domenica 3 dicembre 2017

Che Dio ci liberi.

   La nostra classe politica, amorale o immorale che sia, è esattamente quella che una società disinteressata, sbrindellata e affaristica come la nostra riesce attualmente ad esprimere. 
In politica i vuoti si colmano automaticamente; le poltrone si occupano per il fatto stesso di esistere. 
Quelli che oggi competono sono individui senza scrupoli, quasi mai, e tranne qualche rara eccezione, fortemente motivati dall'idea di bene collettivo. 
Per lo più sono individui miopi, incolti, ruffiani, indegni, senza programmi o con l'unico obiettivo di modificare la loro condizione economica. 
E, soprattutto. si annidano in tutti i partiti. 
Un solo esempio: ultimamente in Ciociaria è stato nominato alla presidenza del SAF dove si richiedeva almeno un ingegnere, un semplice geometra, un figlio d'arte, senza arte e ne parte (direbbe Berlusconi) militante nel PD, ex PCI, ex PDS, ex DS, che si è dovuto dimettere dalla carica di cons. reg.le. SIC! 
E lo stesso - immagino - succede facilmente e quotidianamente in tutta la nazione. 
Che Dio ci liberi.
E prendiamo ancora, sempre in Ciociaria, il caso della Ideal Standard, la fabbrica di sanitari sita a Roccasecca (FR) che rischia di chiudere per delocalizzazione o perché farà affari con la Cina.
I bravi politici locali compreso il presidente della Provincia (ma non dovevano essere abolite?) fanno la corsa per esprimere solidarietà ai lavoratori. 
Ma la solidarietà ai lavoratori la possono esprimere gli altri lavoratori, i cittadini, e tutti quelli che non hanno responsabilità dirette nella mala gestione aziendale e che non esercitano - perché non è loro compito - alcun controllo sull'economia del territorio. 
Non possono esprimere solidarietà ai lavoratori e lavarsi le mani sulla loro sorte e sulla fine della loro occupazione i politici e gli amministratori locali, ancora meno i politici nazionali che non hanno mai costruito uno straccio di piano industriale. 
Dai politici si pretende di più e non lo fanno. Anzi non fanno niente, nemmeno il minimo sindacale di conservare quel poco che resta. 
In Ciociaria, poi, siamo rimasti all'epoca di Andreotti e dell'Austostrada del Sole. Sic!
Che Dio ci liberi.

mercoledì 22 novembre 2017

Io penso onestamente...

