Bertolucci torna a Sabaudia per girare il suo film "La Luna" e "...la città dell'orribile architettura fascista, diventa bellissima."
Ovviamente in città non c'è un centro storico: non può esserci in una città senza storia, fondata durante il Ventennio fascista esattamente nel 1934, all'epoca della Bonifica della Pianura Pontina.
I turisti in cerca di stradine lastricate e musei a cielo aperto possono astenersi dal raggiungerla.
Tuttavia ci sono altri motivi per andare a Sabaudia.
A parte quelli commerciali che hanno spinto me stamattina, ne trovo almeno altri quattro o cinque, tutti plausibili : il mare d'estate, balneabile, azzurro, pulito e bellissimo; il mare d'inverno, anzi la spiaggia, da percorrere lentamente aspirando salsedine o di corsa, o anche in bici e a cavallo (ci sono ancora le dune); la casa di Paolini e Moravia (una "casa molto semplice: un cubo, idealmente diviso in due: un cubo con una terrazza a sinistra e una a destra. "Pier Paolo aveva la parte sinistra guardando dal mare e Alberto la parte destra." Scrive sempre Bertolucci); il Parco Nazionale del Circeo; il pesce fresco cucinato al momento nei numerosi ristoranti della zona; i prodotti della terra e la mozzarella di bufala.
SMR
P.S. metto qui un interessante contributo filmato, tratto da YouTube, che riguarda Pasolini e Sabaudia.
La sera del 7 febbraio 1974 la Rai tv trasmise un nuovo, breve documentario della serie "Io e...",
intitolato "Pasolini e ... la forma della città", a cura di Paolo Brunatto. Nelle ultime immagini, mentre si chiudeva il documentario e dopo aver camminato nervosamente tra le dune di Sabaudia,
all'improvviso Pasolini si fermò, esponendo alla telecamera il pallore di un volto sofferto e scavato,
e denunciando con assoluta sincerità e asciutta drammaticità, decisamente inabituali per i telespettatori di allora (e di oggi) l'appiattimento culturale,la devastazione estetica
e l'imbarbarimento civile a cui ci avrebbe inevitabilmente portato la societa' dei consumi concepita dalla repubblica post-fascista e in generale da tutti i "regimi democratici" contemporanei.
intitolato "Pasolini e ... la forma della città", a cura di Paolo Brunatto. Nelle ultime immagini, mentre si chiudeva il documentario e dopo aver camminato nervosamente tra le dune di Sabaudia,
all'improvviso Pasolini si fermò, esponendo alla telecamera il pallore di un volto sofferto e scavato,
e denunciando con assoluta sincerità e asciutta drammaticità, decisamente inabituali per i telespettatori di allora (e di oggi) l'appiattimento culturale,la devastazione estetica
e l'imbarbarimento civile a cui ci avrebbe inevitabilmente portato la societa' dei consumi concepita dalla repubblica post-fascista e in generale da tutti i "regimi democratici" contemporanei.
http://www.youtube.com/watch?v=e6ki-p1eW2o&feature=g-vrec
mercoledì 23 maggio 2012
A VENT'ANNI DALLA STRAGE DI CAPACI.
A 20 anni dalla Strage di Capaci, che procurò la morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e della sua scorta, l'aspetto che mi appare veramente drammatico è che lo scoppio di 500 kg di tritolo su un'autostrada, organizzato scientificamente dalla mafia, come un vero atto di guerra allo stato, a noi, alla morale, alla giustizia, al mondo, ci appaia ormai come un fatto ineluttabilmente...normale.
La sua assoluta straziante immensa incommensurabile straordinarietà è stata appiattita, anzi, schiacciata dalla nostra banalità, dalla banalità della ripetizione giornalistica e televisiva delle immagini, danna inanità ripetitiva delle parole, nostre e degli altri e, soprattutto, dall'assenza di una definitiva sconfitta dei bastardi senza gloria che vollero quella strage e la perseguirono.
Sarebbe sicuramente tutto diverso, tutto ci apparirebbe sotto una luce totalmente radicalmente diversa, addirittura "pacificante", se oggi potessimo dire, anzi urlare: "Falcone è morto; Borsellino è morto, tanti sono morti, ma alla mafia gli abbiamo fatto il culo!"
Invece, siamo ancora qui ad aspettare che la mafia venga battuta, venga estirpata, spazzata via dalla terra come meriterebbe, ma non accade.
Invece siamo ancora qui a macerarci nel senso di inutilità e di inadeguatezza nel quale, ci hanno sbattuti quelli che la mafia l'hanno combattuta anche per noi; quelli che si sono inutilmente immolati davanti al mostro e l'hanno fatto anche per noi che non ne eravamo capaci; che non ne siamo capaci.
E se fosse per la nostra incapacità che la mafia ancora esiste?
SMR
La sua assoluta straziante immensa incommensurabile straordinarietà è stata appiattita, anzi, schiacciata dalla nostra banalità, dalla banalità della ripetizione giornalistica e televisiva delle immagini, danna inanità ripetitiva delle parole, nostre e degli altri e, soprattutto, dall'assenza di una definitiva sconfitta dei bastardi senza gloria che vollero quella strage e la perseguirono.
Sarebbe sicuramente tutto diverso, tutto ci apparirebbe sotto una luce totalmente radicalmente diversa, addirittura "pacificante", se oggi potessimo dire, anzi urlare: "Falcone è morto; Borsellino è morto, tanti sono morti, ma alla mafia gli abbiamo fatto il culo!"
Invece, siamo ancora qui ad aspettare che la mafia venga battuta, venga estirpata, spazzata via dalla terra come meriterebbe, ma non accade.
Invece siamo ancora qui a macerarci nel senso di inutilità e di inadeguatezza nel quale, ci hanno sbattuti quelli che la mafia l'hanno combattuta anche per noi; quelli che si sono inutilmente immolati davanti al mostro e l'hanno fatto anche per noi che non ne eravamo capaci; che non ne siamo capaci.
E se fosse per la nostra incapacità che la mafia ancora esiste?
SMR
lunedì 21 maggio 2012
Appunti sparsi dopo la visione del film: LA FONTANA DELLA VERGINE.
Ma tu vedi, Dio! Tu vedi, vedi la morte di un innocente, vedi la mia vendetta e non l'hai impedito.
Io non ti capisco! Eppure adesso chiedo il tuo perdono. Non conosco altro mezzo per conciliarmi con queste mie mani, non conosco altro modo per vivere. Ti faccio voto, o Signore, qui, in penitenza del mio peccato, di edificare una chiesa con queste mie mani”.
(Tore - interpretato da Max von Sidow - dopo aver ammazzato i tre pastori che hanno violentato e ucciso sua figlia Karin - interpretata da Birgitta Petterson - davanti al suo corpo inanimato).
SINOSSI
Il Signore Tore ha due figlie.
Karin è bionda, bella e buona, zelante coi genitori coi servi e con gli estranei: e, forse, proprio questa sua qualità le costerà la vita.
Ingeri, in stato di gravidanza dopo una violenza sessuale, è buia, ombrosa e invidiosa di Karin, che detesta.
Quando Karin viene inviata a portare ceri alla Madonna che risiede nella sua chiesa di appartenenza, come solo una vergine può fare, Ingeri fa scivolare un rospo nel pane che servirà per la sua colazione.
Lungo il tragitto Karin, che ha litigato con la sorella e se ne è allontanata, proseguendo da sola, è fermata da alcuni pastori (in realtà sono dei malfattori) e si attarda a parlare con loro.
Innocente ed altruista, offre di condividere il suo pasto.
Proprio mentre prendono il pane per cibarsene il rospo depositatovi da Ingeri salta fuori dalla pagnotta.
Questo fatto improvviso irrita non poco ed insieme eccita gli uomini.
Essi aggrediscono la ragazza, prima la stuprano a turno, poi la uccidono senza motivo con una bastonata sulla testa.
La spogliano della sua preziosa veste e lasciano il suo corpo esanime e nudo a terra.
Più tardi, quando sono, incosapevolmente, ospiti della casa padronale del Signore Tore, essi offrono di vendere la veste di Karin, sporca di sangue, proprio a sua madre.
La donna, ineffabile e razionale, li rinchiude per evitare che scappino e avverte il marito.
Dopo un elaborato rituale pagano di abluzione purificante, Tore uccide i pastori e, con essi, anche l'incolpevole bambino che li accompagna.
(Sembra, quasi, di assistere alla scena della drammatica vendetta di Ulisse contro i Proci, con la quale si chiude l'Odissea di Omero).
Poi si reca alla ricerca del cadavere della figlia e, giunto sul punto esatto in cui la sua Karin giace morta, giura di costruire una chiesa in quel posto.
Come per miracolo, in risposta divina al suo gesto, sullo stesso posto una polla d'acqua sgorga improvvisamente.
21° film di Bergman, certamente uno dei suoi migliori.
Il primo (il solo?) in cui l'intervento di Dio nell'azione è concreto: il divino si materializza con un miracolo.
Le scene, molto realistiche, dello stupro e della vendetta, all'epoca, furono censurate.
Splendido, come sempre, il bianco e nero di Sven Nykvist, direttore della fotografia.
Oscar nel 1960 per il miglior Film Straniero.
Ambientato in un livido medioevo, che lo accomuna a “Il settimo sigillo”
- riferimento più immediato nella filmografia di Bergman - ma dal quale subito si distanzia, perchè in esso la violenza è un fatto privato, mentre in quello era generale e generalizzata.
E anche perchè non ci si occupa, né ci si preoccupa, delle grandi problematiche (o piaghe) dell'umanità, ma dei piccoli-grandi drammi (fatti) privati.
In quello poi, Antonius Block (sempre interpretato da Max von Sidow) cerca spasmodicamente Dio; nel successivo si invoca Odino, il dio pagano, e si prega il Dio dei cristiani, contemporaneamente ma in un'altra parte della casa.
