domenica 22 marzo 2015
il vero problema
Il problema vero non è equitalia, non sono le tasse e i balzelli ingiusti, non è la guardia di finanza, gli autovelox, i carabinieri le multe e le strade di merda; il problema vero non è il lavoro che non si trova,
nè la disoccupazione e la precarietà, nemmeno gli immigrati e l'ISIS; il problema non è la sanità pubblica che non funziona e la gente che mure senza ambulanza; il problema non è la mafia, la 'ndrangheta e la camorra.
Il problema VERO e UNICO sono i nostri governanti.
Corrotti, incapaci, incolti se non ignoranti (vedi ad es. Razzi), faccendieri, servi degli imprenditori, mafiosi e professionisti del voto di scambio, sottomessi alle banche e all'economia - a parte il fatto che non sono nemmeno capaci - essi non hanno nessuna autorità morale e culturale per fare leggi e per imporci di rispettarle.
Il problema VERO e UNICO sono i leccaculo e i sottopancia, i cittadini italiani conniventi con questa politica ladra; quelli che si sono venduti per un piatto di minestra; quelli che si sono venduti al sistema e che ci hanno guadagnato qualcosa.
Se rimuovessimo questi due problemi, anche tutti gli altri sarebbero risolti.
L'Italia si trasformerebbe subito in una nazione civile, anzi normale.
In Italia si vivrebbe meglio che in Norvegia o in Danimarca.
PERSISTENDO QUESTO STATO DI COSE, invece, noi cittadini SANI potremmo e dovremmo dichiararci tutti prigionieri politici e rifiutarci di pagare le tasse. Almeno fino a quando i politici non avranno rimesso le nostre esigenze e i nostri diritti al centro dei loro programmi.
Del resto lo diceva anche il Mahatma Ghandi: "a una legge ingiusta si può, anzi, si deve disubbidire!"
smr
venerdì 20 marzo 2015
sul fondo della conca
SUL FONDO DI UNA CONCA
Sul fondo di una conca di pietra scavata/
marcisce l'autunno di mille foglie ammassate.
Nell’acqua piovana raccolta dal vento/
ha trovato la pace il ricordo di un inverno mollo.
Il villico aspetta che la primavera gentile gli soffi la nuca/
come il delicato battito d’ali di una farfalla.
Fremono nella trepida attesa i dolci mandorli in fiore/
e le ragazze fresche che si sciolgono in languide risa/
vanno con la voglia di mare appiccicata alla pelle.
Chi aspetta che esplodano di giallo le pigre ginestre sul colle/
chi vuole vedere come il sole incendia tetti di coppi e pietre solagne/
alle otto di sera.
marcisce l'autunno di mille foglie ammassate.
Nell’acqua piovana raccolta dal vento/
ha trovato la pace il ricordo di un inverno mollo.
Il villico aspetta che la primavera gentile gli soffi la nuca/
come il delicato battito d’ali di una farfalla.
Fremono nella trepida attesa i dolci mandorli in fiore/
e le ragazze fresche che si sciolgono in languide risa/
vanno con la voglia di mare appiccicata alla pelle.
Chi aspetta che esplodano di giallo le pigre ginestre sul colle/
chi vuole vedere come il sole incendia tetti di coppi e pietre solagne/
alle otto di sera.
smr
Inizia la (per fortuna breve) stagione delle Passioni di Gesù Cristo.
Ingmar Bergman crede solo nella figura di Gesù Cristo, come uomo storico, non di Salvatore e in tutto quello che, prosaicamente, succede ad ogni uomo storico durante tutto il corso della sua vita. Ingmar Bergman era talmente incuriosito, così appassionato dalla figura di Gesù Cristo che aveva da tempo deciso di girare un film su di lui a Faro, la sua isola, ma era rammaricato dal fatto che diverse circostanze glielo avessero sempre impedito, e racconta il suo disappunto anche nella sua autobiografia. La buona occasione, ad ogni modo, sembrava, finalmente, essersi materializzata quando giunse a casa sua una folta delegazione di dirigenti della RAI-TV che gli si era rivolta per attribuirgli formalmente l'incarico di preparare la sceneggiatura per una Vita e Passione di Gesù Cristo. Pagarono anche anticipatamente il compenso per il suo lavoro: la bella somma di 30.000 dollari. Bergman si mise subito all'opera e forte dell'educazione religiosa forzosamente ricevuta dal padre, pastore protestante, e di una solida conoscenza biblica raggiunta attraverso approfondite ricerche e studi sulla figura storica del Cristo, fu in grado in pochi giorni di spiegare il suo personalissimo e originalissimo progetto. “Risposi con un piano dettagliato delle ultime quarantotto ore della vita del Salvatore. Ogni episodio era incentrato su uno dei personaggi del dramma... Dissi che volevo girare il film a Faro. Le mura di Visby sarebbero state quelle intorno a Gerusalemme. Il mare che bagna i raukar sarebbe diventato il lago di Genezareth. Sulla collina pietrosa di Langhammars volevo erigere la croce.”