Io penso, onestamente, che oggi in Italia non ci sia nessuno, ma proprio nessuno, che possa, a buona ragione, lamentarsi dell'andazzo; non ci sia nessuno che abbia il diritto di urlare la propria rabbia contro la corruzione, contro la mala-politica e la mala-amministrazione; non ci sia nessuno che possa lamentarsi per la sporcizia e lo schifo delle amministrazioni dei piccoli paesi come delle grandi città. Io penso, onestamente, che noi tutti abbiamo, chi più chi meno, responsabilità o anche solo una generica "culpa in vigilando", perché non abbiamo denunciato un fatto di malaffare, anche un solo fatto di cui saremmo pure venuti a conoscenza, perché tutti prima o poi ne siamo, anche solo una volta, venuti a conoscenza. Io penso che tutti o quasi tutti siano compromessi e che, se anche non lo avessimo fatto noi direttamente, per i nostri interessi o per gli interessi di un parente o di un amico, almeno una volta abbiamo avuto la notizia di qualcuno che si sia rivolto a un sindaco intrallazzatore, a un direttore di banca corrotto, a qualche dirigente d'ufficio pubblico, a qualcuno che potesse qualcosa nelle stanze del potere o che abbia avuto accesso diretto o indiretto a quelle stanze. Il malaffare, la corruzione, l'interesse privato in atto pubblico o anche solo il... "non preoccuparti! Ci penso io, ho un amico" è sistemico e generalizzato; non è più un problema di persone, né di partiti politici, è un problema generale della nostra società che ne è interamente infettata. Abbiamo voglia noi ad azzuffarci come se stessimo facendo il tifo allo stadio durante la disputa di un derby stracittadino. Mi dispiace dire l'ovvio e anche ricordarlo ma qui non siamo all'Olimpico per Lazio-Roma e nemmeno a Milano per Inter-Milan. Noi continuiamo a litigare a "fare il tifo" per i 5-Stelle o per il PD, per Forza Italia o per la Lega, per Fratelli d'Italia o per SEL, inalberandoci e prendendo cappello, gli uni contro gli altri ogni volta che uno dei nostri avversari sbaglia, ogni volta che viene raggiunto da un avviso di garanzia o, addirittura, viene arrestato e incarcerato. L'altro giorno un mio conoscente mi ha mandato elegantemente "affanculo" per delle affermazioni che attenevano semplicemente alla nostra opposta visione delle questioni politiche. La verità è una, ed è una sola, ed è anche molto amara: sembra non ci sia più nessuno (o, quasi nessuno. Ed uso il quasi per pietà) in Italia che, una volta raggiunto un certo qual tipo di potere - dall'amministratore di condominio al deputato; dal preside al direttore generale di un ministero; dal capo dei vigili urbani del paese di checazzonesò al direttore di una filiale di una bancarella di provincia - che non usi quel potere a fini privati e non pubblici. Non c'è nessuno che si faccia più il minimo scrupolo di usare quel potere per tirare su qualche liretta per lui, per ottenere qualche vantaggio personale per se o per i suoi parenti o per gli amici e gli amici degli amici, per crearsi una pletora di sottopancia da scatenare per una campagna elettorale o per un consiglietto di amministrazione o per farsi regalare il Suv nuovo o per farsi fare la facciata della villetta gratis. Questo quando va bene. Perché in alcuni casi i vantaggi personali, a danno dei bilanci societari, dell'erario o della collettività, sono quantificabili in migliaia di euro, come nel caso di Scajola che si trovò intestato un attico con affaccio sul Colosseo "a sua insaputa" o come l'ultimo caso di Marra che ha avuto uno sconto sulla casa di ben 500.000 euro. Non passa giorno che i mezzi d'informazione non diano la notizia di un arresto, di un fermo, di una indagine per corruzione, interesse privato in atti pubblici, peculato e altri reati economici, nei confronti pi personaggi più o meno famosi, più o meno facoltosi, più o meno impegnati politicamente. Facciamo quindi tutti un bel MEA CULPA. Facciamo tutti un esame delle nostre coscienze sporche, evitando di tirare la croce sul vicino. Ricostruiamo il nostro senso civico. Solo così potremo sperare in una futura, possibile, non utopistica Italia migliore. sic stantibus rebus...

smr


sabato 28 ottobre 2017

La civiltà dell’immagine, il diritto d’informazione e la banalizzazione della violenza.