In questo ci si sottopone ad un rituale catartico pagano e si manda una vergine a portare i ceri alla Madonna che sta nella chiesa cristiana di appartenenza.
Insomma ne “La fontana della vergine” ci si trova nel bel mezzo di una continua tensione tra tradizione dell'antico e ventata della nuova religione; tra misticismo e pragmatismo.
Nel film, poi, si da molto più peso alle immagini che non alle parole, ai dialoghi: come se Bergman volesse indurre lo spettatore, già durante la visione, ad una più diretta ed immediata meditazione.
“Mi assumo la piena responsabilità del problema religioso che ho creato ne “Il settimo sigillo”. Una vera pietà romantica resa in una luce speciale. Anche, con “La fontana della vergine”, la mia motivazione è stata estremamente mistica. Ma, il concetto di Dio che aveva iniziato, in me, molto tempo prima la sua ...bancarotta, è rimasto, nel film, poco più che un'accessorio. La cosa che mi interessava veramente era raccontare drammaticamente la storia orribile della ragazza e dei suoi stupratori, e la vendetta successiva di Tore. Il mio conflitto (in corso) con la religione era sulla via della sua completa definizione".
Il soggetto, tratto da una ballata, elaborata a sua volta da una leggenda medievale svedese (Tores dotter i Wänge), vede la firma eccellente di Ulla Isakson, una importante scrittrice svedese, nata a Stoccolma nel 1916 e morta nel 2000.
Autrice di romanzi, racconti e sceneggiature nei quali i temi principali sono le problematiche del sesso femminile, l'amore e i rapporti dell'individuo col divino.
Ella fu legata a doppio filo alla filmografia di Bergman da ben tre importanti collaborazioni: “Alle soglie della vita” (1958); La fontana della vergine” (1959); “Il segno” (1982).
"Tore Dotter i Wange" ("figlia di Tore in Vange"), è la ballata medioevale svedese su cui il soggetto e, quindi, la sceneggiatura del film di Ingmar Bergman sono stati tratti.Esiste davvero la chiesa edificata da Tore in memoria della figlia Karin assassinata dopo essere stata stuprata.
La posizione geografica di “The Vange” è nel Malmskogen in Östergötland, nel sud-ovest della Svezia.
Nel 19° secolo, Erik Gustaf Geijer, storico, scrittore e compositore svedese vissuto a cavallo tra il 18° e il 19° secolo, ha osservato che le persone nella zona circostante, ancora riferiscono numerose leggende sui tragici eventi tradotti dalla ballata.
Un manoscritto del 1673 dichiara addirittura l'esistenza della pozza di Vange (Vange Brunn), che apparve miracolosamente nel punto in cui la giovane vergine, protagonista della drammatica storia, fu uccisa.
Infine, si crede ancora che, nella foresta che sta nelle vicinanze, avvengano ogni sera intorno alla mezzanotte, le apparizioni del fantasma di Karin, la giovane vittima.
Molto interessante, per la esatta comprensione del messaggio cinematografico (una specie di interpretazione autentica) quello che lo stesso Bergman dice a proposito del suo lavoro:
"Un film che è stato uno dei miei lavori più oscuri: “La fontana della vergine”. Devo ammettere che contiene un paio di passaggi ad immediata accelerazione e di forte vitalità. L'idea di fare qualcosa al di fuori dalla vecchia folk-song 'Herr Tore di Venge's Daughters' era un forte richiamo per me. Così volli fare un “noir” medievale tratto da una brutale ballata in forma di semplice canzone folk. Ma parlandone con l'autrice del soggetto, Ulla Isaksson, ho cominciato a psicologizzare. Il primo errore è stato la volontà di introdurre un concetto “terapeutico”: la promessa solenne di costruire una chiesa con la quale espiare il tremendo peccato derivante dall'assassinio dei pastori. Artisticamente si è trattato di un escamotage assai poco interessante. Poi, l'introduzione di un concetto totalmente analizzante di Dio. La miscela di rappresentazione reale e di violenza, che ha una certa potenza artistica, ma è anche un ottimo esempio di come le migliori intenzioni possano far ottenere risultati del tutto contrastanti con le proprie motivazioni, e di come si possa trasformare un lavoro proprio nel momento in cui esso si sta sviluppando".
E, aggiunge il Maestro:
La fontana della vergine è un film turistico; una imitazione scadente di Kurosawa. A quel tempo la mia ammirazione per il cinema giapponese era al suo culmine. Ero quasi un samurai io stesso!" (Ingmar Bergman, nel suo libro: “Bergman su Bergman”)
E, infine, una breve ma interessante testimonianza sul film di Max von Sidow, contenuta in “Oggi Sidow”:
"Mi ricordo che c'era un accento fortemente intenzionale su un rapporto molto stretto tra il padre e la figlia, nel quale alla madre non era davvero permesso di entrare. Ella, tenuta fuori da quel rapporto, ne soffriva e nutriva anche una certa gelosia. La sequenza tra il racconto dello stupro e la macellazione dei rapinatori, serve quasi come un esempio da manuale di tecnica cinematografica di Ingmar Bergman, nella sua costruzione; nel montare della tensione scena dopo scena; nella quasi totale assenza di dialogo tra tutti i protagonisti”.
Come si diceva in precedenza “La fontana della vergine”, tra tutti i film di Bergman, è forse l'unico in cui, direttamente, si manifesta la presenza di Dio.
Anche se la teofania è mediata ed avviene attraverso un espediente didascalico e, tutto sommato, un po ingenuo.
Ed è anche quello in cui più accurata è la depurazione dai molteplici simbolismi cari al regista.
Ed è anche quello in cui più che in altri appare evidente la commistione tra paganesinmo e cristianesimo; tra sacro e profano; tra religione e laicità; tra aspetto del profondo rispetto divino ed atteggiamento profondamente laico.
In Tore si riscontrano tutte queste caratteristiche.
Sulle larghe spalle di Tore il Maestro getta il suo pesante fardello.
Quando si prepara alla vendetta, tipico metodo medievale per ottenere giustizia privatamente; quando si sottopone ad un rituale pagano di abluzione che lo prepari al sacrificio dei rei; quando promette a Dio, rivolgendosi direttamente a lui, di edificare una chiesa sul posto esatto del sacrificio della figlia Karin.
Ma il film è percorso, anzi permeato, da una costante, continua, tensione religiosa, che si avverte, palesemente, in alcuni momenti, in alcune scene.
Una fra tutte, ad esempio, quando un frate-contadino si rivolge al più piccolo dei tre fratelli pastori:
Vedi come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto: come avesse paura dell'ignoto. Eppure, se si librasse nell'aria, troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa: e così se ne sta qui, nascosto, tremolante e inquieto. Con gli uomini capita lo stesso: essi vagano inquieti come tante foglie al vento, per quel che sanno e per quello che non sanno”.
Infine, due curiosità:
1) la fonte dalla quale sgorga acqua pura e purificatrice, tornerà nei successivi film di Bergman, ad esempio nelle scene finali de “Il silenzio”;
2) il film d'esordio del regista dell'horror statunitense Wes Craven "L'ultima casa a sinistra" (1972) fu praticamente un remake del ben più noto film di Bergman, ed alla sceneggiatura collaborò, non a caso, Ulla Isakson.
“Per quanto un giorno inizi lieto, finisce malamente prima del tramonto”.
Le mie recensioni sono contenute nel saggio:
IL GENIO DI UPPSALA. Il grande cinema di Ingmar Ernst Bergman spiegato a chi lo ignora.
reperibile sul sito amazon.it, seguendo il link:
http://www.amazon.it/Grande-Cinema-Ingmar-Bergman-Spiegato/dp/1470921553/ref=sr_1_14?s=books&ie=UTF8&qid=1332771128&sr=1-14
venerdì 18 maggio 2012
Sommaren med Monika. Appunti sparsi dopo la visione del film Monica e il desiderio.
A voler essere sintetici il film Monica e il desiderio, uno dei più noti di Ingmar Bergman (anche per via del grande scandalo che seguì alla sua uscita), non certo uno dei più grandi, elabora:
...”la storia di una ragazza che seduce un uomo, fuggono, trascorrono insieme l'estate al limite della legalità e, giunto l'inverno, tornano in città, hanno dei problemi e si lasciano”.
(da Conversazione con Ingmar Bergman di Olivier Assayas e Stig Bjorkman).
I motivi per cui il film fece rumore, ebbe successo, sebbene a molti mesi dalla sua uscita, e resta una pietra miliare nel cinema di Ingmar Bergman sono sotanzialmente tre:
- Costituì il lanciò definitivo di una giovane attrice, appena diciannovenne, bellissima e sfrontata: Harriet Andersson, peraltro sconsigliata caldamente al Maestro da un anziano regista che aveva lavorato in precedenza con lei. Quando Bergman gli chiese se avesse potuto attribuirle la parte di Monica, quello rispose sarcastico: “Non credo. Se lo fa, sarà a suo rischio e pericolo”.
- Fu pesantemente mutilato dalla forbice della censura che pensò bene di eliminare alcune scene erotiche che avevano per protagonista la bellezza fisica e travolgente della Andersson.
- Da esso scaturisce una curiosa quanto proficua querelle di giudizi critici da parte di alcuni noti esponenti della Nuovellevague francese, il più noto dei quali fu il critico dei Cahiers du cinema e regista a sua volta, Jean Luc Godard.
Sinossi
Monica e Harry, due giovani, in cerca di vita e d'amore, si conoscono in uno squallido caffè.
Decidono di fuggire e di girare il mondo vivendo alla giornata.
Si sotengono mangiando funghi selvatici colti nel bosco, frutta rubata dai frutteti e, perfino, (Monica) un trancio di arrosto sottratto al buffet di una villa.
Trascorrono le lunghe giornate estive facendo l'amore, oziando, parlando e bagnandosi in mare.
