martedì 3 febbraio 2015

VIVERE E MORIRE IN PAESE

Metto qui un brano tratto da un mio libro:

STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI


In questo brano che, ammetto è un po lungo, si parla di morti e di funerali. Perciò chi non gradisse l'argomento può astenersi dal leggerlo. Chi, invece, volesse leggere qualche considerazione che, magari, condivide, sulla morte e sui funerali, ma non ha mai scritto (magari solo per mancanza di tempo), prosegua pure la lettura. La troverà interessante. Almeno lo spero. 
"In un paese piccolo, piccolo come il mio, che non fa nemmeno 1700 abitanti, ogni anno muore almeno l'un per cento della popolazione: 15/17 persone, se va bene, cioè se ne muoiono pochi. Perché, se va male, nel senso che quell'anno ne moriranno molti, allora possono morire anche il doppio: cioè una buona trentina. Vivere in un paese piccolo come il mio è come vivere in tempo di guerra, come vivere durante la guerra, anzi in una guerra che si sta ancora combattendo, che si combatte ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Una guerra lunga e interminabile che, ogni quindici giorni, o quasi, annuncia un suo caduto; aggiorna il conteggio dei suoi morti; conta i suoi caduti totali. Se vivi in un paese piccolo, non sei affatto un cittadino sereno che fa una vita serena, tranquilla, come molti pensano che sia la vita in paese e come, alla fine, meriteresti pure di fare, avendo scelto di vivere in paese piccolo, brutto e dimenticato da Dio e dagli altri uomini. In una città è tutto diverso, penso; ma è diverso specialmente il rapporto con la morte, ne sono certo. Quello che stava seduto al tuo fianco quella mattina in metropolitana e con cui hai scambiato due chiacchiere sul tempo, è morto una settimana dopo, o lo stesso giorno, ma tu non lo sai e non lo verrai mai a sapere; non lo conoscevi e, quando è sceso, eri già pronto a non vederlo più, a non incontrarlo mai più. E non lo vedi più, nemmeno se resta in vita. Quindi è come se fosse morto. E se pure lo dovessi rivedere non lo riconosceresti ed è come se lo avessi visto per la prima volta. Quello che stava davanti a te in fila al supermercato, a cui hai tamponato il carrello, nemmeno lo conoscevi, magari uscendo è stato investito da un'auto o ha avuto un infarto o s'è buttato sotto un treno in corsa, ma tu non lo conoscevi e non lo sai che è morto. E non t'interessa di saperlo. Non ti informi. In un paese piccolo potrebbe non interessarti chi vive e chi muore, nemmeno se non frequentavi il defunto, ma invece ti interessa, deve interessarti per forza, non dipendesse dal semplice fatto che in modo o in un altro vieni a sapere che uno è morto e che fanno i funerali in piazza, e il paese è la piazza; quindi sai che è morto qualcuno, sai chi è morto e sai che lo conoscevi, per forza. La tua vita in paese, quindi pare tranquilla, ma non lo è. E' piena di preoccupazione: chi sarà il prossimo? Toccati! Potresti essere tu. La tua vita in paese assomiglia a quella di un soldato. Ricordate il soldato di Ungaretti? "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie." Ecco in paese si sta così, si vive così. Se, invece che in una città, vivi in paese piccolo, sei come una foglia sul ramo, e non solo d'autunno; sei come un soldato, per tutto l'anno. Anzi sei come un soldato appostato in trincea per tutto l'anno e ogni tanto ti arriva la notizia che è morto qualcuno: Giuseppe, e poi che è morto pure Paolo, e poi anche Carlo e qualche giorno dopo se n'è andato anche Lucio e che l'altra settimana, quel brutto male s'era portato Tommaso e che prima di loro, dall'inizio dell'anno, s'era portati Alessandro, Antonietta, Filippo e Maria e Luigia e .... Tutta gente che conoscevi: amici, conoscenti, parenti, affini, coetanei, vicini di casa, vecchi compagni di scuola o di giochi, insomma i tuoi compaesani ...i tuoi commilitoni. Poi dopo che ti hanno detto: lo sai chi è morto? E' morto Tizio; hai realizzato chi era; ti sei ricordato il suo volto; e ti ricordi pure che l'hai incontrato due giorni prima e magari ci avevi pure parlato, devi convincerti che non lo rivedrai più, mai più. Da quel momento