   Ieri mattina, mentre ero alla guida, ascoltando la radio, pensavo a una frase sinistra che ricordavo di aver ascoltato nel film "Il settimo sigillo". Una frase apocalittica, che fa venire i brividi a chiunque l'ascolti. A sentire quelle parole mi si rovesciava nella testa l'antico eppure eloquente aforisma di Confucio: "Vale più un'immagine che mille parole." Anche se, mentre l’ascolti, non vedi niente, come oggi usa in TV, non puoi fare a meno di lavorare di fantasia; non puoi fare a meno di immaginare la scena che viene raccontata e tutto il dolore e la violenza in essa espressa, espressa nelle parole orrifiche che stai ascoltando.
La frase del film recita così: “A Farjestad tutti parlavano di sinistri presagi e di altre orribili cose. Due cavalli si erano mangiati l'un l'altro nella notte, e nel cimitero si erano scoperte le tombe, e i resti di cadaveri si erano sparsi dappertutto. Ieri pomeriggio sono stati visti quattro soli nel cielo.”
Chi la proferisce fa riferimento agli oscuri presagi di una fine del mondo imminente, annunciati da una immane pestilenza - la morte nera - che sta decimando la popolazione d'Europa intorno al 1350. Bene, quella frase, dicevo fra me e me ieri mattina, è molto eloquente e significativa. Ed è l’esatta antitesi di quanto avviene oggi, nel tempo della civiltà dell’immagine; nell’epoca del diritto d’informazione. 
Essa produce, secondo me, il semplice risultato di “volgarizzare” la violenza, di banalizzarla e, quindi, di neutralizzarla.
E, mentre guidavo, continuavo a pensare: quanto c’è di più diverso, anzi di diametralmente opposto alla banalizzazione del male che oggi la TV produce annunciando le notizie terribili delle stragi dell'ISIS; documentando catastrofi e attentati terroristici; passando sul video, senza soluzione di continuità le immagini di morti ammazzati o di corpi mutilati dalle esplosioni. 
E lo pensavo, ad esempio, anche in relazione alle immagini della strage di Capaci o a quelle ancora più sconvolgenti del crollo delle Torri Gemelle, l'11 settembre del 2001.
E, allora, chiedevo a me stesso “e se, invece di vedere in TV e osservare, con punte di voyeurismo quasi compiaciuto ma subito dopo distratto, le immagini delle violenze che ogni giorno si verificano in ogni angolo del mondo, ci limitassimo ad ascoltare una voce sconosciuta e lontana, e senza volto, che ce le racconta, che narra la violenza, senza avere la possibilità di vedere il volto di chi parla, come alla radio, questo non sarebbe più efficace? Questo “non vedere”, questo “solo ascoltare” non potrebbe aiutarci ad elaborare meglio la immane portata di certi avvenimenti? Intendo, ovviamente, senza la banalizzazione delle immagini viste e riviste mille volte, che finiscono per svuotare di significato qualunque gravità e qualunque intollerabile scena, anche la più rivoltante o irritante?
Riflettiamo un attimo, quindi, sull'uso distorto che la TV fa della violenza e del sangue umani; analizziamo l’utilizzo anti-propedeutico, non sussidiario, giustificato esclusivamente dalla necessità di costruire audience, del giornalismo televisivo.
Le immagini del sangue, dei corpi straziati, di persone urlanti di dolore e di paura, anche versate a profusione nelle nostre case, anzi, proprio perché versate a profusione, senza soluzione di continuità, davanti ai nostri occhi finiscono per esaurire contestualmente la loro forza; finiscono per perdere la loro capacità d'impatto; per fallire il compito e l'obiettivo che si prefiggono, che dovrebbero avere: cioè di insegnarci ad esecrarle e a prenderne le distanze. 
Quelle immagini rendono inutili loro stesse, si rendono addirittura dannose. 
Si! Dannose. Perché ci fanno abituare ad esse; ci inducono a conviverci. Replicate all'infinito non ci insegnano più niente. Perdono anche il loro piccolo valore didascalico. Non c'è niente di più inutilmente freddo e asettico della violenza, del sangue versato per terra, dei corpi mutilati, delle salme esangui, visti e rivisti mille volte: non insegnano più niente ai vivi. Non ci dicono più niente. Nemmeno ci ammoniscono più. Non hanno più alcun valore, semplicemente.


lunedì 23 ottobre 2017

Ad Alberto, compagno di gioventù.

