Fammera, la grande montagna incantata.
giovedì 8 ottobre 2020
Sua maesta' Fammera, la grande montagna incantata.
mercoledì 7 ottobre 2020
57 . Ottobre
Non tutti riescono a percepire la grande bellezza di ottobre. Chi ci vede già le sedie in circolo davanti al focolare ardente a scaldarsi piedi e mani gelate. Chi ci vede cappotti e lunghi tabarri tristi e grigi, comignoli fumanti e corvi neri affumicati. Chi, al meglio, ci vede la coda dell’estate, una signora accaldata che ha buttato il suo ventaglio. Altri notano il grigio brumoso delle piogge e di certe nuvole pazze o il bianco ghiaccio della nebbia. E’ vero! Si sente spesso negli androni il rumore degli ombrelli che si spiegano. E’ vero! Non tutti sono attrezzati per apprezzare l’oro bruciato nel giallo della buccia dei cachi maturi, il rosso sanguigno nei melograni che penzolano dai rami, nelle doghe dei tini gonfi e in certi struggenti melanconici fiammeggianti tramonti. E’ vero! Pochi amano il blu immenso della luna piena e di certi cieli tersi e sconfinati, il viola nelle fragili mammole, l’arancio dei corbezzoli gibbosi, il marrone di funghi e di castagne. Allora, almeno tu, se hai tempo, fermati e fatti un regalo, ascolta ottobre quando arriva, siediti su un muro a secco, ai bordi di un boschetto dove le foglie lentamente, quasi per miracolo, cambiano tinta, diventano piccole fiammelle. Proprio dove una forza sovrumana, una specie di pittore, un po’ matto ma fenomenale, mescola sulla sua tavolozza magica i fantasmagorici colori del bagolaro. Prima il bianco, poi il giallo, il verde, l’arancione, il rosso, il marrone, infine il nero. Ottiene così lo spettacolo sensazionale del fogliame, quasi innaturale ma fenomenale.
smr
mercoledì 30 settembre 2020
I Rumori del Mio Paese
venerdì 21 agosto 2020
Dal mio libro ''L'orto dei frutti dimenticati'' metto qui la eccellente potente e ironica prefazione regalatami dall'amico Fabrizio Salce che proprio ieri e' stato nominato dal sito VinoWay.com Miglior Giornalista Enogastronomico Italiano del 2020.
giovedì 13 agosto 2020
Appunti sparsi dopo la visione del film ''Vanita' e Affanni'', 1997.
''Vanità e affanni'', titolo originale: ''Larmar och gör sig till'' è un film del regista svedese Ingmar Bergman realizzato nel 1997. Il titolo è preso dal ''Macbeth''' di Shakespeare, quinto atto, scena quinta, quando Macbeth dice: "La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore che s'agita e pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato". "S'agita e pavoneggia" si traduce in svedese con "Larmar och gör sig till". Come al solito la traduzione italiana dei titoli dei film di Ingmar Bergman e' abbastanza discutibile. Dopo ''Fanny e Alexander'' nel 1982, il Maestro aveva dichiarato di non avere più intenzione di fare altri film, dedicandosi alla televisione e realizzando, prima di questo lavoro: ''Dopo la prova'' nel 1984 ed ''Il segno'' nel 1986. Ma non e' la prima volta che Ingmar Bergman smentisce se stesso. Le riprese del film si svolsero dall'ottobre 1996 al febbraio 1997 negli studi SVT di Stoccolma e nell'ospedale Ulleråkers di Uppsala. Il film fu prodotto per la televisione svedese e alla sua realizzazione ha partecipato anche la Rai. Forse i dirigenti della Tv italiana volevano farsi perdonare la brutta figura rimediata negli anni '60, quando chiesero al maestro di scrivere e girare un film sulla Passione di Gesu' Cristo e, dopo aver versato come anticipo la modica somma di 30.000 dollari, annullarono il contratto e lo assegnarono a Zeffirelli, autore della madre di tutte le passioni. La sceneggiatura del film riprende una pièce scritta dallo stesso Ingmar Bergman nel 1993, con l'omonimo titolo, inizialmente destinata solo al teatro. In un secondo tempo Ingrid Dahlberg, direttrice delle produzioni drammatiche della Sveriges, propone al regista di realizzare lo stesso progetto per la televisione. Il film e' stato anche presentato nel 1998 al 51 Festival di Cannes nella sezione ''Un Certain Regard''. Il film si divide in due atti, come un vero dramma teatrale. Anzi e' un bellissimo esempio del genere KammerSpielFilm di cui Ingmar Bergman e' maestro indiscusso.