Monica lascia a briglie sciolte tutta la sua femminilità, fisicità, bellezza, voglia di vivere e di divertirsi.
Fino a quando non confessa ad Harry di essere in cinta.
Alla fine dell'estate tornano in città con l'intento di regolarizzare il loro rapporto.
Invece dopo un litigio violento nel quale Harry accusa Monica di adulterio (che lei non nega, confessando, anzi, di amare ancora una sua fiamma: Lelle) si lasciano.
Il film finisce con un flash-back nel quale Harry rivede i felici momenti estivi passati assiema a Monica.
E un motoscafo che lentamente si allontana sull'acqua.
Recensione
Non c'è dubbio che il film viva e si regga quasi esclusivamente sulla presenza in scena (pressochè ininterrotta) e sulla intensa performance interpretativa di Harriet Andersson.
Secondo Olivier Assayas, che raccolse in un libro la sua “Conversazione con Ingmar Bergman”, quella di Harriet Andersson in “Monica e il desiderio” è una delle più grandi performance d'attrice alle quali lo spettattore abbia mai assistito.
Ingmar Bergman aggiunse:
...Lei ha una storia d'amore con la macchina da presa. La macchina da presa la stimola e lei se ne sente estremamente stimolata. Una relazione molto strana....”
Non c'è alcun dubbio che la sua recitazione originale, sfrontata, scandalosa, disibinita, da attrice consumata abbia lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema mondiale.
Sempre Olivier Assayas, scrive:
"Uno degli elementi straordinari del film è Harriet Andersson. Sicuramente una delle più grandi attrici mai esistite”.
La replica secca di Bergman: “E' vero”.
Lo stesso Bergman (che, per qualche periodo, era stato legato sentimentalmente all'attrice) afferma:
"...Se lei la vede in “Monica e il desiderio” e poi in “Sussurri e grida”... io credo che lei...insomma...che lei sia una delle più grandi attrici del mondo”.
E ancora Bergman, indugiando, stavolta, sulle indubbie qualità fisiche ed estetiche dell'attrice:
"Harriet era molto bella. Aveva diciannove anni. Abbiamo fatto il film. Quello è stato un periodo bellissimo”.
Ma non finisce quì.
Il Maestro spinge ben oltre la sua agiografia di Harriet Andersson.Scrive, infatti, nel suo libro autobiagraficoImmagini:"Harriet Andersson è uno dei geni della cinematografia. Se ne incontrano soltanto alcuni rari esemplari durante il cammino tortuoso attraverso la giungla di questo mestiere. Ecco un esempio. L'estate è finita. Harry non è in casa e Monica esce con Lelle. Al caffè lui fa suonare il juke-box. Nel fracasso dello swing la cinepresa si volta verso Harriet. Lei sposta lo sguardo dal suo partner direttamente sull'obiettivo. Così veniva stabilito, all'improvviso e per la prima volta nella storia del cinema, un impudico contato diretto con lo spettatore”.
E si giunge, così, al famosissimo sguardo in macchina di cui tanto si è parlato e scritto.
Il film, tuttavia, non fu accolto molto bene.
Almeno dalla critica.Ebbe invece un discreto successo di pubblico.
Fu recensito in modo molto discordante dai critici dell'epoca.
Specie da quelli italiani, che non furono troppo clementi col regista svedese.
Giacinto Ciaccio lo liquidò scrivendo:
“Un dramma insieme bislacco, discutibile e commovente”.
Mario Verdone lo definì: "Un film minore” niente di più che “un solo, efficace, studio di donna”.
Alfonso Moscato, ritenne eccessivo ....” il parallelismo tra la natura e l'animo della ragazza”.
L'accoglienza tiepida che ebbe in Italia, per fortuna non fu la stessa che ebbe in altri paesi. E fu bilanciata, ad esempio, da quella ricevuta in Francia, specie dal regista-scrittore-critico Jean Luc Godard che, dopo una retrospettiva organizzata dalla Cineteca Francese, lo riabilitò, sostenendo su i “Cahiers du cinema” che, in quel film più di ogni altro, Ingmar Bergman si era imposto come il “cineasta dell'istante”
Aggiungendo enfatico nella sua entusiastica recensione:
"Ognuno dei suoi film nasce da una riflessione dei protagonisti sul presente, approfondisce tale riflessione attraverso una sorta di frantumazione della durata, un po alla maniera di Proust, ma con maggiore forza, come se Proust fosse stato moltiplicato da Joyce e Russeau insieme, e infine diventa una gigantesca e smisurata meditazione a partire da un'istantanea. Un film di Bergman è per così dire un 24° di secondo che si trasforma, si dilata per un'ora e mezza.
E' il mondo fra due battiti di palpebre, la tristezza fra due battiti di cuore, la gioia di vivere tra due battiti di ali”
Lo stesso Godard fu affascinato dalla sequenza in cui Harriet Andersson fissa ostinatamente la macchina da presa, 5 anni prima di Gelsomina (Giulietta Masina) in La strada:
Bisogna aver visto Monica almeno per gli straordinari momenti in cui Harriet Andersson, prima di riandare a letto con un tale che aveva piantato (Lelle, ndr), guarda fisso la macchina da presa con i suoi occhi ridenti pieni di smarrimento, prendendo lo spettatore a testimone del disprezzo che essa prova nei suoi confronti per il fatto di scegliere involontariamente l'inferno contro il cielo”.
E la definì: “l'inquadratura più triste di tutta la storia del cinema”.
Curiosità
Il film, ad alto contenuto erotico, creò non pochi problemi ad Ingmar Bergman, non solo negli altri paesi, ma addirittura per la distribuzione nell'avanzata e disinibita Svezia.
Anche nella versione originale svedese infatti fu tagliata l'inquadratura di Monica che si accarezza il seno voluttuosamente.
E, nonostante il film, uscito nel 1953, fosse stato distribuito nel resto d'Europa con qualche anno di ritardo e in Italia, addirittura, nel 1961, fu censurato pesantemente.
In particolarre la forbice della censura colpì:
a) la scena del momento in cui Monica fugge completamente nuda verso il mare sotto gli occhi di Harry;
b) l'inquadratura di Monica stesa a seno nudo sul motoscafo;
c) la scena nella quale Harry la prende con la forza strappandole i
vestiti di dosso.
Conclusioni
"Non ho mai fatto un film meno complicato di Monica e il desiderio. Tiravamo semplicemente avanti e si girava. Ci rallegravamo della nostra libertà. Il successo di pubblico fu considerevole”.
(Ingmar Bergman, dal suo libro autobiagrafico: Immagini)
Ed in chiusura di questa nota voglio anche aggiungere una considerazione personale sull'infelice titolo attribuito al film dalla distribuzione italiana.Forse questo bel film del Maestro avrebbe meritato un titolo, in italiano, meno ...equivoco(come lapidariamente lo definì anche il critico Sergio Trasatti), più adatto, forse, a un film porno scandinavo girato in super8, che ad un film da comprendersi nella filmografia del regista più grande di sempre
Sarebbe bastato, probabilmente, tradurre anche troppo banalmente il bel titolo in svedese Sommaren med Monica nel più semplice ma più eloquente (in italiano): Un'estate con Monica.
mercoledì 9 maggio 2012
Appunti sparsi dopo la visione del film IL SILENZIO.
Il silenzio originariamente si chiamava Timoka. Avvenne per pura
combinazione. Vidi la parola su un libro estone, senza sapere cosa
significasse. pensavo che fosse un bel nome per una città straniera. La parola significa: appartenente al boia”.
(Ingmar Bergman, dal suo libro-diario Immagini)
SINOSSI
In uno scompartimento ferroviario viaggiano, di ritorno in patria, dopo un viaggio di villeggiatura all'estero, due sorelle: Ester ed Anna, e il figlio di questa (ovviamente nipote della prima).
Il caldo è soffocante e procura un malore ad Anna, già gravemente malata.
Si rende urgente la discesa dal treno alla prima stazione e una sosta in un albergo della città di Timoka, dove si parla una lingua incomprensibile, anche per Anna che è una traduttrice.
Lasciata Ester ed il figlio in albergo, Anna si reca in un locale dove in un angolo vede due persone che fanno sesso pubblicamente e in modo disibinito.
Ne è eccitata e si offre al barista.
Quando il figlio di Anna, Johan rivela ad Ester che ha visto la madre baciarsi col cameriere, Ester ha un crollo.
Anna decide di proseguire il viaggio, abbandonando la sorella alla malattia e, forse, alla morte.
Nelle mani di Johan appare una lettera della zia nella quale c'è scritto: “Per Johan”.
E il bambino vi legge la parola sconosciuta: “Hadjek”.
Che vuol dire anima, parola ricorrente nella filmografia di Bergman.
Terzo film della cd. “Trilogia religiosa” (o “di Dio”, o “del silenzio di Dio”).
Dopo “Come in uno specchio” e “Luci d'inverno”.
Lo stesso Ingmar Bergman, che era solito suggerire l'analisi singolare dei suoi film, sembrò invece, accomunare questi tre nella classificazione che segue.
"Questi film trattano di una riduzione:
Quella che io personalmente prediligo è la chiave autobiografica.
Bergman, come accade spesso co le sue opere si appresta ad una vera seduta di auto-psico-analisi.
Le due protagoniste del film Anna ed Ester (interpretate rispettivamente da Gunnel Lindblom ed Ingrid Thulin) incarnano due diversi tipi di donna; due caratteri contrapposti che potrebbero essere contenuti in un'unica figura femminile.
Anna è la donna sensuale, corporale, fisica.
Ester è la donna lucida mentalmente ed intellettualmente, che domina i suoi istinti, ma è malata, sofferente, cagionevole.
I caratteri contrapposti delle due donne, sembrano confluire nella personalità del regista.
A loro volta incarnano il femminino del maestro: lucido ma sofferente; psicologicamente vivo ma fisicamente provato; intollerante dell'autorità ma eticamente saldo.