Ciao Alberto,
l'altro giorno ho saputo che te ne sei andato da questo mondo. 
Improvvisamente. Non so come, né perché. Ma quello, onestamente, mi interessa poco. 
E' pure inutile che ti dica che alla sconcertante notizia, appresa attraverso il social che frequento, sono rimasto basito.
Ora che hai molto da fare, tutto impegnato a salutare i tuoi cari e la tua vita piena, probabilmente il mio nome non ti dirà niente. 
Potrei, forse, smuovere qualche ricordo nella tua testa facendoti vedere qualche mia foto di 40 anni fa. Di quando eravamo giovani,  belli, pieni di speranze e iperattivi. Se avessi buona memoria: se avessi una memoria come la mia certo ti ricorderesti chi sono. 
Ma, come potrei biasimarti per la tua amnesia, se ci siamo incrociati poche volte, per qualche ora appena e quasi mezzo secolo fa? 
Ci incrociammo, che eravamo appena ventenni, nella nostra piccola Coreno, come si incrociano due granelli di pulviscolo atmosferico nell'universo infinito. 
L'occasione, se ora ricordi, fu qualche amico comune, la tua simpatia contagiosa e la comune passione per lo sport, in particolare, per la pallacanestro. 
E come poteva essere il contrario se tu venivi da Varese, la culla del grande basket italiano? 
Anzi ti stupì molto, e molto positivamente, di trovare al sud, nel tuo paesello d'origine, una agguerrita squadretta di coetanei appassionati, aggressivi e mal vestiti che si era appena iscritta a un torneo estivo. Con i tuoi terzi tempi devastanti, ci avresti aiutato a vincerlo. Ti ricordi ora della enorme coppa dorata che ci diedero in premio gli odiati ausoniesi? Hahahahahaha!!!!!!
Ma, se non sbaglio persona, ti piaceva anche il tennis. Almeno quanto piaceva a me.
E, un altro paio di altre volte ci trovammo a incrociare le nostre vecchie Slazengher di legno nel campetto che l'amministrazione aveva realizzato agli Stavoli, alla Scuola Elementare. 
Era verde e stretto, quasi senza out, e ti lamentavi perché i tuoi recuperi prodigiosi, i tuoi formidabili allunghi laterali, le tue armi vincenti, erano quasi impossibili. 
E giù teorie interminabili bestemmie nel tuo curioso dialetto ad ogni quindici perso senza colpa. 
Adesso, dall'espressione che scorgo sul tuo viso disteso, scommetto che ti sei ricordato chi scrive queste due righe per te. 
Si! Sono proprio io. Sono Salvatore - gli amici mi chiamavano Totore - il figlio dell'Americano, il maestro Antonio Ruggiero. 
Era, anno più anno meno, coetaneo di tuo padre. Anche loro, i nostri amati padri, se ne sono andati da un po'. Se sei arrivato in Paradiso e sei fortunato potrai vederli e salutarli. Probabilmente in questo preciso momento stanno giocando a pallone nelle nuvole. Così passano il tempo: facendo quello che gli piaceva di più, oltre a passeggiare sulle nostre montagne. 
Che altro posso dirti? Niente di più di quello che ho detto. 
Anzi no. Un ultima cosa voglio scriverla. Avrei preferito incontrarti ancora, anche solo una volta, da attempati signori quali entrambi siamo diventati, mentre passeggi nei vicoli del nostro amato paesello, anche con un'espressione seria, magari anche taciturna, perfino triste, piuttosto che vederti fintamente sorridente nella foto che un caro amico ha messo a corredo del tuo necrologio.
A questo punto può confortarci solo il pensiero che, in questo crogiolo di drammi oscuri e di commedie tragicomiche che ci ostiniamo a chiamare Vita; in questa Partenza triste; in questo Commiato ineluttabile che, prima o poi, tocca a tutti noi, tu, in fondo, ci hai solo preceduti.
Ciao ancora Alberto, compagno indimenticato di pochi ma felici pomeriggi di gioventù. 
Che il viaggio eterno ti sia lieve.



sabato 23 settembre 2017

Il mio Autunno

Sul fondo di una conca di pietra scavata/
marcisce l'autunno di mille foglie ammassate/
nell'acqua piovana raccolta dal vento/
ha trovato la pace il ricordo di un inverno mollo/
il villico aspetta che la primavera gentile gli soffi la nuca/
come un delicato battito d’ali di farfalla/
fremono nella trepida attesa i dolci mandorli in fiore/
e le ragazze fresche che si sciolgono in languide risa/
vanno con la voglia di mare appiccicata alla pelle/
chi aspetta che esplodano di giallo le pigre ginestre sul colle/
chi si appronta a vedere come il sole incendia tetti di coppi e di pietre solagne/
alle otto di sera.