Nel primo atto la vicenda e' ambientata e inizia in un ospedale psichiatrico di Uppsala, citta' natale del regista. Siamo nell'ottobre del 1925. Il primo personaggio è quello dell'ingegnere Carl Åkerblom di 54 anni. Il film si apre con l'immagine del protagonista che ascolta e riascolta col grammofono le note d'apertura dell'ultimo lied di Franz Schubert, ''Der Leiermann'' dal ''Winterreise''' che costituirà il leitmotiv di tutto il film. Il Royal Patent Office, l'Uffico Brevetti svedese gli ha appena rifiutato con una lettera letta dalla moglie il brevetto della "macchina da presa". La motivazione? E' già stata inventato nel 1866 da R. W Paul. Carl è ricoverato per ripetute crisi di furore. Durante una delle ultime ha tentato di uccidere la sua compagna, Pauline Thibault. Siamo al cospetto di quello stesso zio Carl di ''Fanny e Alexander'', un doppio del vero zio materno di Ingmar Bergman descritto nell'autobiografia ''Lanterna magica'', noto per i suoi fantasiosi progetti di inventore. Carl e' ossessionato dalla vicenda umana del musicista Franz Shubert, dalla sua musica e dalla sua morte immatura causata a soli 40 dalla sifilide. In un incubo gli appare "Rig-mor", un ambiguo e spaventoso clown bianco che impersona la morte e che continuerà a riapparirgli nel corso del film. Il secondo personaggio, ricoverato nella stanza di Carl, è il professor Osvald Vogler, strampalato marito di una donna ricchissima e sordomuta che verrà ben presto a portarlo via da lì. Vogler racconta a Carl la storia della contessina Mizzi, una bellissima e giovanissima prostituta viennese, mantenuta di un conte e finita suicida: nasce fra i due il progetto di realizzare, col finanziamento della moglie di Vogler, il primo film muto doppiato in diretta che avrà titolo "La gioia della ragazza Gioiosa" e che intreccerà l'ultima fase della vita di Shubert alla vicenda di Mizzi. Nel secondo atto siamo invece nei disadorni e poveri interni della ''lega della Temperanza'' nella cittadina di Granaes in Dalecarlia, contea a nord ovest di stoccolma, al confine con la Norvegia. Sono stati trasformati per l'occasione in una provvisoria e improvvisata sala cinematografica prima, in un set teatrale dopo. Fuori imperversa una tempesta di neve. E' per questo motivo che vengono venduti solo undici biglietti? Uno alla volta, mestamente e silenziosamente, arrivano gli sparuti spettatori. Bergman sottolinea l'autobiografismo presente nel film offrendo molti indizi. Curiosamente fra gli spettatori dello spettacolo allestito dallo zio Carl e' facile riconoscere personaggi e attori di altri suoi film precedenti: la maestra del film ''Luci d'inverno'' Märta Lundberg, la moglie del pescatore suicida sempre del film ''Luci d'inverno'' Karin Persso, una delle interpreti del film d'esordio ''Crisi'' Inga Landgré, l'interprete della giovane Karin nel film ''La fontana della Vergine'' Birgitta Pettersson. E alcuni dei suoi familiari piu' cari: la madre Karin interpretata dall'attrice Pernilla August e la nonna Anna Åkerblom interpretata dall'attrice Anita Björk. Infine il personaggio del proiezionista Petrus Landahl che è molto somigliante al maestro come appare nelle fotografie giovanili.
