sabato 20 giugno 2015

I paesi, meglio abbandonarli che violentarli!

Metto qui un abbondante brano, estratto dal mio libro:
Cronache dal piccolo borgo della pietra millenaria.


I paesi è meglio abbandonarli che violentarli!



   La gente del mio paese si può distinguere, fondamentalmente, in due grossi gruppi: quelli che hanno (ancora) qualche speranza; quelli che la speranza l'hanno persa (definitivamente o quasi). Quelli che hanno perso la speranza, definitivamente o quasi, sono facilmente individuabili e possiamo facilmente capirli. Sono per lo più individui anziani, quasi sempre di sesso maschile, ultra settantenni, spesso già pensionati, emigrati che si sono ritirati al paese; sono disillusi e nichilisti (anche se non sanno che significa); non credono più in niente: in Dio, nella politica, nella modernità, nei giornali, in quello che dice la televisione (come biasimarli?); stanno spalmati sulle panchine in piazza o nella villa comunale, dove fanno i filosofi, o gli opinionisti un tanto all'etto; parlano solo del passato, mai del presente, tanto meno del futuro; quello li condurrebbe solo alla tomba; mettono in campo i loro ricordi, li montano, li smontano, li rimontano, li sciorinano, spesso sono ricordi vecchi, che risalgono a 40-50 anni fa (sennò che ricordi sarebbero?); del presente non gliene frega niente; vanno solo a prendere la loro pensione, spesso misera, qualche volta doppia, se hanno lavorato qualche anno anche all'estero (in Germania, Svizzera o Belgio, nelle miniere di ferro o di carbone) i primi cinque giorni di ogni mese (in ordine alfabetico) e, finché la Fornero lo permette, tirano a campare. Agiscono solo attraverso le loro funzioni vitali primarie: aspettando solo di mangiare a mezzogiorno, di defecare e di ...morire. Quelli che la speranza non l'hanno (ancora) persa sono per lo più giovani (ovviamente); studiano quasi tutti all'università fuori, si sono tutti inurbati. Oggi non esiste che l'università si faccia da pendolari come la facevamo noi negli anni '70. Certe volte svegliandosi assai presto - alle cinque d'inverno è ancora notte - chiedendo un passaggio a un operaio della Ginori di Gaeta, per poter prendere il treno locale delle 6,15 alla stazione di Formia e trovarsi a camminare lungo i vialoni di Castro Pretorio, per raggiungere La Sapienza, nella nebbia gelata di Roma, alle otto del mattino, in orario per la lezione del cattedratico di turno. Adesso, se si sceglie di studiare fuori all'università - a meno che non sia a Cassino: che dista 15 chilometri, e lì ci si va con l'auto di papà  - che sia Roma, o Napoli, Pisa o Perugia o Camerino o Bologna, ovunque, ti devi affittare una stanza e stare fuori 300 giorni l'anno. Quelli che non hanno perso la speranza (pare) sono anche le persone, non ancora pensionate e che non studiano all'università, ma che lavorano al paese o anche fuori, e poi la notte tornano a dormire tutte nelle loro case al paese. Il famoso paese ...dormitorio. E, siccome, escono presto la mattina e tornano la sera tardi, tanto stracchi da andare a letto con in pancia solo una tazza d'orzo caldo o una zuppa di latte e caffè, sembrano auto-esiliati dalla vita sociale (vita sociale? parola grossa!), non li vedi mai. Potresti vederli la domenica mattina, in mezzo alla piazza, all'uscita della messa cantata, se andassero in chiesa, ma dovresti andarci anche tu. E la gente non va nemmeno più in chiesa, nemmeno nei paesi. La messa cantata della domenica era gremita di gente, non ci si entrava: adesso le prime file dei banchi sono occupate dai ragazzini che fanno la preparazione alla prima comunione, altrimenti l'immensa navata della chiesa di Santa Margherita sembrerebbe vuota. Altrimenti, per vedere i ...desapercidos, non ti resta che aspettare le ferie d'agosto. Quelli che (più o meno apparentemente) non hanno (ancora) perso la speranza sono gli imprenditori, i professionisti, i commercianti, gli artigiani, o comunque tutte quelle persone che hanno le loro attività al paese o con sede nel paese ed interessi nel paese e anche fuori. Loro la speranza ce l'hanno incorporata. Devono averla per forza. Anche perché, se quelli avessero persa la speranza, o le speranze, tirerebbero i remi in barca e farebbero come gli amici pensionati. La loro attività non avrebbe più senso. A pensarci bene qualcuno del secondo gruppo lo fa già, ma non ammetterebbe mai pubblicamente di aver