La copertina del mio libro di poesie che contiene la poesia pubblicata: Il mio Autunno.


giovedì 17 agosto 2017

Il mistero dell'antico tempio romano scomparso.

Le tre rare foto in b/n che corredano il pezzo sono state ritrovate nella biblioteca di un appassionato di storia antica e di archeologia locale qualche settimana fa. E sono state scattate presumibilmente nel corso della II Guerra Mondiale da un soldato alleato. Esse raffigurano le rovine scomparse del Tempio della Dea Artemide, situato presumibilmente (e come si può evincere dall'angolazione che consente di vedere sul lato sinistro la mole inconfondibile del Monte Fammera) nei pressi dell'attuale città di Minturno (LT) ma abbastanza distante dall'antica Minturnae e dalla odierna zona archeologica. Si è arrivati con buona approssimazione alla attribuzione divina e alla datazione, risalente intorno al V° secolo a.C., perché le colonne del tempio scomparso ricordano quelle dell’Artemision di Siracusa e prendono a modello le peculiarità architettoniche del famoso tempio di Artemide ad Efeso, in Turchia. Allo stesso modo le basi su cui poggiano le colonne mostrano affinità stilistiche con il tempio di Hera a Samo (Grecia).


Il tempio di Artemide nostrano era di notevoli dimensioni. Secondo le notizie che abbiamo originariamente copriva un area di ca. 1.475 mq essendo lungo 59 m. e largo 25, con sei colonne sulle due parti frontali e 14 (o 16) lungo i fianchi. L’ingresso dell’edificio (il pronao), era rivolto ad Oriente, la parte terminale (l’opistodomo), era orientato verso Occidente. Non è riscontrabile la presenza di un naòs, bensì quella di un sekos aperto, mentre il peristilio era coperto con tegoloni di terracotta, le cui parti terminali erano ornate con eleganti figure policrome.Purtroppo il tempio risulta attualmente (e incomprensibilmente) scomparso. 


Le ultime notizie certe risalgono all'epoca delle foto in nostro possesso. 
Varie e diverse sono le ipotesi fatte intorno alla sua scomparsa: potrebbe essere stato completamente interrato da qualcuno interessato più alla speculazione edilizia che all'archeologia; oppure potrebbe essere stato smontato incassato e spedito via mare a qualche ricco collezionista straniero; oppure ancora potrebbe essere crollato semplicemente e coperto da sterpaglie che ne impediscono la localizzazione. Fatto è che se fosse ritrovato potrebbe costituire per l'intero comprensorio il sito archeologico di maggiore importanza ed interesse. 


Voglio rivolgere un accorato appello a tutti coloro in grado di dare notizie certe che possano aiutare nella localizzazione del tempio. 
Prego pertanto chiunque possa aiutare a contattare la sovrintendenza ai beni culturali archeologici o le autorità locali. 
GRAZIE!

martedì 8 agosto 2017

Disastri minerari: sono tutte tragiche storie di emigrazione.

   Il disastro di Marcinelle avvenne la mattina dell'8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in BelgioSi trattò di un incendio causato dalla combustione d'olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. L'incendio, sviluppatosi inizialmente nel condotto d'entrata d'aria principale, riempì di fumo tutto l'impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 275 presenti, in gran parte erano emigranti italiani

   Ma l'incidente è ''SOLO'' il terzo per numero di vittime tra gli italiani all'estero dopo i disastri di Monongah e di Dawson. E, se di Marcinelle si ricorda qualcuno ogni tanto, degli altri due non si ricorda nessuno, mai.