Appena all'inizio del secondo atto, improvvisamente, Mia Falk, attrice e amante di Akerblom, lascia la compagnia. Quasi senza accorgersene Pauline, Carl, Vogler e il proiezionista Petrus Landahl, preparano comunque la proiezione del film. Carl mette fuori servizio la centralina in modo che la lampada ad arco possa funzionare. Ma poco dopo le prime sequenze scoppia un incendio, avventurosamente estinto dal coraggioso Landahl. La compagnia unita nell'amore per l'arte e per il proprio lavoro, per non deludere il piccolo pubblico e, probabilmente, anche per non rimborsare i biglietti, decide di continuare il film come opera teatrale. Alla fine della rappresentazione e solo dopo i convenevoli di rito gli spettatori vanno via. Il successivo arrivo della polizia, dopo l'ennesima apparizione di Rigmor a Carl che forse medita il suicidio, riporta Vogler in manicomio.
Alcuni temi del film sono i temi ricorrenti della cinematografia di Ingmar Bergman. I fantasmi e i luoghi dell'infanzia, insieme ai personaggi che l'hanno animata ed influenzata: lo zio Carl, la madre, la nonna. Il valore universale e salvifico dell'Arte. Il rapporto, alcune volte conflittuale alcune volte osmotico e complementare, del cinema col teatro. Il sesso. Le origini del cinematografo. La morte, rappresentata dal clown Rigmor. Il dolore della malattia, la follia e il manicomio. Tra i ricoverati dell'ospedale appare in un cammeo anche lo stesso regista, e' l'uomo alto e magro in piedi contro la parete fuori della stanza di Carl Åkerblom. Infine, la musica. Ingmar Bergman fa in molti dei suoi film un uso fondamentale della colonna sonora, attribuendo alle musiche che predilige, di Bach, di Mozart, di Chopin e altri compositori tra i piu' grandi, un ruolo centrale, quasi cardinale. In piu' non e' un mistero che fosse ''ossessionato'' dalla musica, era affascinato dalla ricerca delle radici storiche della musica, conduceva personalmente delle ricerche per riuscire a scoprire da dove la musica provenisse.
La sceneggiatura del genio di Uppsala e' di ferro, anzi, di piu'. L'intrepretazione di tutti gli attori bergmaniani, capeggiati dal decano Erland Josephson magistrale.
Film da vedere e rivedere.
Per chiudere, il mio stato d'animo dopo la visione riassunto eloquentemente in una battuta dello stesso film. ''Non sto naufragando... sto risalendo!''
mercoledì 29 luglio 2020
Pasquale C, Cherubino Coreno, la gazza e il parmigiano.
Pasquale C, impiegato postale sulla settantina ormai in pensione, non si era mai sposato, viveva da solo nella vecchia casa di famiglia “agliu Ceoso[1]”; la casa in cui aveva abitato fin da piccolo con la madre, il padre e l'unica sorella, prima che quella si sposasse; la casa nella quale (si vantava e lo fa ancora) era nato il suo predecessore più illustre, tale Cherubino Coreno, grande musicista e talentuoso flautista, anzi maestro di stromenti di fiato presso il Conservatorio di Santa Maria di Loreto a Napoli dal 1749 al 1762 e - pare - ospitato anche alla corte dei Borbone, dove insegnò lo strumento al rampollo dei reali. Cherubino, il parente più noto di Pasquale, nacque a Coreno nel 1706 e morì nel 1764. In realtà non si sa con certezza se la casa di Pasquale C fosse davvero quella in cui nacque Cherubino, ed è ancora in corso una accanita disputa con la famiglia dei vicini che vorrebbero l'esclusiva delle origini e della parentela più stretta. Ma tant'è, in assenza di prove certe e, soprattutto, definitive qualcuno ha pensato bene di apporre due targhe sulle due pareti di due case diverse ma contigue e così la faccenda è stata risolta e archiviata salomonicamente ma con approssimazione tutta paesana. In realtà Pasquale C era tornato ad abitare nella vecchia casa di famiglia in pieno centro storico poco prima che andasse in pensione, avendo passata buona parte della sua vita lavorativa in giro per l'Italia. Non aveva mai chiesto il trasferimento all'ufficio 51 postale del suo paese nativo, pure avendone maturato da anni il pieno diritto, forse per una questione di riservatezza personale oppure perché, pretendendo di conoscere bene i suoi compaesani, preferiva