lunedì 11 giugno 2012

Influenza del teatro di August Strindberg sulla cinematografia di Ingmar Bergman.

PARTE PRIMA.

Presentazione.

 Sebbene il suo eclettismo e la sua versatilità gli abbiano consenstito di spaziare, con grande disinvoltura e rara efficacia, tra i diversi generi artistici (prosa, teatro, fiolosofia, poesia e, perfino, pittura) August Strindberg è, universalmente considerato, il “padre del teatro moderno” ed è autore di un’opera drammaturgica considerevole.

Sebbene, per la sua unicità ed originalità, non possa essere considerato l'iniziatore di un filone, di un genere nè, tantomeno, di una scuola, Ingmar Bergman può essere, a ben ragione, definito il “padre del cinema moderno” ed anch'egli è autore di una produzione (filmica) considerevole.

Si può anche aggiungere che Strindberg ha aperto la via al “modernismo letterario” nel suo paese, la Svezia. E che la Svezia è lo stesso paese di nascita di Ingmar Ernest Bergman.
Sono questi i primi, evidenti e incontestabili, punti di contatto che si stabiliscono tra i due grandi personaggi della cultura scandinava del '900.

L’uomo August Strindberg è altrettanto affascinante della sua opera; così come sono affascinanti Ingmar Bergman e il suo cinema.
Tuttavia, entrambi sono molto difficili da definire, ed entrambi lungo tutta la loro vita, anagrafica e artistica, tentarono di essere appassionatamente sinceri con sé stessi - più che con gli altri - a partire dalla pretesa di essere "sinceri" anche nelle loro proprie, profonde,  umane, per certi versi sconcertanti, contraddizioni.
Ingmar Bergman, in modo particolare non fu immune da contraddizioni profonde, che riverberano i propri effetti, positivi o negativi, sulla sua intera attività cinematografica.

Non doveva essere facile per un uomo eccezionale vivere e lavorare nella piccola Svezia della metà del XIX secolo.
Così come non doveva esserlo per Bergman negli anni '40, dall'inizio stentato della sua carriera fino a quando non fu definitivamente acclamato come il personaggio svedese vivente più popolare al mondo.


Strindberg, nato nel 1849, nervoso e instabile, è il figlio spirituale di altri due grandi scandinavi: Soren Kirckegaard ed Henrik Ibsen.
E anche Bergman ha studiato a fondo le lezioni del drammaturgo e del filosofo e ne ha appreso perfettamente il loro ricco, fondante insegnamento.

Strindberg Inizia, nella prima giovinezza, gli studi di medicina, cui rinuncia per ragioni materiali; prova diversi lavori, fino ad impiegarsi come bibliotecario aggiunto alla Biblioteca Reale di Stoccolma.
Questi suoi inizi stentati, sono ben riassunti da una prima pièce dal titolo eloquente, “Il libero pensatore”, del (1869).

Anche Bergman avrà grossi problemi, economici e di inserimento nel mondo del cinema, il solo mondo che ama.
Lui stesso, dopo alcune altre collaborazioni minori come soggettista e sceneggiatore, arriva a dichiarare candidamente, ma anche molto amaramente: “Nel 1944 arrivò la mia grande occasione. Il Direttore di Svensk Filmindustri mi sottopose il manoscritto di una commedia di un autore danese con la proposta di ricavarne un film. In 14 notti scrissi una sceneggiatura. Se me lo avessero chiesto avrei sicuramente tratto un film anche dall'elenco del telefono."
(da: “La lanterna Magica”, Autobiografia).

Strindberg giovanissimo - non ha che vent’anni - affronta ll primo grande impegno con una pièce riscritta tre volte, dal 1872 al 1876, ora in versi ora in prosa, “Maestro Olof” (Mäster Olof) dove, partendo da un pretesto storico, dà libero corso alla sua sete d’assoluto ed al suo culto intransigente della vocazione. Strindberg ha trovato quasi di colpo la sua formula: trasformare il teatro nella proiezione sulla scena del suo universo interiore. Ma trova anche il suo tema dominante e centrale: se la vita non è, e non può essere, quella che sogniamo; allora, quale esistenza varrebbe la pena vivere?
Praticamente, da questo momento in poi, passerà trentacinque anni a stigmatizzare tutto: lo Stato, la Chiesa, la buona società, la Donna, il perbenismo borghese e, finanche, Dio. Diventerà una specie di inquisitore, di partigiano, di rivoltoso, di disturbatore, di artista provocatore, di agit prop, di cui qualsiasi vera letteratura (meglio drammaturgia) ha bisogno, e in particolare quella scandinava che, intorno al 1870, dopo anni di chiusura culturale, sta finalmente scoprendo le proprie vie di “apertura” all’Occidente.