E, come al solito, trattandosi di un'opera di Bergman, il film fu accolto all'epoca della prima uscita da pareri alternanti e critiche contrastanti.
Chi gridò fin da subito al capolavoro, apprezzando ed elogiando lo stile potente, rigido, austero, rigoroso del racconto.
Chi gridò allo scandalo, per via di alcune scene molto audaci per gli standard dell'epoca.
Ed in effetti il film incontrò seri problemi sulla stada dell'ottenimento dei visti della commissione censura.
Chi lo accolse con delusione.
Perchè si aspettava che Bergman avesse fornito un passo avanti nella ricerca di Dio ma, invece, dovette ricredersi.
Avevo solo fornito un passo avanti nella incomunicabilità umana.
Chi lo stroncò additandone degli “eccessi espressivi” e stigmatizzandone gli “urli espressionisti”.
Come li definì, aperttamente, Mario Verdone.
In realtà Bergman sembra affermare, attraverso i dialoghi del film che chi si allontana da Dio, chi abbandona la fede, chi perde i suoi valori spirituali si abbandona al vizio, al peccato e all'egoismo.
Ma non si può certo affermare che faccia, né tantomeno che voglia farlo lungo, un discorso su Dio.
In effetti, Dio è citato, direttamente o indirettamente, solo tre volte.
Timoka è la metafora del Mondo.
Il suo mistero e la sua incomprensibilità.
E' la proiezione fisica di un posto popolato da una umanità avvilita, che non può o non vole comunicare, ed è avviato all'isolamento e alla guerra, come unica soluzione delle controversie.
Di qui i nemmeno tanto allusi riferimenti agli strumenti bellici.Di qui anche l'uso di una lingua incomprensibile.
Che prelude alla negazione del rapporto dialogico.
E, che, paradossalmente, non può essere capita nemmeno dalla donna, Anna, che professionalmente fa l'interprete.
E così ci troviamo davanti al solito, ricorrente paradosso di Bergman della professionalità irrisa e derisa.
Altro esempio, dopo quello, ben più esplicirto, riscontrato ne “Il volto”.Dove il dottor Vergerus (interpretato da Erland Josephson) viene irriso e deriso dal Mago Emanuel Vogler (interpretato da max von Sidow).
L'dea di una città misteriosa e sconosciuta, dove si parla una lingua incomprensibile deriva a Bergman da una raccolta di racconti dello scrittore Sigfried Siwertz, letti da bambino.
Si chiamava “Il circolo” del 1097; mentre il racconto ispiratore si titolava “La tenebrosa dea della vittoria”.
Ma anche Stoccolma, vista da Bergman con occhi da bambino contiene molti spunti curiosi sui quali si fonda l'immagine e la costruzione della città di Timoka.
Lo stesso Maestro racconta nel suo libro-diario Immagini quando da bambino passeggiava nel quartiere di Birger-Jarl, dove si aprivano sulla strada tanti curiosi negozietti nelle cui vetrine si divertiva a cogliere espliciti o nascosti riferimenti erotici: protesi; busti; pompette uterine e stampati vagamente pornografici.
“Nel silenzio io e Sven (Nyquist, direttore della fotografia, ndr) avevamo deciso di essere spudoratamente impudichi. Là c'era una lussuria cinematografica che ricordo con gioia. Era semplicemente divertente, in modo pazzesco, fare Il silenzio. Inoltre le attrici erano dotate, disciplinate e quasi sempre di buon umore. Che il silenzio, in certo qual senso, sia diventato la loro disgrazia, questa è un'altra storia. Il film fece sì che i loro nomi divenissero internazionalmente noti. E l'estero, come al solito, si degnò di fraintendere la peculiarità del loro talento".
(I.Bergman dal suo libro-diario Immagini)
Curiosità
1) Lo stile dell'immagine in Il silenzio, in Come in uno specchio e in Luci d'inverno è austero, per non dire casto.
I movimenti di macchina pochi, corti, essenziali.
Tipici di un certo stile di cinema da camera bergmaniano.
Un agente di distribuzione americano un giorno domandò al Maestro, con voce disperata:
"Ingmar, why don't you move your camera anymore?”
2) Un commento autentico del regista sul suo film a distanza di qualche tempo:
"Quando oggi rivedo Il silenzio, devo ammettere che in qualche parte risente di una certa letterarietà ... Per il resto non ho alcuna recriminazione da fare” (I. Bergman).
(La recensione letta è contenuta con le altre di 10 film di Bergman nel libro di salvatore M.Ruggiero
"IL GENIO DI UPPSALA. Il grande cinema di Ernst Ingmar Bergman spiegato a chi lo ignora",
edito da Lulu.com e distribuito anche da Amazon)
http://www.amazon.com/s/ref=nb_sb_noss/185-7194420-9653643?url=search-alias%3Dstripbooks&field-keywords=il+grande+cinema+di+Ernst+Ingmar+Bergman+
(Ingmar Bergman, dal suo libro-diario Immagini)
SINOSSI
In uno scompartimento ferroviario viaggiano, di ritorno in patria, dopo un viaggio di villeggiatura all'estero, due sorelle: Ester ed Anna, e il figlio di questa (ovviamente nipote della prima).
Il caldo è soffocante e procura un malore ad Anna, già gravemente malata.
Si rende urgente la discesa dal treno alla prima stazione e una sosta in un albergo della città di Timoka, dove si parla una lingua incomprensibile, anche per Anna che è una traduttrice.
Lasciata Ester ed il figlio in albergo, Anna si reca in un locale dove in un angolo vede due persone che fanno sesso pubblicamente e in modo disibinito.
Ne è eccitata e si offre al barista.
Quando il figlio di Anna, Johan rivela ad Ester che ha visto la madre baciarsi col cameriere, Ester ha un crollo.
Anna decide di proseguire il viaggio, abbandonando la sorella alla malattia e, forse, alla morte.
Nelle mani di Johan appare una lettera della zia nella quale c'è scritto: “Per Johan”.
E il bambino vi legge la parola sconosciuta: “Hadjek”.
Che vuol dire anima, parola ricorrente nella filmografia di Bergman.
Terzo film della cd. “Trilogia religiosa” (o “di Dio”, o “del silenzio di Dio”).
Dopo “Come in uno specchio” e “Luci d'inverno”.
Lo stesso Ingmar Bergman, che era solito suggerire l'analisi singolare dei suoi film, sembrò invece, accomunare questi tre nella classificazione che segue.
"Questi film trattano di una riduzione:
- Come in uno specchio: (rappresenta, ndr) una certezza conquistata;
- Luci d'inverno: (rapppresenta, ndr) una certezza messa a nudo;
- Il silenzio (che doveva chiamarsi “il silenzio di Dio”, ma il titolo fu considerato dallo stesso autore: ...“impossibile per un film”): (rappresenta, ndr) la copia in negativo. Perciò (i tre film, ndr) formano una trilogia”.Molteplici, come sempre quando ci si appresta ad analizzare un'opera del Maestro, gli spunti di riflessione offerti dal film.
Quella che io personalmente prediligo è la chiave autobiografica.
Bergman, come accade spesso co le sue opere si appresta ad una vera seduta di auto-psico-analisi.
Le due protagoniste del film Anna ed Ester (interpretate rispettivamente da Gunnel Lindblom ed Ingrid Thulin) incarnano due diversi tipi di donna; due caratteri contrapposti che potrebbero essere contenuti in un'unica figura femminile.
Anna è la donna sensuale, corporale, fisica.
Ester è la donna lucida mentalmente ed intellettualmente, che domina i suoi istinti, ma è malata, sofferente, cagionevole.
I caratteri contrapposti delle due donne, sembrano confluire nella personalità del regista.
A loro volta incarnano il femminino del maestro: lucido ma sofferente; psicologicamente vivo ma fisicamente provato; intollerante dell'autorità ma eticamente saldo.
E, come al solito, trattandosi di un'opera di Bergman, il film fu accolto all'epoca della prima uscita da pareri alternanti e critiche contrastanti.
Chi gridò fin da subito al capolavoro, apprezzando ed elogiando lo stile potente, rigido, austero, rigoroso del racconto.
Chi gridò allo scandalo, per via di alcune scene molto audaci per gli standard dell'epoca.
Ed in effetti il film incontrò seri problemi sulla stada dell'ottenimento dei visti della commissione censura.
Chi lo accolse con delusione.
Perchè si aspettava che Bergman avesse fornito un passo avanti nella ricerca di Dio ma, invece, dovette ricredersi.
Avevo solo fornito un passo avanti nella incomunicabilità umana.
Chi lo stroncò additandone degli “eccessi espressivi” e stigmatizzandone gli “urli espressionisti”.
Come li definì, aperttamente, Mario Verdone.
In realtà Bergman sembra affermare, attraverso i dialoghi del film che chi si allontana da Dio, chi abbandona la fede, chi perde i suoi valori spirituali si abbandona al vizio, al peccato e all'egoismo.
Ma non si può certo affermare che faccia, né tantomeno che voglia farlo lungo, un discorso su Dio.
In effetti, Dio è citato, direttamente o indirettamente, solo tre volte.
- Quando Ester ricorda con un monologo la morte del padre. “Ora è l'eternità” le disse l'uomo guardandola negli occhi.
- Nella preghiera di Ester: “Mio Dio fate che arrivi a casa prima di morire”.
- Con la parola Hadjek (anima) che il bambino Johan legge sull'appunto datogli dalla zia Ester, prima che lui e la madre ripartano.
Timoka è la metafora del Mondo.
Il suo mistero e la sua incomprensibilità.
E' la proiezione fisica di un posto popolato da una umanità avvilita, che non può o non vole comunicare, ed è avviato all'isolamento e alla guerra, come unica soluzione delle controversie.
Di qui i nemmeno tanto allusi riferimenti agli strumenti bellici.Di qui anche l'uso di una lingua incomprensibile.
Che prelude alla negazione del rapporto dialogico.