tenersi fuori da eventuali beghe. Da un po' di tempo Pasquale C aveva preso l'abitudine, in primavera, di uscire dal suo studio buio e polveroso e andarsene a leggere in terrazzo, dove aveva allestito un confortevole buen retiro; un paio di sedie sdraio di plastica da giardino, una per se e una per un eventuale ospite che però non arrivava mai. Era un solitario per scelta di vita e si guardava bene dall'invitare qualcuno a casa sua. Praticamente l'unico ospite che avesse regolare e legittimo accesso alla casa era la donna di servizio che una volta la settimana varcava la soglia di pietra viva e diventava l'unico abitante della casa per tre ore. L'unico abitante perché, nel frattempo Pasquale C usciva per sbrigare qualche commissione e tornava solo dopo che quella, terminate le faccende e ritirata la busta del salario lasciata nel vuota-tasche all'ingresso, era già uscita. Quattro sedie, sempre bianche e di plastica e sempre da giardino, terminavano quell'arredamento rabberciato sul terrazzino, disposte ordinatamente attorno a un tavolinetto, anch'esso bianco di plastica e da giardino, messo lì per appoggiarci qualche bibita e i libri, proprio sotto a un ombrellone da mare, perennemente chiuso, che Pasquale C apriva solo in piena estate per ripararsi dal solleone. E proprio lì, sul suo bel terrazzino arredato, che un bel giorno, inaspettatamente, avvenne un fatto straordinario, destinato a cambiare il corso regolare anzi, perfino monotono, della vita da pensionato solitario e un po' misantropo di Pasquale C. L'uomo fece amicizia con una gazza. La gazza o gazza ladra (Pica pica, secondo la denominazione di Linneo) è un grosso uccello bicolore della famiglia dei corvidi. Una volta era molto comune, ma stazionava solo nei boschi e nelle zone montane, da qualche anno, invece, si è molto diffuso anche all'interno del centro abitato, e i suoi numeri sembrano aumentati esponenzialmente, forse perché sottratti alla caccia intensiva di un tempo. Il fatto strano, anzi le due cose strane, nel nostro caso, sono che nel dialetto del mio paese quell'uccello si chiama proprio pica; è bicolore, nero e bianco, proprio come i colori sociali della Juventus, squadra per la quale Pasquale C ha fatto un tifo sfegatato fin da bambino. Ebbene, da quando per la prima volta, con simpatia era stato accolto da Pasquale C sulla terrazza della sua abitazione, in un bel pomeriggio di primavera, uno di quelli col cielo sereno, solo un po' screziato di nuvole, e il primo caldo, per i quattro o cinque anni successivi, l'uccello aveva continuato ad andarci tutti i giorni, dopo pranzo, alla stessa ora. Quando Pasquale saliva sulla loggia a leggersi il giornale e i suoi libri e a godersi un bel po' del tiepido sole di collina, meritato dopo i rigori invernali. Per tutti i mesi della primavera e anche per quelli estivi successivi, da aprile a settembre inoltrato, la pica arrivava dall'alto con una specie di frullo quasi impercettibile, planando sul muretto di cinta del terrazzino dove Pasquale C divorava avidamente i suoi libri di filosofia o di storia. A parte un primo attimo di stupore, Pasquale C non aveva mai manifestato disappunto per le incursioni dell'uccello, per la verità un po' indiscreto e invadente, col passare dei giorni anzi, aveva scoperto che gli piaceva proprio essere interrotto, l'arrivo puntuale dell'uccello gli consentiva di tirare il fiato, di chiudere il libro, e pensare addirittura che avesse finalmente un vero ospite da accogliere. I due, messa da parte una naturale diffidenza iniziale, erano diventati veri amici e, addirittura, parlavano fra loro, Pasquale C con le parole, l'uccello col becco, con le ali e con gli sguardi. E il bello è che i due, pur non parlando la stessa lingua, avevano finito per capirsi, ognuno dei due riusciva a intendere perfettamente quello che l'altro voleva dire. Quando la pica ebbe preso definitivamente confidenza col suo nuovo amico umano, col suo ospite, saltava dal muretto all'avambraccio di Pasquale C e prendeva a becchettare le pagine del libro che il suo aveva in mano, come volesse girarle da sola per passare più rapidamente