E' esattamente lo stesso ruolo che Bergman ricopre 70 anni dopo, nel cinema svedese.
Il Genio di Uppsala fa del suo cinema un modo per parlare della vita e della morte; per discutere del destino dell'uomo e della sua solitudine, dei sentimenti, delle angosce e delle sue paure ancestrali; un modo per sondarne, scandagliarne e vivisezionarne impietosamente la psicologia, proprio come farebbe uno “speleologo” della psicanalisi; metterne a nudo i limiti ontologici e le lacune umane; interrogarsi sull'esistenza, sul silenzio e la fuggevolezza di Dio; indagare sulla (in)costistenza e fondatezza della religione e, forse, anche sulla sua inutilità, visto che non da risposte esaustive e definitive.
Eloquente, in tal senso, lo stesso Bergman quando fa dire ad uno dei suoi personaggi più famosi (il cavaliere Antonius Block, ne “Il settimo Sigillo”) quello che anche lui parrebbe voler dire: "Perchè non è possibile cogliere Dio con i propri sensi. Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incompresnsibili miracoli? Perchè dovrei avere fede nella fede degli altri? Perchè non posso uccidere Dio in me stesso?".


Anche Strindberg, che, decenni prima, aveva posto le nostre angosce e le nostre insufficienze al centro del suo teatro, ha saputo dire, meglio di altri, lo smarrimento, lo spaesamento dell’uomo di oggi.
Rifiutando sempre e sdegnosamente gli aiuti che avrebbero potuto provenirgli da un’etica borghese stabile e da un altrettanto borghese perbenismo o anche da una religione condivisa dai più, ha voluto essere vero, scandalosamente e inesorabilmente vero, indigesto e puntuto, ruvido e corrosivo, spingendosi, a volte, fino ai limiti dell' insopportabile e, spesso, travalicandoli.
Esattamente lo stesso ha fatto Ingmar Bergman per il tramite del suo cinema.

Il “teatro psichico” di Strindberg; il “cinema psichico” di Bergman.

Strindberg, scrittore, poeta, pitore, drammaturgo e filosofo, alla fine opta per il teatro (“electa una via ......”) strumento ritenuto il più idoneo a mostrare l’inevitabile urto di una personalità contro le altre, contro la massa, e insieme di tratteggiare il divenire enigmatico, casuale e caotico di ogni destino.
E giunge, per lui, il momento della serie di capolavori di teatro “simbolico” nei quali alcune immagini  altamente simboliche generano la progressione inesorabile dell’azione.
Si è spesso parlato, da parte della critica, a proposito di questi drammi di “teatro psichico” .
Si tratta per l’autore di dimostrare che gli spiriti intellettuali superiori sono necessariamente incompresi dalla massa; che la vita è una lotta senza sconti, tesa a schiacciare tutto ciò che esce dal comune sentire - Strindberg chiama questo combattimento la “lotta dei cervelli” (hjärnornas kamp) - dove la donna è infinitamente più forte dell’uomo e la “maggioranza compatta” vince sempre sull’individuo isolato, in particolare arrivando, inesorabile, a praticare impunemente i cd. "omicidio psichico" (själamord), che consiste nel privare un individuo della sua stessa credibilità sociale introducendo subdolamente un dubbio fondamentale nel suo spirito.
E anche Bergman, come Strindberg, è autore di personaggi autodiretti, che raramente appartengono alla maggioranza, raramente si appiattiscono sull'idem sentire, anzi quasi sempre raccontano la loro solitudine, la lorto angoscia di solisti, di voci fuori dal coro, di individui soli, solitari e solipsisti.
Essi si pongono in diretto dinamismo dialogico con il proprio io, con la loro psiche, con la loro religiosità e, infine, con Dio.
Forse Bergman li fa agire in modo, quasi, autobiografico.
Eloquente, in tal senso, la sua stessa affermazione: “Viviamo così lontano da Dio che forse non ci sente quando chiediamo aiuto. Perciò dobbiamo aiutarci tra noi e darci l'un l'altro quel perdono che un Dio remoto ci nega”.

Mistica ed alchimia.

Quasi di colpo, l'ispirazione di Strindberg, lanciatosi nel frattempo, in tenebrose esperienze alchemiche compie una brusca virata: intraprende una ricerca di tipo mistico, occultista e alchemica, alla ricerca di quelloche lui stesso definisce il "Grande Segreto".
Se ne vedono i primi esiti nel romanzo insolito "A bordo del vasto mare" (scritto nel 1890).
Anche Bergman affronta il tema dell'occultismo in un suo celeberrimo film: “Il Volto” (“Ansiktet”), del 1958. Tutto giocato sulla contrapposizione, anzi, sullo scontro dialogicoe, quasi, fisico tra i due protagonisti: da una parte, il dottor Vergerus, (interpretato da Gunnar Bjornstrand), medico, scenziato rigorosamente scientista e positivista, disincantato e incredulo; dall'altra, Albert Emanuel Vogler, (interpretato da Max von Sidow), illusionista e ipnotista, mesmerista convinto, cultore di magia, mistero e di tutto ciò che è soprannaturale. In un confronto serrato e senza esclusione di colpi, tra visibile e invisibile; tra ragione e soprannaturale; tra vita e morte; tra volto e maschera; tra essere e apparire.

(Segue Parte Seconda)

SMR

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