Probabilmente il progetto del Maestro, per come era stato esposto, apparve troppo innovativo ed originale, lontano da quello che si aspettavano di sentirsi raccontare; oppure la collocazione scenografica sembrò troppo avulsa e lontana dai luoghi caldi e rassicuranti della vita del Cristo.
“Gli italiani lessero, rifletterono e arretrarono impalliditi. Pagarono generosamente e affidarono l'incarico a Franco Zeffirelli: ne risultò una vita e morte di Gesù come in un bel libro illustrato, una vera e propria biblia pauperum.” In un colpo solo la RAI-TV ottenne diversi risultati, non tutti e non proprio lusinghieri, purtroppo. Innanzitutto buttò all'aria inutilmente un bel gruzzolo di soldi pubblici; con una visione provinciale delle cose rimediò una bruttissima figura con uno dei cineasti più grandi di tutti i tempi; ottenne da un prevedibilissimo Zeffirelli la madre oleografica di tutte le Passioni di Cristo, che ancora si rappresentano, sotto Pasqua, nei borghi antichi di tutti i paesi d'Italia; rinunciò probabilmente a festeggiare l'ennesimo capolavoro a firma di Bergman. Un film che prometteva di essere qualitativamente alla pari, se non superiore, al Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, senza alcun dubbio la migliore trasposizione delle ultime ore di Gesù mai realizzata per il cinema. Insomma, grazie al fiuto e alla lungimiranza dei dirigenti della RAI-TV, oggi la cultura mondiale celebra una biblia pauperum in più e un capolavoro in meno.
smr
giovedì 19 marzo 2015
la figura del padre nel cinema di ingmar bergman (libro dedicato a mio padre)
In occasione della festa del papà metto qui un brano tratto dal mio saggio:
La Figura del Padre nel Cinema di Ingmar Bergman.
Si tratta delle Conclusioni.
La Figura del Padre nel Cinema di Ingmar Bergman.
Si tratta delle Conclusioni.
CONCLUSIONI
Per chiudere, Ingmar Bergman, nei sui scritti e nelle interviste che
raramente concedeva, dichiarava di aver tentato varie volte di recuperare il
suo rapporto filiale col padre e ne racconta accoratamente un passaggio felice,
tratto ancora una volta dai suoi ricordi d'infanzia.
E' come vorrebbe che quei rapporti fossero sempre
stati. Un giorno era in gita col padre che spesso accompagnava nelle sue visite
alle parrocchie di campagna. La prosa del Maestro, che pare poesia, semplice,
ma suggestiva ed efficace. “Quando uscimmo dal bosco di betulle e ci
inoltrammo tra i vasti campi della pianura, vedemmo i lampi sui colli. Grosse
gocce caddero sulla strada polverosa creando rivoli e disegni. Io dissi: così
dovremmo andarcene in giro per il mondo io e voi, papà. Papà rise e mi diede il
cappello perché glielo reggessi. Eravamo allegri. Alla salita del villaggio
abbandonato arrivò la grandinata... Le grosse gocce di pioggia si trasformarono
in spessi pezzi di ghiaccio. Papà ed io ci affrettammo verso la fattoria.[1]”
Ingmar Bergman recupererà un minimo di rapporto col
padre solo in età avanzata, quando lui era già famoso, la madre era già morta e
il padre, quasi smemorato, era alle soglie della morte. Nemmeno l'ombra del
pastore protestante rigido e senza cuore che incuteva timore ai figli e gli
impartiva quelle feroci punizioni corporali. “Quando papà rimase vedovo
andai spesso a trovarlo, ci parlavamo con amicizia. Un giorno stavo discutendo
qualche problema con la sua governante, sentimmo il suo passo lento e
strascicato nel corridoio, lui bussò alla porta ed entrò nella stanza
socchiudendo gli occhi alla luce violenta, evidentemente aveva dormito. Ci guardò
meravigliato e disse: Karin è rientrata? Nello stesso istante si rese conto del
doppio e doloroso errore. Sorrise imbarazzato: la mamma era morta da quattro
anni e lui aveva fatto la figura dello stupido chiedendo di lei. Prima che
facessimo in tempo a dire qualcosa agitò il braccio in segno di diniego e se ne
tornò nella sua stanza.[2]”
Ingmar Bergman appunta nel suo diario gli ultimi
giorni di vita del padre. “22 aprile 1970: papà sta morendo... 25 aprile
1970: papà è ancora vivo. Cioè è del tutto privo di coscienza, l'unica cosa che
funziona è il suo cuore forte... 29 aprile 1970: Papà è morto. E' stato
domenica, alle quattro e venti del pomeriggio; la sua morte è stata dolorosa.