alla successiva. Allora Pasquale C si faceva fintamente più serio e intimava all'uccello di smetterla, la gazza come se capisse di aver esagerato la smetteva davvero e aspettava paziente che Pasquale C interrompesse spontaneamente la sua lettura e le offrisse del cibo. Pasquale C aveva abituato troppo bene la gazza, l'aveva viziata, perché ogni giorno preparava per lei e le faceva trovare delle vere e proprie prelibatezze. Arrivò perfino ad offrirle delle scaglie del formaggio di forma più pregiato, parmigiano o anche grana, che la pica mostrava di gradire molto, manco fosse un topo. Quando i pezzi di formaggio che Pasquale C offriva alla pica erano piccoli, quella li inghiottiva avidamente, ma quando erano un po' più grandi del solito li beccava ma senza mangiarli, li portava via, si librava in volo e tornava solo dopo qualche decina di minuti. Pasquale C aveva pensato che, non troppo lontano da lì, la pica avesse un nido con dei pulcini, oppure un compagno, o entrambi e con essi divideva il cibo avuto in dono dal suo amico. Un anno, in primavera, Pasquale C aveva da poco ripreso a salire in terrazza, ma la gazza non si presentò. Dopo un primo attimo d'iniziale sconforto, Pasquale C sembrava rassegnato a non vederla più atterrare dall'alto sul muretto della sua loggia e solo ogni tanto interrompeva la sua amata lettura, si metteva il libro sul grembo e guardava in alto; sperava di scorgere la sua pica in volo sopra la sua testa. Aveva nostalgia del suo amico uccello. Alla fine aveva pensato che fosse morto di vecchiaia, sebbene non avesse idea di quanto lunga fosse la vita di un uccello di quella specie, oppure che fosse rimasto vittima di qualche cacciatore senza scrupoli. La caccia non da più carnieri pieni come una volta e c'è sempre qualche cacciatore da strapazzo che arriva a sfogare la sua rabbia anche contro uccelli non commestibili. La pica non sarebbe più tornata! L'anno dopo, in primavera, appena l'aria aveva preso a farsi più tiepida, Pasquale C aveva di nuovo allestito il suo salottino pensile e tutti i giorni saliva a leggere i suoi libri. Un bel giorno era salito in terrazza e lo aveva letto con una specie di piacevole presentimento, senza sapere come, né perché, aveva ripensato alla sua gazza ed aveva immaginato che quel giorno stesso l'avrebbe rivista. E così fu! Mentre se ne stava lì a leggere, scoprendosi distratto, svogliato, come se pensasse ad altro, a qualcosa che doveva avvenire, ecco da lontano la sagoma bicolore della sua gazza e il frullo delle sue ali che sentiva sempre quando quella atterrava a casa sua. Ma stavolta la scena fu diversa. La gazza con gli occhi vispi atterrò sul muretto della loggia e si piegò su un lato, come se una zampetta non avesse retto più il suo peso. Pasquale C la prese tra le mani, cercando di scoprire da cosa fosse stato determinato quel movimento strano, girando l'uccello tra le mani e tendendone le ali e le zampette alla ricerca dell'evidente problema si accorse subito che uno degli arti dell'uccello doveva aver subito una frattura e l'ossicino si era rimarginato male, compromettendone per sempre l'atterraggio e lo stazionamento. La pica, secondo l'attendibile ricostruzione di Pasquale C, doveva essere rimasta vittima di una tagliola o dei pallini di piombo di un cacciatore di frodo, ma era riuscita, benché ferita, a scappare e a fare ritorno al suo nido, dove si era curata da sola ma era rimata oltraggiata nell'arto. L'anno dopo era tornata dall'amico, come avesse intuito che quello era stato in pensiero per lei, non lo aveva dimenticato, sapeva che Pasquale C l'avrebbe aspettata, non si sarebbe rassegnato alla sua assenza, che l'avrebbe accolta ed accudita ancora. E così era stato! Ancora oggi, dopo una dozzina d'anni dalla prima volta, e ad un lustro dall'incidente, la pica in primavera torna sul terrazzino della casa di Pasquale C (e del suo avo Cherubino Coreno), che la accudisce e le regala i suoi cibi raffinati, le sue scaglie di parmigiano, il suo formaggio preferito. La gazza, tiene sempre per sé le più piccole e porta, invece, le grandi ai suoi pulcini e al suo compagno.