   Allora quello di Monongah lo ricordo io, nel mio libro: "Storie dalla Valle del Liri"



"...Stavolta la storia tragica che arriva dalla Marsica non è di guerre, né di terremoti, ma è una storia tragica di emigrazione. Canistro ha pagato un triste tributo al fenomeno migratorio: erano provenienti dalla cittadina alcuni dei lavoratori rimasti vittime del più grave disastro minerario della storia degli Stati Uniti, avvenuto il 6 dicembre 1907 a Monongah, nella Virginia Occidentale. è il più grave disastro minerario della storia degli Stati Uniti. L'incidente rappresenta anche una delle più gravi sciagure minerarie mondiali: morì circa un terzo dei tremila abitanti di Monongah. Delle 171 vittime "ufficiali" italiane un centinaio erano emigrati da località molisane, una quarantina erano calabresi e una trentina abruzzesi di Canistro e di Civita d‟Antino."

giovedì 13 luglio 2017

Oggi Ingmar Ernst Bergman avrebbe compiuto 102 anni.





Oggi sarebbe stato il compleanno di Ingmar Ernst Bergman.
Il più grande regista di tutti i tempi è nato il 14 Luglio del 1917 a Uppsala, una cittadina a nord di Stoccolma, in Svezia.
Per ricordare questa data importante metto qui la presentazione, da me firmata, del mio libro "Il Genio di Uppsala". Il più completo ed esaustivo (circa 330 pagine) tra tutti quelli che ho dedicato al grande cineasta.
Chi avrà la costanza e la curiosità di leggerlo si farà anche un'idea della sua grandezza.