in poi puoi solo sperare d'incontrarlo in Paradiso. Intanto, però, vai a far visita a casa, saluti i parenti, li baci li abbracci e gli stringi la mano, torni a casa; ti vai a preparare per andare al rito funebre e per accompagnarlo al cimitero, il giorno dopo. Se ti era amico lo fai con partecipazione e convinzione e commozione; se non era un amico, ma un semplice conoscente, ci vai lo stesso sennò non ti vedono e può sembrare un'offesa; se, peggio ancora, ti stava sul cazzo, vale la regola del parce sepulto: al funerale devi partecipare lo stesso; metti da parte le incomprensioni e le liti pregresse, le antipatie, e le quintalate di screzi e, in nome della carità cristiana che si deve almeno ai defunti, vai al cimitero, magari facendo anche una faccia triste, contrita, il più possibile adatta all'occasione ferale di cui non ti importa niente. Quel gesto penoso di accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio ormai pare sia rimasto l'unico momento in cui, nei piccoli paesi, si esalta ancora un senso di umana partecipazione alla comunità, un sentimento d'amore, di compassione e di mutualità verso il tuo prossimo evangelico, che tra i vivi e i vivi non esiste più; si sostanzia ormai solo nei rapporti tra i vivi e i... morti. E si, perché la vita nei piccoli paesi non è più quella di prima. E non sto parlando di secoli fa. Sto parlando di soli trenta, quarant'anni fa. Non bisogna andare molto indietro per capire che quella vita non esiste più e con essa non esistono più certi valori, certi sentimenti, certe necessità, certi usi e abitudini che la rendevano peculiare, piacevole, o almeno più sopportabile e, comunque, migliore di quella attuale. Quarant'anni fa la morte di un vecchio era peggio della morte di un bambino, di un giovane o una persona di mezza età: la morte di un vecchio era una vera tragedia comunitaria; era la fine di una lunga storia di vita; era come veder abbattuta una vecchia quercia o un ulivo secolare; era come veder crollare un monumento antico o un palazzo nobiliare per un terremoto disastroso; come vedere distrutto un pezzo d'arte prezioso o un'insostituibile porzione della società. Perché i vecchi erano tenuti in altissima considerazione: per l'aiuto che avrebbero potuto ancora dare in consigli, per i loro ricordi, per la memoria dei fatti, delle storie antiche, dei posti, delle persone. E non solo dalla loro famiglia, ma dall'intera società. Oggi quando muore un vecchio sembra che ci siamo tolti un problema, un peso, un impiccio, un dente cariato. E, per giunta, non avremo più badanti per casa che parlano lingue strane: altro sollievo! "Tanto era vecchio!" si dice e di lui, ne la famiglia ne la società, rimpiangeranno niente. Nemmeno la pensione, intascata intera dalla ingombrante e indiscreta badante rumena. Oggi in paese non muoiono più tanti piccoli. Prima ne morivano di più: ed erano tragedie strazianti, che segavano le ginocchia alla comunità. Il morale dei paesani si risollevava a fatica solo dopo molte settimane. Nel cimitero del mio paese c'è una sezione dedicata alle bare bianche. Sono anni, forse decenni, che non muore più un bambino. Per fortuna. La medicina ha fatto enormi progressi. Le malattie infantili non sono più mortali (da noi) e possono essere diagnosticate precocemente, alcune tra le più gravi anche prima della nascita. La vita si è allungata, e i bambini, che sono sfuggiti alla morte precoce, diventeranno adolescenti, poi giovani, poi adulti e forse vecchi. E quando saranno diventati grandi e avranno messo su famiglia si ammaleranno e moriranno più tardi, magari di cancro, di cuore o di diabete, ma potranno almeno dire di essere venuti al mondo e di aver vissuto qualche decennio. A pensarci bene una persona che vive fino a 80 anni, che può essere considerata una bella età ma non certo un'età veneranda, ha vissuto solo 960 mesi, circa 28.800 giorni, più o meno 700.000 ore. A pensarci bene mica poi così tanto! Ma, sapete una cosa? Vivere e morire in paese, non è poi così diverso che vivere e morire in qualsiasi altro posto del mondo."













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