giovedì 21 giugno 2012

Appunti di paesologia: Le Stagioni della lattaia (estratto dalla presentazione dell'Autore)

Presentazione dell'autore

Vivo in un paese brutto. Brutto perché maltenuto, perché cresciuto disordinatamente - senza armonia; brutto perché disseminato di case senza facciata; brutto perché zeppo di stabili fatiscenti coi muri crepati.
E’ un vero peccato! Perché di sicuro non è stato sempre così. Un difetto di senso estetico, poco meno che generale, l’ha reso brutto; il disinteresse, l’egoismo e la sciatteria, di chi lo ha amministrato per anni, e della sua gente, hanno fatto il resto.
Io penso che alla sua nascita - mille anni fa - fosse molto diverso da com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore. E, a suo modo, doveva pure essere bello.
Posso immaginare com’era - senza sforzo.
Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono con gli artigli ficcati negli schienali del sofà. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali.
Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale.
Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta.
Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro.
Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio, diventano grigie.
D’accordo, quel paese era povero. Ma non lo nascondeva. Era essenziale e dimesso. Ma almeno aveva un bel colpo d’occhio omogeneo. Costituiva uno scenario prezioso, da preservare per la sua tipicità. E’ un vero peccato che sia stato rovinato, devastato dopo.
E’ successo tutto negli ultimi quarant’anni.
E ci fosse stata almeno una buona ragione per mandarlo in malora; ci fosse stato almeno qualcosa da predare, qualcosa di cui arricchirsi dallo scempio. Sarebbe stato uno dei tanti sacchi scellerati, come ce ne sono stati molti nel secolo appena trascorso. Come, purtroppo, ce ne saranno tanti altri in questo nuovo secolo. Tutti causati dall’ignoranza, dalla negligenza, dall’incuria, dalla ottusità degli uomini. Prima che partisse la corsa allo sfruttamento industriale della pietra calcarea locale, l’unica vera risorsa era la terra: da coltivare, fertile e generosa, o sassosa e avara.
Allora i terreni da coltivare si spietravano a mano, sasso dopo sasso. E si coltivavano per sopravvivere.
Allora le uniche prosperità degli uomini erano gli animali e i figli. Poi è arrivata qualche lira ed ha guastato tutto. Ha rotto equilibri antichi, tenuti in piedi per secoli solo dalla miseria e dalla fame.
Ora, che una quantità insensata di cemento è stata versata a sproposito, brutalmente - come una bestemmia urlata in faccia ad un povero cristo - su tutto il paese, anche nel cuore del vecchio centro storico, prendendo il posto delle stradine e delle piazzette lastricate a pietra e dei muri a secco centenari, le case - se va bene - hanno gli esterni di quarzo plastico e gl’infissi d’alluminio anodizzato - perfino alcune di quelle costruite non proprio di recente.
E i tetti? Alcuni saranno pure nuovi e fatti a regola d’arte, ma sono tutti coperti con tegole correnti - e poi sono tutti diseguali.
Ora, che il danno è stato fatto - e, per conto mio, è irrimediabile - non basta rivestire la piazza centrale con lastroni di marmo buciardato a macchina, per il capriccio di farne il salotto buono.
E’ un’idea velleitaria. E passerà alla storia come l’estremo ma vano tentativo di salvarne l’aspetto arcaico; di conservarne l’essenza originaria, impiantando sul nuovo un elemento fintamente antico.

SMR



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