[3]”
Comunque siano
andate in vita le cose fra di loro, qualunque sia stata la ragione dei loro
contrasti, la morte di un padre rappresenta sempre la fine di una grande
storia.
smr
martedì 17 marzo 2015
Oggi in paese è giorno di mercato.
OGGI IN PAESE E' GIORNO DI MERCATO
Oggi in paese è giorno di mercato/
nelle strade intorno al parco/
il venditore zelante espone le chincaglie/
dalle bancarelle, merci sfiziose ed ammiccanti/
nelle strade intorno al parco/
il venditore zelante espone le chincaglie/
dalle bancarelle, merci sfiziose ed ammiccanti/
strizzano l’occhio a volti
che scintillano di voglie.
Si prosegue lentamente
in surplace/
spiando a dritta e a manca/
sbrilluccica il seno delle ragazzette/
proprio
davanti al banco delle camicette.
L’anziano
buongustaio, i sensi ormai sopiti/
in mano la sua sporta vuota/
capitola alla
vista di caci/
nauseanti ma gustosi/
nauseanti ma gustosi/
montagne con la punta rasa/
annusa e annusa ancora/
formaggi e formaggette/
infine compra succulente marzoline fatte in casa.
formaggi e formaggette/
infine compra succulente marzoline fatte in casa.
smr
sabato 14 marzo 2015
Intonaco o non intonaco?
qualche giorno fa, a Coreno Ausonio, ha fatto scalpore la notizia del ritrovamento di un muro di pietre vive sotto l'intonaco (rimosso e poi ripristinato) esterno della canonica.
molti cittadini, conoscendo la mia attività di paesologo, mi hanno contattato per cercare in me una "sponda".
pare che la posizione del parroco polacco sia stata di fermezza, anzi di intransigenza.
sta di fatto che il giorno dopo, a nemmeno 24 h. di distanza dal ritrovamento, il muro era stato già riportato alla situazione "quo ante".
probabilmente il vecchio muro in pietra viva altro non era che il risultato della ricostruzione della chiesa e della canonica avvenuta nell'immediato dopo-guerra.
quindi niente di davvero rilevante, sia da un ponto di vista storico che da un punto di vista architettonico.
ma cosa costava lasciare la porzione di muro in oggetto scoperta?
in un paese dove di "storico" non c'è praticamente niente di rilevante, anche il "poco" è già qualcosa. O no?
a pochi mesi di distanza da un altro episodio controverso.
la ristrutturazione del primo tratto di via Roma, nel rione Curti (il famoso arto fantasma), dove l'intonacatore matto ha colpito ancora.
e il bello è che non si sa mai (o ancora) di chi sia la responsabilità dello scempio.
dei nuovi o dei vecchi amministratori?
del Genio Civile o della Regione Lazio?
a noi non è dato saperlo.
io sono e resto dell'avviso che un forno ad emergenza, ad esempio, vada lasciato come è stato costruito dagli edificatori primordiali, 100, 200 o 300 anni fa, e non intonacato.
come documentato magnificamente dalle due foto che allego al pezzo.