E, che, paradossalmente, non può essere capita nemmeno dalla donna, Anna, che professionalmente fa l'interprete.
E così ci troviamo davanti al solito, ricorrente paradosso di Bergman della professionalità irrisa e derisa.
Altro esempio, dopo quello, ben più esplicirto, riscontrato ne “Il volto”.Dove il dottor Vergerus (interpretato da Erland Josephson) viene irriso e deriso dal Mago Emanuel Vogler (interpretato da max von Sidow).
L'dea di una città misteriosa e sconosciuta, dove si parla una lingua incomprensibile deriva a Bergman da una raccolta di racconti dello scrittore Sigfried Siwertz, letti da bambino.
Si chiamava “Il circolo” del 1097; mentre il racconto ispiratore si titolava “La tenebrosa dea della vittoria”.
Ma anche Stoccolma, vista da Bergman con occhi da bambino contiene molti spunti curiosi sui quali si fonda l'immagine e la costruzione della città di Timoka.
Lo stesso Maestro racconta nel suo libro-diario Immagini quando da bambino passeggiava nel quartiere di Birger-Jarl, dove si aprivano sulla strada tanti curiosi negozietti nelle cui vetrine si divertiva a cogliere espliciti o nascosti riferimenti erotici: protesi; busti; pompette uterine e stampati vagamente pornografici.
“Nel silenzio io e Sven (Nyquist, direttore della fotografia, ndr) avevamo deciso di essere spudoratamente impudichi. Là c'era una lussuria cinematografica che ricordo con gioia. Era semplicemente divertente, in modo pazzesco, fare Il silenzio. Inoltre le attrici erano dotate, disciplinate e quasi sempre di buon umore. Che il silenzio, in certo qual senso, sia diventato la loro disgrazia, questa è un'altra storia. Il film fece sì che i loro nomi divenissero internazionalmente noti. E l'estero, come al solito, si degnò di fraintendere la peculiarità del loro talento".
(I.Bergman dal suo libro-diario Immagini)
Curiosità
1) Lo stile dell'immagine in Il silenzio, in Come in uno specchio e in Luci d'inverno è austero, per non dire casto.
I movimenti di macchina pochi, corti, essenziali.
Tipici di un certo stile di cinema da camera bergmaniano.
Un agente di distribuzione americano un giorno domandò al Maestro, con voce disperata:
"Ingmar, why don't you move your camera anymore?”
2) Un commento autentico del regista sul suo film a distanza di qualche tempo:
"Quando oggi rivedo Il silenzio, devo ammettere che in qualche parte risente di una certa letterarietà ... Per il resto non ho alcuna recriminazione da fare” (I. Bergman).
(La recensione letta è contenuta con le altre di 10 film di Bergman nel libro di salvatore M.Ruggiero
"IL GENIO DI UPPSALA. Il grande cinema di Ernst Ingmar Bergman spiegato a chi lo ignora",
edito da Lulu.com e distribuito anche da Amazon)
http://www.amazon.com/s/ref=nb_sb_noss/185-7194420-9653643?url=search-alias%3Dstripbooks&field-keywords=il+grande+cinema+di+Ernst+Ingmar+Bergman+
martedì 8 maggio 2012
Appunti sparsi dopo la visione del film LA VERGOGNA .
https://www.facebook.com/pages/IL-GENIO-DI-UPPSALA-Saggio-di-Salvatore-MRuggiero/255311737843888
La guerra vista da Ingmar Bergman.
“Quando rivedo “La vergogna”, trovo che è spezzato in due parti. La prima metà, dedicata alla guerra, è brutta. L'altra, sugli effetti della guerra, è bella. La prima metà è assai peggiore di quanto immaginassi, ma l'altra è migliore rispetto a come la ricordavo.”
E, in effetti ...”la parte migliore del film inizia quando la guerra finisce ed iniziano i dolori.”
(I.Bergman, dal suo libro-diario: “Immagini”)
SINOSSI
Eva e Jan Rosenberg (interpretati da una sensazionale Liv Ullmann e da un Max von Sidow in stato di grazia), sono una coppia di artisti, musicisti, per l'esattezza.
Suonano entrambi il violino.
Non hanno figli.
Ma sognano di averne in futuro (specie lei).
Anzi, progettanno di avere un figlio, senza sapere, naturalmente, che da lì a poco la guerra arriverà anche sul loro eremo.
Si sono da tempo ritirati su un'isola deserta, dove sopravvivono coltivando verdure e ortaggi.
Senza lussi né confort ma, almeno, in piena tranquillità.
Nel mondo infuria la guerra.
Eva e Jan si troveranno presto alle prese, prima con il manifestarsi del conflitto sotto i loro occhi - morte, distruzione, assenza di senso - poi con le sue spiacevoli conseguenze.
La coppia sarà costretta ad attraversare esperienze terribili e umilianti ad opera, ora dell'uno ora dell'altro esercito.
Infatti poco dopo la loro vita verrà sconvolta dagli eventi bellici.
Il corpo di un paracadutista – già morto – atterra improvvisamente sull'isola, dove arriveranno altri militari che, sospettando i due di essere gli uccisori del loro sodale, li arrestano con l'accusa di collaborazionismo.
Il colonnello Jacobi, vecchio spasimante di Eva, aiuta la coppia in carcere e contemporaneamente insidia la donna, che alla fine cede al serrato corteggiamento del soldato.
Le affida perfino una somma di denaro in custodia.
Jan scopre casualmente i soldi che Jacobi (interpretato da Gunnar Bjornstrand) aveva affidato ad Eva; li sottrae; uccide a sangue freddo il rivale in amore e anche un altro soldato, capitato casualmente sull'isola.
Non ritenendosi più al sicuro, i due decidono di fuggire per mare.
Con i soldi sottratti al colonnello ucciso comprano un passaggio su un barcone in partenza, non si sa per dove.In mare aperto, il natante va alla deriva, in un mare pieno di cadaveri galleggianti.
Nella scena finale i cadeveri scompaiono ed Eva ricorda di aver sognato di avere una figlia.
RECENSIONE
“La vergogna” (Skammen) non è un film di guerra (ovviamente), ma un film sulla guerra; anzi, sugli effetti della guerra sull'uomo e sui rapporti dell'uomo coi suoi simili.
Ed infatti, all'inizio, doveva chiamarsi, semplicemente, “La guerra”.
Ed è anche la risposta indiretta del Maestro al dibattito socio-politico sulla guerra (anche quella all'epoca più attuale: la guerra del Vietnam).
Ed è anche la scelta ufficiale di campo del regista: egli condanna definitivamente la guerra, sposa (ovviamente e definitivamente) un atteggiamento, completamente ed indiscutibilmente, pacifista.
Messo tra l'altro in discussione da un'accusa inaudita, alquanto generica e frettolosa, proveniente da una parte della stampa, di qualunquismo.
Il regista se ne sarebbe reso reo per alcune dichiarazioni espresse proprio nei confronti della guerra del Vietnam.
A tali critiche il Maestro rispose, semplicemente ma fermamente, dicendo di non essere interessato a sapere di chi fosse la responsabilità della guerra in Vietnam, nè di tutti gli altri innumerevoli focolai bellici sparsi per il mondo.
In effetti far uscire un film sulla guerra in pieno 1968 era impresa che poteva passare per la mente, e riuscire, solo all'individualista, solipsista Bergman.
Nonostante le polemiche il suo film e il suo messaggio sono molto più eloquenti e chiari oggi di quanto non debbano essere apparsi alla fine degli anni '60.
In più egli tenne sempre a precisare che si dichiarava, non solo contro la guerra, ma anche contro ogni forma di violenza e di sopraffazione dell'uomo sull'uomo.
E, in effetti, il caso de “La vergogna” non costituisce nemmeno la prima volta che Bergman prende, nei suoi film, posizione nei confronti della guerra.
Il tema della guerra, che era già stato solo accennato dal regista, in altri film precedenti, quì diventa centrale: rappresentato come la violenza contagiosa della Storia, démone senza volto né nome, che scatena la perfidia e la violenza latenti in ogni uomo.
A guardare bene, infatti, la polemica antibellica era già presente in molte sue opere precedenti:
- ne “Il settimo sigillo”, fa sbeffeggiare la guerra (nel caso specifico le Crociate) da Jons il sagace e facondo scudiero; ed anche il Cavaliere Antonius Block mostra di non esserne tanto entusiata;
- in “Persona” (benchè solamente nel Prologo) mostra le immagini dei bonzi che si danno fuoco per protesta contro l'invasione militare del loro paese;
- in “Luci d'inverno” la sua idea anti-bellica era presente come catastrofe annunciata nell'ossessione del contadino, prima impazzito, alfine suicida, per il rischio, giudicato incombente, della bomba atomica cinese;
- ne “Il silenzio” mostrava, quasi come monito di un mondo inquieto e nervoso, carovane di carri armati che percorrono la misteriosa e incomprensibile città di Timoka.
“La vergogna” è anche un film sull'atteggiamento dell'arte, anzi degli artisti, nei confronti della guerra.
L'arte, in questo caso la musica, viene vista come strumento per innalzarsi e per raggiungere il livello più alto, quello delle vette eccelse concesse solo al creatore.
Ma “La vergogna” è anche un film (indirettamente) sulla religione e su Dio (sebbene non si parli mai apertamente di Dio; ma si parli apertamente dell'uomo e delle sue paure e dei suoi problemi e dei suoi sogni).
Anzi, se ci si passa il paradosso, si può dire che è un film del silenzio dell'uomo sulla religione e su Dio, come risposta al silenzio della religione e di Dio sull'uomo.