martedì 18 febbraio 2020
Se chiudono i negozi chiude l'Italia.
sabato 25 gennaio 2020
Quando... non c'è limite al dolore.
la luce si spense e
si fece buio in cielo,
da qui fino all’altro
lato della galassia e
silenzio intorno a
tutto l’universo,
per quasi mezz’ora.
Poi ci fu un improvviso lampo
nero che nessuno vide ma
tutti ne sentirono il rumore.
fu come quando l’Agnello
aprì il settimo sigillo,
e ai sette angeli, dritti
davanti a Dio, furono date
sette trombe, che
però non suonarono:
erano rimasti senza fiato.
il dolore fu grande
e tutti piansero:
chi la conosceva pianse
insieme a chi non la
conosceva. Pianse il
marito (piansi io)
piansero i figli
pianse la madre e
piansero i fratelli.
Piansero gli amici e
tutti i santi in paradiso.
Tutti versarono inconsolabili
lacrime salate.
il sole si fermò e con lui
si fermò la luna. Le stelle
si fermarono e tutti gli astri
in cielo e s’interruppe un
corso di millenni. In terra
tutte le strade si mischiarono
e le discese divennero salite
e viceversa. In mare i pesci
annegarono nella loro stessa
acqua e gli uccelli in volo
caddero stecchiti.
Gli orologi si fermarono
sui polsi, non serviva
scuoterli, le lancette si
staccarono dai quadranti.
nei prati l’erba smise
di crescere e i fiori
si rifiutarono di sbocciare
fino alla primavera dell’anno
dopo, gli alberi si seccarono,
le piante appassirono,
anche quelle grasse sul suo
balcone avvizzirono, tutti
i colori sbiadirono e i suoi
abiti colorati stinsero.
Tutto divenne grigio.
non vennero le olive e
non si fece l’olio, non venne
l’uva e non si fece vino,
il grano non fece più spighe
quella estate e i fornai non
impastarono pane. Le api
smisero di fare miele.
Perfino l’acqua smise di
scorrere nei rivoli e tutto
quello che era in bilico crollò.
i musicisti smisero di
fare musica, i pittori
di dipingere, le ballerine
di danzare, gli attori
di recitare, i mimi di
mimare, i poeti di declamare
i loro versi, i maestri
di fare scuola, i preti di
dire messa, i muratori di
fare case, gli avvocati di
perorare le loro cause
nei tribunali, i giudici
non emisero più sentenze.
gli aratri smisero di arare
e i buoi liberati dal giogo
scapparono nei campi muggendo,
i contadini riposero le vanghe
e incrociarono le braccia.
Le mucche non fecero più latte
e le api smisero di fare miele.
i quadri a casa sua si
staccarono dai muri e le
cornici rimasero vuote.
Le penne Bic finirono
l’inchiostro e furono
buttate nei cestini, i
fogli di carta rimasero
bianchi nei quaderni.
I motori si spensero,
le auto in panne.
gli infermieri piansero
tristi nelle corsie d’ospedale,
mentre i medici ammutoliti
presero a recitare il
loro mesto “mea culpa”;
con loro c’era la medicina
impotente e la scienza. Ché
con lei tutti erano stati
colpevoli o impotenti.
in tutto il mondo solo
il cancro, che con troppo
zelo aveva svolto il suo
compito, pareva soddisfatto.
Dopo il lavoro sporco
era corso dal Padrone
per intascare il premio
pattuito, ma non trovò nessuno.
Nessuna risposta ebbero le sue
richieste, le sue invocazioni
non furono ascoltate, nessun
premio, nessuna ricompensa.
mani vuote, dimostrò interamente
la sua vacua inanità. Aveva
fatta sua un’altra vittima
impotente; aveva solo ucciso,
inutilmente, l’ennesimo innocente.