(la precedente e quella che segue)
anche se nel caso della seconda foto c'è da far rilevare lo scempio perpetrato dagli operai dell'Enel. (Sic!)
smr
molti cittadini, conoscendo la mia attività di paesologo, mi hanno contattato per cercare in me una "sponda".
pare che la posizione del parroco polacco sia stata di fermezza, anzi di intransigenza.
sta di fatto che il giorno dopo, a nemmeno 24 h. di distanza dal ritrovamento, il muro era stato già riportato alla situazione "quo ante".
probabilmente il vecchio muro in pietra viva altro non era che il risultato della ricostruzione della chiesa e della canonica avvenuta nell'immediato dopo-guerra.
quindi niente di davvero rilevante, sia da un ponto di vista storico che da un punto di vista architettonico.
ma cosa costava lasciare la porzione di muro in oggetto scoperta?
in un paese dove di "storico" non c'è praticamente niente di rilevante, anche il "poco" è già qualcosa. O no?
a pochi mesi di distanza da un altro episodio controverso.
la ristrutturazione del primo tratto di via Roma, nel rione Curti (il famoso arto fantasma), dove l'intonacatore matto ha colpito ancora.
e il bello è che non si sa mai (o ancora) di chi sia la responsabilità dello scempio.
dei nuovi o dei vecchi amministratori?
del Genio Civile o della Regione Lazio?
a noi non è dato saperlo.
io sono e resto dell'avviso che un forno ad emergenza, ad esempio, vada lasciato come è stato costruito dagli edificatori primordiali, 100, 200 o 300 anni fa, e non intonacato.
come documentato magnificamente dalle due foto che allego al pezzo.
(la precedente e quella che segue)
anche se nel caso della seconda foto c'è da far rilevare lo scempio perpetrato dagli operai dell'Enel. (Sic!)
smr
venerdì 6 marzo 2015
Lavorare lo strame.
Non si può capire cos'è la fatica se non si è provato almeno una volta a lavorare lo strame.
Ma per lavorare lo strame devi prima andare in montagna, falciarlo e farne grossi fasci, poi portarlo a valle, mettendolo sulla testa, quindi spargerlo per terra, seccarlo e poi batterlo con la mazza.
Solo dopo che hai fatto tutte queste cose puoi iniziare a intrecciare le corde.
La sera, quando hai finito la tua dura giornata, puoi finalmente leccarti le dita.
Si! Puoi leccarti dalle dita, il sangue che gocciola, cade dalle ferite che i fili di strame ruvidi e taglienti hanno inferto ai tuoi poveri polpastrelli.
"lui aveva sempre da un lato almeno un paio - se non una serie - dei numerosi fasci di strame secco con cui usava delimitare una buona porzione del muretto che aveva di fonte casa sua. Non appena consumava quello, la compagna provvedeva sollecita a rimpiazzarlo con uno nuovo. Il fascio, a forma di cono, terminava con un bizzarro pennacchio. Dal quale attingeva un mazzetto di fili ogni tanto. Senza guardare, con gesti sicuri, regolari, portati a memoria. Li metteva sotto l’ascella, per prenderne poi soltanto uno per volta, da aggiungere alla fune nuova che stava intrecciando. Peccato che alla fine gli rendessero poche lire, ma, andando avanti così, Alessandro era in grado di produrre quotidianamente una notevole quantità di manufatti diversi. Corde, da utilizzare come semplici legacci; oppure bande larghe un palmo, che, cucite tra loro a spirale, diventavano le sue rinomate sporte - oppure tappeti. L’unica differenza consisteva nella forma che lui sapientemente dettava con le grosse ma agili dita. A sezione rotonda le nude corde; schiacciate, con spessori diversi, le bande utilizzate per farne tappeti o zerbini. I manufatti uscivano dalle sue mani senza soluzione di continuità, raggiungendo lentamente il marciapiede. Lì, come rispondendo ad un automatismo misterioso, si arrotolavano - senza imbrogliarsi mai - sovrapponendosi in spire regolari, ampie, interminabili. Come sfilze di salsicce appena strizzate sul bancone del macellaio."
(dal mio libro: Le stagioni della Lattaia)
smr
Ma per lavorare lo strame devi prima andare in montagna, falciarlo e farne grossi fasci, poi portarlo a valle, mettendolo sulla testa, quindi spargerlo per terra, seccarlo e poi batterlo con la mazza.
Solo dopo che hai fatto tutte queste cose puoi iniziare a intrecciare le corde.
La sera, quando hai finito la tua dura giornata, puoi finalmente leccarti le dita.
Si! Puoi leccarti dalle dita, il sangue che gocciola, cade dalle ferite che i fili di strame ruvidi e taglienti hanno inferto ai tuoi poveri polpastrelli.