CONCLUSIONE
“Questo film - dice lo stesso Bergman - tratta di persone che non hanno nessuna fede, nessuna convinzione politica e che non possono proporre niente. Sono degli ingenui. Non cercano di capire qualcosa né di prendere posizione."Semplice in modo quasi disarmante ma magistrale e perfetta ricostruzione di un guerra "normale", che alla fine fa almeno impostare ai sopravvissuti un piccolo passo verso il loro futuro e il futuro del mondo. Il film mostra tutta la "inevitabilità" di un sogno comune.E, ancora una volta, come aveva già fatto in altri film precedenti, Bergman ricorre all'escamotage del sogno, per descrivere lo stato d'animo della protagonista e mandare in circolo un grande messaggio di vita e di speranza:"Ho fatto un sogno. Percorrevo una bellissima strada, da un lato c'erano delle case tutte bianche con arcate, colonne, portici, mentre dall'altro lato c'era un vastissimo parco e sotto gli alberi, lungo tutta la strada, scorreva dell'acqua verde cupo. Sono arrivata a un alto muro: era completamente ricoperto di rose. Poi all'improvviso un aeroplano ha incendiato le rose. Io non avevo alcuna paura. Era tutto così splendido. Stavo lì a guardare nell'acqua e vi vedevo quelle rose bruciare. Io avevo una bambina in braccio, era nostra figlia. Si stringeva contro di me e sentivo che la sua bocca mi sfiorava la guancia e per tutto il tempo sapevo che dovevo ricordare qualcosa che qualcuno aveva detto e che io avevo dimenticato."
Liv Ullmann è superba nell'impegnativo ruolo centrale - che richiese un completo coinvolgimento emotivo, sia col marito (Max von Sydow) che col suo amante (Gunnar Björnstrand).
Max von Sidow, è credibile e addirittura detestabile, sia nel ruolo di assassino di uomini che di potenziale ...assassino di polli. E anche quando sviene, quasi pavidamente.
Il film fornisce anche un grande apologo sulla pericolosità delle armi e sulla loro capacità di trasformare in killer a sangue freddo anche una persona che potenzialmente non sarebbe capace di uccidere con le sue stesse mani nemmeno un mite ed indifeso animale da cortile.
Da antologia la scena nella quale von Sidow non riuscendo ad ammazzare una gallina tenta addirittura di sparare al volatile pennuto.
Uno dei più grandi film di Bergman.
Ma anche uno dei meno conosciuti e meno reputati.Infine, sul significato recondito del film, l'interpretazione autentica, stringata, asciutta ma eloquente, fornita dallo stesso Bergman, qualche anno dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche.
Contenente, fra l'altro, anche un chiaro riferimento “politico” alla Primavera di Praga.
"Il film non è sulla enorme brutalità della guerra, ma solo sulla sua meschinità. E 'esattamente come quello che è successo per i Cechi. Hanno difeso i loro diritti, e ora, lentamente, essi vengono sottoposti a una tattica di abbrutimento che li logora. "La vergogna" non riguarda le bombe. Si tratta di una progressiva infiltrazione di paura ... Ma "La vergogna" non è abbastanza preciso. La mia idea originale era quella di mostrare solo un giorno prima cha la guerra scoppiasse. Ma poi ho scritto altre cose e tutto è andato storto, non so perché. Non ho visto di recente "La vergogna", ed ho un po di paura a farlo. Quando si fa un quadro del genere, devi essere, necessariamente, molto duro con te stesso. E' una questione morale."
http://www.lulu.com/spotlight/salvatoredotruggiero57atgmaildotcom
La guerra vista da Ingmar Bergman.
“Quando rivedo “La vergogna”, trovo che è spezzato in due parti. La prima metà, dedicata alla guerra, è brutta. L'altra, sugli effetti della guerra, è bella. La prima metà è assai peggiore di quanto immaginassi, ma l'altra è migliore rispetto a come la ricordavo.”
E, in effetti ...”la parte migliore del film inizia quando la guerra finisce ed iniziano i dolori.”
(I.Bergman, dal suo libro-diario: “Immagini”)
SINOSSI
Eva e Jan Rosenberg (interpretati da una sensazionale Liv Ullmann e da un Max von Sidow in stato di grazia), sono una coppia di artisti, musicisti, per l'esattezza.
Suonano entrambi il violino.
Non hanno figli.
Ma sognano di averne in futuro (specie lei).
Anzi, progettanno di avere un figlio, senza sapere, naturalmente, che da lì a poco la guerra arriverà anche sul loro eremo.
Si sono da tempo ritirati su un'isola deserta, dove sopravvivono coltivando verdure e ortaggi.
Senza lussi né confort ma, almeno, in piena tranquillità.
Nel mondo infuria la guerra.
Eva e Jan si troveranno presto alle prese, prima con il manifestarsi del conflitto sotto i loro occhi - morte, distruzione, assenza di senso - poi con le sue spiacevoli conseguenze.
La coppia sarà costretta ad attraversare esperienze terribili e umilianti ad opera, ora dell'uno ora dell'altro esercito.
Infatti poco dopo la loro vita verrà sconvolta dagli eventi bellici.
Il corpo di un paracadutista – già morto – atterra improvvisamente sull'isola, dove arriveranno altri militari che, sospettando i due di essere gli uccisori del loro sodale, li arrestano con l'accusa di collaborazionismo.
Il colonnello Jacobi, vecchio spasimante di Eva, aiuta la coppia in carcere e contemporaneamente insidia la donna, che alla fine cede al serrato corteggiamento del soldato.
Le affida perfino una somma di denaro in custodia.
Jan scopre casualmente i soldi che Jacobi (interpretato da Gunnar Bjornstrand) aveva affidato ad Eva; li sottrae; uccide a sangue freddo il rivale in amore e anche un altro soldato, capitato casualmente sull'isola.
Non ritenendosi più al sicuro, i due decidono di fuggire per mare.
Con i soldi sottratti al colonnello ucciso comprano un passaggio su un barcone in partenza, non si sa per dove.In mare aperto, il natante va alla deriva, in un mare pieno di cadaveri galleggianti.
Nella scena finale i cadeveri scompaiono ed Eva ricorda di aver sognato di avere una figlia.
RECENSIONE
“La vergogna” (Skammen) non è un film di guerra (ovviamente), ma un film sulla guerra; anzi, sugli effetti della guerra sull'uomo e sui rapporti dell'uomo coi suoi simili.
Ed infatti, all'inizio, doveva chiamarsi, semplicemente, “La guerra”.
Ed è anche la risposta indiretta del Maestro al dibattito socio-politico sulla guerra (anche quella all'epoca più attuale: la guerra del Vietnam).
Ed è anche la scelta ufficiale di campo del regista: egli condanna definitivamente la guerra, sposa (ovviamente e definitivamente) un atteggiamento, completamente ed indiscutibilmente, pacifista.
Messo tra l'altro in discussione da un'accusa inaudita, alquanto generica e frettolosa, proveniente da una parte della stampa, di qualunquismo.
Il regista se ne sarebbe reso reo per alcune dichiarazioni espresse proprio nei confronti della guerra del Vietnam.
A tali critiche il Maestro rispose, semplicemente ma fermamente, dicendo di non essere interessato a sapere di chi fosse la responsabilità della guerra in Vietnam, nè di tutti gli altri innumerevoli focolai bellici sparsi per il mondo.
In effetti far uscire un film sulla guerra in pieno 1968 era impresa che poteva passare per la mente, e riuscire, solo all'individualista, solipsista Bergman.
Nonostante le polemiche il suo film e il suo messaggio sono molto più eloquenti e chiari oggi di quanto non debbano essere apparsi alla fine degli anni '60.
In più egli tenne sempre a precisare che si dichiarava, non solo contro la guerra, ma anche contro ogni forma di violenza e di sopraffazione dell'uomo sull'uomo.
E, in effetti, il caso de “La vergogna” non costituisce nemmeno la prima volta che Bergman prende, nei suoi film, posizione nei confronti della guerra.
Il tema della guerra, che era già stato solo accennato dal regista, in altri film precedenti, quì diventa centrale: rappresentato come la violenza contagiosa della Storia, démone senza volto né nome, che scatena la perfidia e la violenza latenti in ogni uomo.
A guardare bene, infatti, la polemica antibellica era già presente in molte sue opere precedenti:
- ne “Il settimo sigillo”, fa sbeffeggiare la guerra (nel caso specifico le Crociate) da Jons il sagace e facondo scudiero; ed anche il Cavaliere Antonius Block mostra di non esserne tanto entusiata;
- in “Persona” (benchè solamente nel Prologo) mostra le immagini dei bonzi che si danno fuoco per protesta contro l'invasione militare del loro paese;
- in “Luci d'inverno” la sua idea anti-bellica era presente come catastrofe annunciata nell'ossessione del contadino, prima impazzito, alfine suicida, per il rischio, giudicato incombente, della bomba atomica cinese;
- ne “Il silenzio” mostrava, quasi come monito di un mondo inquieto e nervoso, carovane di carri armati che percorrono la misteriosa e incomprensibile città di Timoka.
“La vergogna” è anche un film sull'atteggiamento dell'arte, anzi degli artisti, nei confronti della guerra.
L'arte, in questo caso la musica, viene vista come strumento per innalzarsi e per raggiungere il livello più alto, quello delle vette eccelse concesse solo al creatore.
Ma “La vergogna” è anche un film (indirettamente) sulla religione e su Dio (sebbene non si parli mai apertamente di Dio; ma si parli apertamente dell'uomo e delle sue paure e dei suoi problemi e dei suoi sogni).
Anzi, se ci si passa il paradosso, si può dire che è un film del silenzio dell'uomo sulla religione e su Dio, come risposta al silenzio della religione e di Dio sull'uomo.
