Mio padre amava la caccia.
Gli piaceva il contatto diretto con la natura.
E il freddo in piena faccia di quelle giornate nebbiose, ventose e gelate d'inverno.
Lui si alzava presto, alle cinque di mattina.
Non gli pesava più di tanto.
Anzi gli piaceva.
In genere, al contrario di me, non gli piaceva poltrire nel letto.
La prima cosa che faceva, appena alzato, era accendere la cucina a legna che avevamo in sala da pranzo.
Ci metteva molto a scaldarsi ma quando era a pieno regime pareva un altoforno.
Lui la stipava di legna e l'accendeva, ma non gli serviva, perchè lui ci faceva solo il primo caffè della mattina.
L'accendeva per far trovare la casa calda a noi e alla mamma.
Che poi durante tutta la giornata la teneva accesa al minimo e ci cucinava.
Ricordo che oltre a tutti i tegami di sughi e sughetti, ci teneva sempre un pentolone d'acqua a scaldare.
Ci faceva tutte le faccende di casa.
Compreso lavarci i panni a mano.
In più ricordo che la stufa aveva, da un lato, un serbatoio rettangolare, profondo, pieno di altra acqua bollente.
Ci affogava dentro un mestolo d'alluminio anch'esso rettangolare con un lungo manico.
Ogni volta che le serviva acqua calda, mia madre la prendeva col mestolo.
E rifondeva immediatamente quella che prelevava.
Mi ricordo un particolare curioso legato alla vecchia cucina a legna: quando ero piccolo, con le mie sorelle più piccole di me, ci divertivamo a sputare sul ripiano infuocato e a vedere le palline di saliva che correvano, rimpalzando sul ferro, fino a qundo non trovavano una fessura nella quale scomparivano veloci.
Nel silenzio buio della notte che caratterizza l'ora del lupo, quando il caffè cominciava a sbuffare sui cerchi concentrici del piano ormai arroventati, mio padre, vestito di tutto punto, se ne serviva una grande tazza e se lo buttava in gola ancora fumante, subito dopo si accendeva l'immancabile sigaretta e via, di buon passo, verso le montagne.
Prima però aveva slegato Fido, lo splendido setter laverack bianco e nero, come i colori della sua Juventus, e insieme si avviavano a piedi in salita.
Che senso avrebbe avuto andare in macchina?
Mio padre era capace di girare per ore nei boschi più fitti; attraversare lentamente le radure più spoglie; scendere con attenzione lungo i pendii più scoscesi e sassosi dei nostri monti, senza sparare un solo colpo.
Se non c'erano prede lui non si scoraggiava.
Intanto si era fatta una bella, salutare passeggiata - diceva.
A sessant'anni, il molto calcio praticato da giovane e quelle sue lunghe passeggiate en plein air gli avevano permesso di conservare un fisico forte, robusto, atletico, come quello di un quaratenne.
Lui poi era capace di crearsi diversivi alla mancanza di prede da abbattere.
Si sarebbe fermato di sicuro a mangiucchiare qualche pera vergnina matura da uno degli ultimi alberelli che sapeva da bambino.
Poi avrebbe individuato e memorizzato un nuovo piccolo corniolo, anche quelli sempre più rari.
Prendeva come punto di riferimento una grossa quercia, una casella o una macéra e sarebbe tornato per tempo a raccoglierne i piccoli frutti rossi, quando fossero spuntati.
Li metteva, per aromatizzarla, nella bottiglia della grappa che, immancabilmente, ogni anno, dopo la vendemmia, gli regalava Papele, il collocatore, amico d'infanzia e appassionato di caccia, anche lui, e di distillati fatti in casa.
Poi avrebbe osservato estasiato per lunghi minuti a testa in su le evoluzioni in cielo di un falchetto reale, anche quello uno degli ultimi rimasti sulle nostre montagne.
Poi avrebbe chiacchierato per un po' del più e del meno col suo amico e coetaneo Bandareglio, uno degli ultimi pastore di capre.
Infine, perchè no?, avrebbe individuato e seguito nel fango le orme di qualche cinghiale selvatico.
Anche se diceva sempre che le battute di caccia al cinghiale non gli piacevano tanto.
Non lo divertivano.
E soprattutto considerava che, stare fermi in un posto ad aspettare che la bestia, nervosa e sfiancata, perchè spinta da una muta di cani, ti arrivi di fronte, nella radura, e piazzargli un colpo in piena testa, più che una battuta di caccia fosse una vera e proria esecuzione.
Le battute di caccia che gli piacevano di più e gli davano la piena soddisfazione erano quelle ai tordi e alle beccacce.
Per entrambe dovevi camminare molto, fin dietro il costone roccioso del Monte Maio.
Poi dovevi sapere il punto esatto dei passaggi degli stormi.
Poi dovevi saper sparare al volo. E non era facile.
Questo tipo di uccelli, entrambi rapidissimi nel volo e poco prevedibili nella direzione dei loro volteggi, non dovevano mai sembrargli vittime sacrificali.
Anche se, inermi contro una doppietta, era ugualmente una lotta impari col cacciatore.
Alla fine della lunga e defatigante giornata avrebbe ripreso soddisfatto la strada di casa, anche col carniere desolatamente vuoto.
Qualche volta sono andato anch'io a caccia con lui.
Sebbene la caccia non mi piacesse più di tanto, anzi, ammazzare gli uccelli mi faceva sentire proprio male e pieno di rimorsi.
Una sola volta era successo, e mi era bastato, che uccidessi, quasi per caso un uccello.
Ero dietro casa, da solo, puntai, mirari e sparai con un fucile a piombini.
Ad una distanza di una decina di metri, colpii in pieno ed ammazzai un piccolo uccello, forse una cinciallegra, seminascosta tra i rami di una piccola quercia.
Dopo che l'uccellino era caduto per terra stecchito dal mio colpo, recuperai il corpicino ancora caldo e gli feci il funerale.
Aveva un buco in pieno petto che gli usciva sul dorso.
Il proiettile lo aveva trapassato da parte a parte.
Non perse una sola goccia di sangue
Che orrore!
Mi maledissi.
Costrui una piccola bara, modellando una scatoletta di cartone e lo sotterrai, piangendo per il rimorso.
I sensi di colpa e la gratuità del mio gesto mi fecero sentire un verme per giorni e gioni.
Quella trascurabile morte aveva fatto emergere in me una vera e proria scissione interiore.
Alla fine dell'espiazione promisi a me stesso che non avrei più ucciso un animaletto, nemmeno una formica.
Prestai fede alla promessa solenna, che dura ancora oggi.
E, ancora oggi, rimprovero mio figlio se calpesta le formiche o cerca di riempire d'acqua le loro tane per vederle fuggire; o prende i coleotteri in cortile per imprigionarli nei barattoli o, peggio ancora, per schiacciarli tra le dita.
Anche se non sono mai stato un animalista, anzi, reputo sinceramente esagerate certe loro pretese, mi nutro di carne animale, ed ho sempre ritenuto giusto che gli animali vivano liberi ognuno nel loro habitat.
Forse anche per questo non ho mai capito il mio talento per il tiro al volo.
Il padreterno mi ha voluto regalare una cosa che non mi è mai servita, anzi che ho aborrita fin dal giorno della sua scoperta.
Anche perchè non ho mai praticato il tiro al piattello.
Ma, forse, era proprio quella la mia strada con le armi.
smr
Nessun commento:
Posta un commento