"lui aveva sempre da un lato almeno un paio - se non una serie - dei numerosi fasci di strame secco con cui usava delimitare una buona porzione del muretto che aveva di fonte casa sua. Non appena consumava quello, la compagna provvedeva sollecita a rimpiazzarlo con uno nuovo. Il fascio, a forma di cono, terminava con un bizzarro pennacchio. Dal quale attingeva un mazzetto di fili ogni tanto. Senza guardare, con gesti sicuri, regolari, portati a memoria. Li metteva sotto l’ascella, per prenderne poi soltanto uno per volta, da aggiungere alla fune nuova che stava intrecciando. Peccato che alla fine gli rendessero poche lire, ma, andando avanti così, Alessandro era in grado di produrre quotidianamente una notevole quantità di manufatti diversi. Corde, da utilizzare come semplici legacci; oppure bande larghe un palmo, che, cucite tra loro a spirale, diventavano le sue rinomate sporte - oppure tappeti. L’unica differenza consisteva nella forma che lui sapientemente dettava con le grosse ma agili dita. A sezione rotonda le nude corde; schiacciate, con spessori diversi, le bande utilizzate per farne tappeti o zerbini. I manufatti uscivano dalle sue mani senza soluzione di continuità, raggiungendo lentamente il marciapiede. Lì, come rispondendo ad un automatismo misterioso, si arrotolavano - senza imbrogliarsi mai - sovrapponendosi in spire regolari, ampie, interminabili. Come sfilze di salsicce appena strizzate sul bancone del macellaio."
(dal mio libro: Le stagioni della Lattaia)
smr
mercoledì 4 marzo 2015
Nostalgia (ma non quella di Tarkovsky).
Metto qui un abbozzo di poesia
La nostalgia è brutta bestia/
animale notturno/
arriva
col buio/
nell’oscurità ti azzanna i pensieri.
Vorresti soltanto un sonno senza sogni/
poi ti
costringe a scrivere/
per poter dimenticare.
Ma
non bisogna turbare l’ordine dell’esistenza/
nel grande segreto ontologico che
lacera il mondo/
devi morire, perché la vita sia bella.
Ma prima di morire/
scrivi per dimenticare/
non dimenticare di scrivere/
al di sopra di tutto, le cose che vorrai dimenticare!
Ci vorrebbe una scuola dove insegnino a
vivere/
una, invece, dove si possa imparare a morire.
smr
lunedì 2 marzo 2015
La Gazzosa - Bevanda ecologica degli anni ’60.
Metto qui l'appendice pubblicata nel mio Libro:
LE STAGIONI DELLA LATTAIA.
S'intitola LA GAZZOSA - Bevanda ecologica degli anni 60.
Ricordo che da
bambini, nei primi anni ’60, al pranzo dei giorni di festa, o nei rari
banchetti nuziali ai quali ci capitava di partecipare - allora si tenevano
quasi sempre a casa degli sposi; quasi mai al ristorante come usa oggi - mentre
i grandi bevevano vino, noi piccoli avevamo diritto alla nostra abbondante e
fresca razione di gazzosa.
Ricordo pure come molte passeggiate fatte
d’estate, in compagnia dei nonni o degli zii adulti, finivano con noi seduti a
cavalcioni sul muretto, i piedi penzoloni, esausti ma soddisfatti; o all’ombra
di un pergolato - come nelle più torride gite in Sicilia - a gustarci, in piena
tranquillità, una bottiglietta ghiacciata di quella soave, frizzante bevanda,
con leggero aroma di cedro.
Dubito molto che ancora oggi esista
qualcuno disposto a produrre, imbottigliare e distribuire quella modesta bibita
effervescente che bevuta d’un fiato ti toglieva il respiro.
Dubito molto che ancora oggi esista
qualche buontempone disposto a venderla per le poche lire che allora ci chiedeva
il nostro vecchio amico barista, grasso e
baffuto. Tu gliela chiedevi, lui la pescava dal bidone pieno di acqua e
ghiaccio, tuffandoci dentro quasi tutto il braccio. Subito ti tendeva l’altra
mano asciutta, aperta e avida. Ti cedeva la bottiglietta solo dopo che glie
l'avevi regolarmente pagata.
Oggi siamo tutti condannati,
inesorabilmente, alla modernità! E, si sa, la modernità non sempre è vero progresso.
Di sicuro siamo tutti bersagli viventi.
Vittime indifese. Sotto un bombardamento incessante di bevande colorate. E se
ne vedono davvero di tutti i colori! Ne ho viste alcune di un terrificante
celeste.
E ne vedo tuttora moltissime vendute in
lattine colorate, o in bottiglie di plastica col tappo di plastica.
E il sapore? Vi chiederete! Anche quello
di …plastica! Con lo zucchero o senza. Allora dentro c’è l’aspartame. O qualche
altro stucchevole ritrovato di sintesi che possa renderle dolci - o, perlomeno
gradevoli.