CONCLUSIONE
“Questo film - dice lo stesso Bergman - tratta di persone che non hanno nessuna fede, nessuna convinzione politica e che non possono proporre niente. Sono degli ingenui. Non cercano di capire qualcosa né di prendere posizione."Semplice in modo quasi disarmante ma magistrale e perfetta ricostruzione di un guerra "normale", che alla fine fa almeno impostare ai sopravvissuti un piccolo passo verso il loro futuro e il futuro del mondo. Il film mostra tutta la "inevitabilità" di un sogno comune.E, ancora una volta, come aveva già fatto in altri film precedenti, Bergman ricorre all'escamotage del sogno, per descrivere lo stato d'animo della protagonista e mandare in circolo un grande messaggio di vita e di speranza:"Ho fatto un sogno. Percorrevo una bellissima strada, da un lato c'erano delle case tutte bianche con arcate, colonne, portici, mentre dall'altro lato c'era un vastissimo parco e sotto gli alberi, lungo tutta la strada, scorreva dell'acqua verde cupo. Sono arrivata a un alto muro: era completamente ricoperto di rose. Poi all'improvviso un aeroplano ha incendiato le rose. Io non avevo alcuna paura. Era tutto così splendido. Stavo lì a guardare nell'acqua e vi vedevo quelle rose bruciare. Io avevo una bambina in braccio, era nostra figlia. Si stringeva contro di me e sentivo che la sua bocca mi sfiorava la guancia e per tutto il tempo sapevo che dovevo ricordare qualcosa che qualcuno aveva detto e che io avevo dimenticato."
Liv Ullmann è superba nell'impegnativo ruolo centrale - che richiese un completo coinvolgimento emotivo, sia col marito (Max von Sydow) che col suo amante (Gunnar Björnstrand).
Max von Sidow, è credibile e addirittura detestabile, sia nel ruolo di assassino di uomini che di potenziale ...assassino di polli. E anche quando sviene, quasi pavidamente.
Il film fornisce anche un grande apologo sulla pericolosità delle armi e sulla loro capacità di trasformare in killer a sangue freddo anche una persona che potenzialmente non sarebbe capace di uccidere con le sue stesse mani nemmeno un mite ed indifeso animale da cortile.
Da antologia la scena nella quale von Sidow non riuscendo ad ammazzare una gallina tenta addirittura di sparare al volatile pennuto.
Uno dei più grandi film di Bergman.
Ma anche uno dei meno conosciuti e meno reputati.Infine, sul significato recondito del film, l'interpretazione autentica, stringata, asciutta ma eloquente, fornita dallo stesso Bergman, qualche anno dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche.
Contenente, fra l'altro, anche un chiaro riferimento “politico” alla Primavera di Praga.
"Il film non è sulla enorme brutalità della guerra, ma solo sulla sua meschinità. E 'esattamente come quello che è successo per i Cechi. Hanno difeso i loro diritti, e ora, lentamente, essi vengono sottoposti a una tattica di abbrutimento che li logora. "La vergogna" non riguarda le bombe. Si tratta di una progressiva infiltrazione di paura ... Ma "La vergogna" non è abbastanza preciso. La mia idea originale era quella di mostrare solo un giorno prima cha la guerra scoppiasse. Ma poi ho scritto altre cose e tutto è andato storto, non so perché. Non ho visto di recente "La vergogna", ed ho un po di paura a farlo. Quando si fa un quadro del genere, devi essere, necessariamente, molto duro con te stesso. E' una questione morale."
http://www.lulu.com/spotlight/salvatoredotruggiero57atgmaildotcom
lunedì 7 maggio 2012
Appunti sparsi dopo la visione del film: Come in uno specchio.
Il titolo fu suggerito a Bergman dalla lettura degli Atti degli
Apostoli e, più precisamente, della lettura della Prima Lettera ai
Corinzi di San Paolo (XIII, 12): “Ora vediamo come in uno
specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora
conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come
anch'io sono conosciuto.”
SINOSSI
Un tranquillo week-end di umana paura, potremmo definirlo.
Poco più di ventiquattro ore di una breve ...vacanza da incubo dei quattro membri di una benestante famiglia svedese, su un'isoletta ventosa del Mar Baltico.
Potrebbe essere Faro.
PERSONAGGI e INTERPRETI:
la schizofrenica Karin (una stratosferica, Harriet Andersson);
il padre (affermato scrittore, appena rientrato dalla Svizzera) di Karin, David (Gunnar Bjornstrand);
il marito medico di Karin, Martin (Max von Sidow);
il fratello minore studente Fredrik, detto Minus (Lars Passgard).
Peraltro tutti ottimi.
Ritmato dalla Suite n. 2 in re minore per violoncello (E.B. Bengtsson) di J.S. Bach, è un quartetto di figure che inaugura “il cinema da camera” di I. Bergman.
In pratica ricollegando questo singolare esempio, insieme gli altri due successivi, del cinema di Bergman al movimento della cd. Kammerspielfilm, sorto nel 1921 come reazione al primo espressionismo per iniziativa del scenarista Karl Mayer e del regista Lupu-Pick.
Ed apre anche la cd. “trilogia di Dio” o dell'”assenza di Dio” o “religiosa”.
Proseguita, appunto, con “Luci d'inverno” e “Il silenzio”.
Per stessa personale ammissione di Bergman che, aveva sempre invitato a vedere e a giudicare i suoi film singolarmante, si tratta di fatto di una trilogia. Ed egli stesso, infatti, accomunò i tre i film nella seguente classificazione:
“Questi tre film trattano di una riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata; Luci d'inverno: certezza messa a nudo; Il silenzio (silenzio di Dio) la copia in negativo. Perciò formano una trilogia.”
Salvo poi auto-smentirsi nel suo libro-diario Immagini:
“Queste cose le scrissi nel 1963. Oggi penso che l'idea della trilogia non abbia né capo né coda. Era una Schnaps-Idee come dicono i bavaresi.”
RECENSIONE
I perni del film, anzi, le pietre angolari sono sostanzialmente e formalmente due.
1) Da una parte c'è Karin, unico personaggio femminile (sappiamo come nei confronti dei suoi personaggi femminili Bergman appare sempre quanto meno comprensivo, se non addirittura indulgente), ma anche personaggio monolitico, enigmatico, difficile da comprendere appieno, profondo e fragile, armato solo del suo corpo e della sua lucida pazzia; alla spasmodica ricerca della guarigione e di Dio (che crede di vedere addirittura in un ragno nero che cerca di possederla);
alla ricerca di un vero rapporto col padre scrittore, freddo e austero, che la fa caso letterario, sfruttando la sua malattia e facendola oggetto dei suoi lavori;
alla ricerca di un rapporto solido e, finalmente, credibile col marito medico, pure dolce ed affettuoso;
alla ricerca di un vero rapporto tra sorella e fratello con Minus, che non sia solo famigliare e familiare, o solo sentimentale, ma sia addirittura fisico, quindi ai limiti dell'incestuoso.
“Harriet Andersson interpreta Karin con perfetta musicalità, entrando ed uscendo liberamente e continuamente dalle sue prescritte realtà. La sua interpreatzione ha toni puri ed è piena di genialità. Fu lei a rendere il prodotto sopoportabile...”
(I.Bergman dal suo libro-diario Immagini)
Dall'altra parte i tre personaggi maschili: come al solito poco trasparenti, poco chiari (o lo sono fin troppo?), poco leali, in una parola poco positivi.Ovviamente, ognuno visto attraverso i suoi problematici rapporti con Karin. Rispettivamente: moglie, figlia, sorella.
A testimonianza ulteriore di una presunta misantropia di Bergman, molte volte invocata da alcuni critici
I temi trattati da Bergman sono quelli classici della sua filmografia:
la ricerca di Dio;
la malattia mentale;
l'unità famigliare;
il fine dell'arte;
il (tentativo di) raggiungimento dell'infinito e della trascendenza;
il senso del dolore.
la (difficile) gestione dei rapporti interfamigliari e interpersonali.
Ci piace riportare, traendole direttamente dalla sceneggiatura, alcune eloquenti frasi pronunciate dai protagonisti nel corso del film.
1) Il racconto di un sogno della schizofrenica Karin:
“Mi trovo in un ambiente enorme. Tutto è illuminato e tranquillo. Diverse persone vanno avanti e indietro e quando mi rivolgono la parola le capisco. Tutto è splendido e io sono serena. Alcuni volti irradiano attorno una luce quasi abbagliante. Tutti aspettano lui che deve arrivare, ma senza nessuna ansia. E dicono che io devo essere presente quando tutto ciò avverrà... A volte provo un'ansia irrefrenabile, un desiderio violento del momento in cui la porta si aprirà e tutti si volgeranno verso di lui che si fa avanti... Credo che sia Dio, che sia Dio stesso che debba apparirci... Dio scende dalla montagna attraverso il bosco tenebroso mentre intorno le fiere guardano nel silenzio. Dev'essere la realtà. Io non sogno e quello che dico è vero. A volte mi trovo in questo mondo e a volte nell'altro senza che io possa impedirlo.”
2) Karin che si rivolge al fratello Minus:
“Siamo così indifesi a volte. Come bambini che si sono perduti in luoghi deserti. Le civette gridano e fissano con i loro occhi gialli. Senti un fruscio sommesso e un cauto mormorio attorno a te e un ansimare leggero di umidi musi e poi le zanne dei lupi.”
3) Un incubo della schizofrenica Karin:
“Ho avuto paura. La porta si è dischiusa, ma il Dio che è entrato era solo un ragno. Si è avvicinato a me e io l'ho visto in faccia: un viso ripugnante e gelido. Si è lanciato su di me, voleva possedermi ma io mi sono difesa. Vedevo continuamente i suoi occhi così freddi e calmi. Non è riuscito a penetrare in me, così ha strisciato sul mio petto e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio.”
4) Minus che, nel finale del film si rivolge felice e speranzoso alla sorella Karin:
“Papà ha parlato con me!”
I CRITICI SUL FILM
Molto interessante quello che, all'epoca, scrissero sul film due tra i maggiori critici cinematografici italiani.