perso la speranza, non lo direbbe mai apertamente come, invece, fanno quelli del primo gruppo. Allora fa finta di niente anzi, fa finta di averla (ancora) la speranza, e tira avanti. Ingannando se stesso, prima degli altri. Ma quello che a me pare più grave è che certe volte la speranza sembrano averla persa anche certe mamme che vedo spingere per strada, con aria afflitta e nulla affatto felice, anzi rassegnata, il passeggino con la loro speranza ...dentro. Oppure certi ragazzi con i jeans a vita bassa che trascinano il loro culo basso per strada, spingendosi a calci e pugni senza sapere come altro occupare il loro tempo. Ma di quale Speranza stiamo parlando, quando ci chiediamo chi l'ha conservata e chi l'ha persa? La domanda è legittima, dal momento che la Speranza, quella con la esse grande, è una, ma le speranze, anche le più piccole, possono essere tante. E ciascuno può avere, anzi deve avere, legittimamente, la sua Speranza grande e/o le sue speranze piccole, e coltivarle entrambe. A me pare che la Speranza (generalizzata) di cui stiamo parlando, possa essere divisa a metà, o se preferite, raddoppiata o moltiplicata per due o per tre: 1 - che il paese non muoia, ma sopravviva, anche tra mille difficoltà; 2 - che il paese diventi, finalmente, un paese normale; 3 - che il paese rifiorisca, come recita anche lo slogan della Pro-loco. 
Le speranze più piccole, contenute tutte in quella più grande, sono molte, ma potrebbero essere riassunte in una breve lista. Cioè, che il paese possa diventare un posto dove: - la gente viva in pace, in perfetto equilibrio e simbiosi, con se stessa e con gli altri compaesani; - ci si interessi alle condizioni del prossimo sempre, non solo quando siamo chiamati ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, al cimitero; - non ci si rivolga al nostro prossimo solo quando ci interessa avere o ricevere qualcosa da lui, e poi disinteressarci dei suoi bisogni e finire per ignorarne anche l'esistenza; - non esistano (solo) bisogni individuali, anzi, esistano pure, ma con essi convivano e siano ugualmente importanti, anzi preponderanti, i bisogni collettivi, quelli di tutti e non di uno solo, quelli di tutti i cittadini e dell'intero paese; - non esistano più o vengano cancellate per sempre incomprensioni politiche radicate nei decenni e drammaticamente stranianti; - l'economia ridiventi in qualche modo "autarchica" e si ricominci a pensare, come una volta, che una lira quando ha attraversato i confini del paese, lo avrà fatto definitivamente e non tornerà più indietro; - si ricominci a collaborare gli uni con gli altri senza pensare, come avviene adesso, che tutti possono bastarsi e che nessuno ha bisogno di nessun altro, anzi può farne tranquillamente a meno; - si possa riscoprire il gusto di mettersi al servizio della propria comunità gratuitamente e non per arricchirsi o, comunque, per migliorare la propria posizione economica o sociale; - non si sia concorrenti l'uno contro l'altro, ma tutti, ciascuno per la propria parte, concorrano a migliorare realmente il paese; - non ci siano signorotti innominabili che fanno il bello e il cattivo tempo, come nei secoli bui del medio-evo; - non regnino il perbenismo, l'ipocrisia e l'egoismo; - negli animi della sua gente non alberghino solo invidia e risentimento; - si viva ogni giorno religiosamente, come se si andasse a una processione dietro al santo, con umiltà, rispetto e riflessione; - anche chi è ancora affetto dalla cd. sindrome del suddito, si curi, cerchi di guarirne una volta per tutte e si emancipi, rassegnandosi all'idea che i signori da servire non esistono più; - le parole d'ordine della comunità diventino solo due e molto semplici: Mutualità e Cooperazione. La Speranza è una, grande, molto grande, ma può contenere tante altre piccole speranze. E' molto importante nutrirle, innaffiarle come fossero tante piccole piante; farle crescere, fortificarle, accudirle. E' importante sapere che se il terreno intorno si inaridisce anche le nostre speranze possono appassire. E, se appassiamo noi, anche le nostre speranze moriranno con noi. E, in ultima analisi, e come extrema ratio, resto sempre del parere che i paesi bisognerebbe preservarli e difenderli, anche e soprattutto, da certi loro abitanti. 
E, se proprio non ci si riesce ... è meglio abbandonarli, i paesi, che violentarli!

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