Se provi a leggere gli ingredienti, poi,
ci trovi tante strane “E” con tanti numeri appresso. C’è di che preoccuparsi.
Costano molto, per quello che offrono e,
forse, ti avvelenano pure - lentamente.
La nostra vecchia, meravigliosa Gazzosa
non aveva niente a che fare con tutto questo. Anche a volerla indicare come il
capostipite di tutte le bibite moderne, nulla può accomunare due
modi tanto diversi di bere. Due interpretazioni così diseguali di rimedio alla
sete. Oserei dire due filosofie di vita tanto difformi.
La nostra vecchia, meravigliosa Gazzosa
era servita nella sua inconfondibile bottiglietta di vetro trasparente - oggi
si direbbe “vintage”. Con le poche, semplici indicazioni, del produttore
e degli ingredienti, scritte in rilievo sul vetro. Chiusa tassativamente col
suo caratteristico tappo di ceramica bianca. Tenuto bloccato da una semplice ma
geniale molletta di ferro. Guarnito con l’anello di gomma arancione - per non
farla sfumare. Che te ne facevi di una Gazzosa senza bollicine? Avresti perduto
tutto lo sfizio di berla.
La nostra amata Gazzosa appariva
cristallina e incolore, quasi scialba alla vista, ma con un sottile, singolare
gusto - miracoloso, per come semplicemente era fatta. Acqua minerale, zucchero,
aromi di cedro o di altri agrumi. E solo una piccola aggiunta di anidride
carbonica - a renderla piacevolmente frizzante.
Qualcuno tra noi - ma era raro - la
trovava troppo mossa e vivace. Allora prendeva a sbattere maldestramente la
bottiglietta, tenendola tappata col suo piccolo pollice. Quindi, mollando un
po’ la presa, tentava disperatamente di farla sfumare - se non gli era prima
caduta quasi tutta per terra.
L’unico effetto che poteva ottenere era
di perderne mezza - con un grosso sbuffo impertinente. Anche agitato ben bene,
o sbatacchiato energicamente, quel liquido continuava a frizzare - impassibile.
Era come se l’anidride carbonica,
contenuta nella bottiglia, si rigenerasse in continuazione per cause
soprannaturali - magicamente.
Se volevi, potevi solo attenuarne di poco
l’effetto gasato. L’unico sistema era stapparla e aspettare - perdendo tempo a
osservarla mentre sfiatava lentamente, naturalmente. Con la cannuccia
d’ordinanza - rigorosamente di paglia, beninteso, non di plastica come oggi -
infilata nel collo della bottiglia, che si sollevava come per incantesimo.
Oppure dovevi versarla in un capace bicchiere
di vetro e aspettare che si ossigenasse. Ma se pensavi di doverla snaturare
così perché dovevi comprarla? Se pensavi di doverla snaturare così allora era
meglio non prenderla proprio quella Gazzosa!
Meglio procurarsi altro da bere!
O, no?
Se la gazzosa esistesse ancora, messa a
confronto col milione di bibite che circolano oggi, di sicuro, sarebbe
considerata la bevanda più naturale - dopo l’acqua.
Forse l’unica bibita veramente ecologica.
Ma se la gazzosa esistesse ancora, con
un’abile campagna pubblicitaria, una di quelle, odiose e martellanti, studiate
dai così detti “creativi” - quei fantasiosi signori che inventano le mode
estive più perniciose - diventerebbe un nettare “chickissimo”, da
vendere in tutti i locali alla moda.
E, dagli! foto sui giornali. Magari con
la bottiglietta amorevolmente, e maliziosamente, ospitata tra le gambe o tra i
seni di signorine mezze nude, sedute sulla sella di moto di grossa cilindrata
con gli occhi a mandorla.
E questo indegno “can-can” ne
appannerebbe inevitabilmente la genuinità dell’immagine. La renderebbe
artefatta - quindi finta.
E il suo inconfondibile gusto prenderebbe
di marcio.
Forse per questo motivo, in un mondo che
sembra pericolosamente impegnato a distruggere quel poco che ancora ci resta di
naturale e di schietto, qualcuno, tanti anni fa, di proposito, ha provocato la
fine della nostra gazzosa.
Forse qualcuno ha, volutamente, accoppato
la nostra Gazzosa.
La Gazzosa è morta!
Anzi, è stata ammazzata!
.…Per eutanasia.
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