Guglielmo Biraghi:
“Il grande regista svedese ha ormai nelle sue immagini un tale grado di concentrazione espressiva che non gli è più necessario, per descrivere fenomeni o sensazioni paranormali, ricorrere ogni tanto al surrealismo o all'epressionismo, come per esempio ne Il volto e Il posto delle fragole”
Gian Luigi Rondi:
“Pur essendo spesso vicino al trattato di Teologia e di filosofia rivela un tale senso vivo del cinema e una tale matura sapienza figurativa da lasciare lo spettatore abbacinato:anche se, spesso, intimidito. Con uno stile che qua e là può sembrare indulgente verso taluni risvolti letterari, con immagini nere e grigie alla Dreyer, riesce con pochi essenzilissimi accenni a creare un clima drammatico teso a volte fino al parossismo, sfiorando argomenti anche scabrosissimi (quali, ad esempio, l'incesto) con perfettissima purezza.”
CONCLUSIONI
“È un inventario prima della svendita.... la mia intenzione era di descrivere un caso di isterismo religioso” (Ingmar Bergman nel suo libro-diario Immagini
Uno dei film più angosciosi e sconvolgenti sulla follia.
Ancora una volta co-artefice del capolavoro bergmaniano Sven Nyquist e la sua meravigliosa fotografia in bianco&nero, ma a ...colori.
Oscar 1962 per il miglior film straniero.
(P.S. Questa recensione con altre 10 riguardanti i film di Inmgmar Bergman è contenuta nel saggio IL GENIO DI UPPSALA, a firma di Salvatore M.Ruggiero, in vendita sul sito Lulu.com e su Amazon.it.
http://www.lulu.com/spotlight/salvatoredotruggiero57atgmaildotcom
http://www.amazon.it/Grande-Cinema-Ingmar-Bergman-Spiegato/dp/1470921553/ref=sr_1_12?s=books&ie=UTF8&qid=1336384138&sr=1-12
SINOSSI
Un tranquillo week-end di umana paura, potremmo definirlo.
Poco più di ventiquattro ore di una breve ...vacanza da incubo dei quattro membri di una benestante famiglia svedese, su un'isoletta ventosa del Mar Baltico.
Potrebbe essere Faro.
PERSONAGGI e INTERPRETI:
la schizofrenica Karin (una stratosferica, Harriet Andersson);
il padre (affermato scrittore, appena rientrato dalla Svizzera) di Karin, David (Gunnar Bjornstrand);
il marito medico di Karin, Martin (Max von Sidow);
il fratello minore studente Fredrik, detto Minus (Lars Passgard).
Peraltro tutti ottimi.
Ritmato dalla Suite n. 2 in re minore per violoncello (E.B. Bengtsson) di J.S. Bach, è un quartetto di figure che inaugura “il cinema da camera” di I. Bergman.
In pratica ricollegando questo singolare esempio, insieme gli altri due successivi, del cinema di Bergman al movimento della cd. Kammerspielfilm, sorto nel 1921 come reazione al primo espressionismo per iniziativa del scenarista Karl Mayer e del regista Lupu-Pick.
Ed apre anche la cd. “trilogia di Dio” o dell'”assenza di Dio” o “religiosa”.
Proseguita, appunto, con “Luci d'inverno” e “Il silenzio”.
Per stessa personale ammissione di Bergman che, aveva sempre invitato a vedere e a giudicare i suoi film singolarmante, si tratta di fatto di una trilogia. Ed egli stesso, infatti, accomunò i tre i film nella seguente classificazione:
“Questi tre film trattano di una riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata; Luci d'inverno: certezza messa a nudo; Il silenzio (silenzio di Dio) la copia in negativo. Perciò formano una trilogia.”
Salvo poi auto-smentirsi nel suo libro-diario Immagini:
“Queste cose le scrissi nel 1963. Oggi penso che l'idea della trilogia non abbia né capo né coda. Era una Schnaps-Idee come dicono i bavaresi.”
RECENSIONE
I perni del film, anzi, le pietre angolari sono sostanzialmente e formalmente due.
1) Da una parte c'è Karin, unico personaggio femminile (sappiamo come nei confronti dei suoi personaggi femminili Bergman appare sempre quanto meno comprensivo, se non addirittura indulgente), ma anche personaggio monolitico, enigmatico, difficile da comprendere appieno, profondo e fragile, armato solo del suo corpo e della sua lucida pazzia; alla spasmodica ricerca della guarigione e di Dio (che crede di vedere addirittura in un ragno nero che cerca di possederla);
alla ricerca di un vero rapporto col padre scrittore, freddo e austero, che la fa caso letterario, sfruttando la sua malattia e facendola oggetto dei suoi lavori;
alla ricerca di un rapporto solido e, finalmente, credibile col marito medico, pure dolce ed affettuoso;
alla ricerca di un vero rapporto tra sorella e fratello con Minus, che non sia solo famigliare e familiare, o solo sentimentale, ma sia addirittura fisico, quindi ai limiti dell'incestuoso.
“Harriet Andersson interpreta Karin con perfetta musicalità, entrando ed uscendo liberamente e continuamente dalle sue prescritte realtà. La sua interpreatzione ha toni puri ed è piena di genialità. Fu lei a rendere il prodotto sopoportabile...”
(I.Bergman dal suo libro-diario Immagini)
Dall'altra parte i tre personaggi maschili: come al solito poco trasparenti, poco chiari (o lo sono fin troppo?), poco leali, in una parola poco positivi.Ovviamente, ognuno visto attraverso i suoi problematici rapporti con Karin. Rispettivamente: moglie, figlia, sorella.
A testimonianza ulteriore di una presunta misantropia di Bergman, molte volte invocata da alcuni critici
I temi trattati da Bergman sono quelli classici della sua filmografia:
la ricerca di Dio;
la malattia mentale;
l'unità famigliare;
il fine dell'arte;
il (tentativo di) raggiungimento dell'infinito e della trascendenza;
il senso del dolore.
la (difficile) gestione dei rapporti interfamigliari e interpersonali.
Ci piace riportare, traendole direttamente dalla sceneggiatura, alcune eloquenti frasi pronunciate dai protagonisti nel corso del film.
1) Il racconto di un sogno della schizofrenica Karin:
“Mi trovo in un ambiente enorme. Tutto è illuminato e tranquillo. Diverse persone vanno avanti e indietro e quando mi rivolgono la parola le capisco. Tutto è splendido e io sono serena. Alcuni volti irradiano attorno una luce quasi abbagliante. Tutti aspettano lui che deve arrivare, ma senza nessuna ansia. E dicono che io devo essere presente quando tutto ciò avverrà... A volte provo un'ansia irrefrenabile, un desiderio violento del momento in cui la porta si aprirà e tutti si volgeranno verso di lui che si fa avanti... Credo che sia Dio, che sia Dio stesso che debba apparirci... Dio scende dalla montagna attraverso il bosco tenebroso mentre intorno le fiere guardano nel silenzio. Dev'essere la realtà. Io non sogno e quello che dico è vero. A volte mi trovo in questo mondo e a volte nell'altro senza che io possa impedirlo.”
2) Karin che si rivolge al fratello Minus:
“Siamo così indifesi a volte. Come bambini che si sono perduti in luoghi deserti. Le civette gridano e fissano con i loro occhi gialli. Senti un fruscio sommesso e un cauto mormorio attorno a te e un ansimare leggero di umidi musi e poi le zanne dei lupi.”
3) Un incubo della schizofrenica Karin:
“Ho avuto paura. La porta si è dischiusa, ma il Dio che è entrato era solo un ragno. Si è avvicinato a me e io l'ho visto in faccia: un viso ripugnante e gelido. Si è lanciato su di me, voleva possedermi ma io mi sono difesa. Vedevo continuamente i suoi occhi così freddi e calmi. Non è riuscito a penetrare in me, così ha strisciato sul mio petto e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio.”
4) Minus che, nel finale del film si rivolge felice e speranzoso alla sorella Karin:
“Papà ha parlato con me!”
I CRITICI SUL FILM
Molto interessante quello che, all'epoca, scrissero sul film due tra i maggiori critici cinematografici italiani.
Guglielmo Biraghi:
“Il grande regista svedese ha ormai nelle sue immagini un tale grado di concentrazione espressiva che non gli è più necessario, per descrivere fenomeni o sensazioni paranormali, ricorrere ogni tanto al surrealismo o all'epressionismo, come per esempio ne Il volto e Il posto delle fragole”
Gian Luigi Rondi:
“Pur essendo spesso vicino al trattato di Teologia e di filosofia rivela un tale senso vivo del cinema e una tale matura sapienza figurativa da lasciare lo spettatore abbacinato:anche se, spesso, intimidito. Con uno stile che qua e là può sembrare indulgente verso taluni risvolti letterari, con immagini nere e grigie alla Dreyer, riesce con pochi essenzilissimi accenni a creare un clima drammatico teso a volte fino al parossismo, sfiorando argomenti anche scabrosissimi (quali, ad esempio, l'incesto) con perfettissima purezza.”
CONCLUSIONI
“È un inventario prima della svendita.... la mia intenzione era di descrivere un caso di isterismo religioso” (Ingmar Bergman nel suo libro-diario Immagini
Uno dei film più angosciosi e sconvolgenti sulla follia.
Ancora una volta co-artefice del capolavoro bergmaniano Sven Nyquist e la sua meravigliosa fotografia in bianco&nero, ma a ...colori.
Oscar 1962 per il miglior film straniero.
(P.S. Questa recensione con altre 10 riguardanti i film di Inmgmar Bergman è contenuta nel saggio IL GENIO DI UPPSALA, a firma di Salvatore M.Ruggiero, in vendita sul sito Lulu.com e su Amazon.it.
http://www.lulu.com/spotlight/salvatoredotruggiero57atgmaildotcom
http://www.amazon.it/Grande-Cinema-Ingmar-Bergman-Spiegato/dp/1470921553/ref=sr_1_12?s=books&ie=UTF8&qid=1336384138&sr=1-12
Iscriviti a:
Post (Atom)