Presentazione
La ragione, direi anzi la necessità, che ha costituito la scaturigine primordiale di questo libro, deriva dalla volontà di sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni che da molto, troppo tempo accompagnano il cinema di Ingmar Bergman. L'autore non ritiene accettabile, infatti, la posizione di rifiuto - quasi pregiudiziale - che molte persone (anche alcune di quelle che si autodefiniscono colte) assumono davanti alla pachidermica filmografia di Bergman, accampando come giustificazione, assai generica e frettolosa, la ragione secondo la quale i suoi film, sovente e tranne qualche rara eccezione, siano tristi, difficili da capire, noiosi, se non addirittura pericolosa causa di depressione psichica. Ritengo, quindi, partendo dal semplice assunto che tutti noi finiamo per amare solo ciò che conosciamo, rifuggendo di conseguenza, da tutto ciò che ci è ignoto, sia importante divulgare, spiegandolo a chi lo ignora (appunto), il grande cinema di Bergman, e che la diffusione e la conoscenza siano un ottimo viatico alla piena e profonda comprensione delle tematiche in esso contenute. Sicuro che - come mi piace dire - un mondo popolato da un gran numero di bergmaniani sarebbe certamente un mondo migliore di quello sul quale viviamo. A proposito del grande cinema di Ingmar Bergman, l'autore di questo saggio ha maturato, da tempo e nel tempo, alcune opinioni personali, che vuole qui rapidamente elencare e spiegare all'eventuale spaesato lettore. Esse sono maturate in un quarto di secolo di appassionata ricerca, di studio, informazione e documentazione sull'opera di quello che (quasi) universalmente viene considerato: the best director ever. Ma, l'autore deve pure ammettere che, forse, quelle opinioni non possono essere considerate esclusivamente personali, nel senso che esse potrebbero essere agevolmente condivise da tutti coloro che Bergman lo amano, almeno quanto lui. Tuffarsi nella filmografia di Bergman è come effettuare una discesa nel mallstroem dei sentimenti umani; significa essere rapiti e restare imprigionati in una vera e propria tempesta di stati d'animo contrapposti, spesso contrastanti, spesso inesplicabili.
Prima opinione
Ingmar Bergman ha, in qualche modo, legato la sua fama globale ai cineforum. Anzi, si può affermare, senza timore di essere smentiti, che il suo cinema rappresenti il cinema da cineforum per antonomasia. Nel senso di cinema d'autore, ovviamente. Anche chi scrive queste note, come molti altri appassionati cinefili, ha infatti iniziato a vedere i suoi film più famosi e importanti (Il settimo sigillo; Il posto delle fragole; La fontana della vergine; e poi tutti gli altri girati negli anni '50 e '60), nelle proiezioni organizzate da una assai volenterosa associazione di cinefili, nel paese in cui è nato, vive, e attualmente lavora. Certamente, di quei film non capì tutto subito, anzi, probabilmente, all'epoca gli sfuggi la grossa parte del loro profondo significato. Ma nel poco o tanto - non so - che gli rimase, che finì per sedimentarsi nella sua mente di quelle visioni partecipate, ovviamente ancora non supportate da saldi parametri culturali - assenti nel suo retroterra culturale ancora in via di formazione - era nettissima la sensazione di aver assistito ad uno spettacolo che recava in se qualcosa di grandioso visivamente, artisticamente, filosoficamente, ontologicamente. Pur versando nella ignoranza più crassa, infatti, egli si rendeva perfettamente conto che i temi trattati, i problemi affrontati, i serrati dialoghi tra i protagonisti, le robuste sceneggiature, i continui ed eloquenti riferimenti culturali, filosofici e religiosi, la perfezione tecnica delle riprese, le interpretazioni stratosferiche degli attori, insomma il sontuoso impianto complessivo di quei film riconduceva ai grandi interrogativi esistenziali che già da qualche anno risuonavano nella sua coscienza e nella sua anima. Chi siamo? Dove andiamo? Qual'è il significato della nostra esistenza terrena? Chi ci ha creati? Esiste davvero un Dio? Ci sarà mai data l'opportunità di vederlo? Interrogativi tutti destinati a restare - ahimè! - senza risposte esaustive, né definitive, ma che in modo semplice avevano almeno l'effetto immediato di sollevare il popolo bergmaniano dalla banalità, di innalzarlo dalla apparente inutilità della sua vita quotidiana, elevandolo verso il trascendente, o almeno verso un'idea di trascendenza che tutti, nella loro mente, hanno e si costruiscono.
Seconda opinione
La seconda opinione è legata indissolubilmente alla estrema coerenza, quasi pervicace e monocorde, pur nell'ammissione della sua estrema complessità, dei temi e degli argomenti trattati ed eviscerati da Bergman nei suoi film. Dal primo all'ultimo di una serie di più di 50 film girati in più di 50 anni di attività il Maestro non ha mai perso di vista le grandi problematiche esistenziali; si è sempre occupato dei problemi ontologici dell'uomo moderno, dei suoi sentimenti, delle sue paure, delle sue psicosi, delle sue angosce, dei suoi demoni. Come uno speleologo si è calato nei meandri dell'anima umana, negli angoli oscuri della psiche e ha posto davanti all'obiettivo della sua speculazione tutti i più grandi quesiti filosofici dell'uomo storico. Ha usato il suo cinema per porsi una notevole quantità di domande; e per cercare, al contempo, delle risposte plausibili a queste domande. Alcune di esse sono venute, altre sono mancate, più o meno clamorosamente. Tuttavia si può dire che l'obiettivo di Bergman, per sua stessa ammissione, non era certo quello di dipanare il mistero insondabile della vita e della morte, bensì quello molto meno ambizioso e molto più umano di tentare, attraverso la sua arte, d'intavolare un inizio di discussione; di tentare un approfondimento; di fornire degli abbozzi di spiegazione; di avviare su una via di conoscenza che potesse permettere di avvistare almeno una flebile luce in fondo al tunnel; di istradare su un sentiero di esperienza, possibilmente meno impervio e scosceso di quanto non potesse apparire senza i suoi preziosi insegnamenti.
Terza opinione
Ingmar Bergman ha avuto, tra le innumerevoli altre, la indubbia capacità di contornarsi di attori e attrici straordinari. Senza di loro, cosa sarebbe stato il cinema e, soprattutto, cosa sarebbe stato il suo cinema? Avrebbe avuto la stessa straordinaria forza espressiva, la stessa straordinaria efficacia? Cosa sarebbe stato della sua arte se Bergman non avesse avuto sottomano e non avesse saputo trovare, istruire, plasmare e far crescere professionalmente e umanamente attori e attrici del calibro di Max von Sidow e Gunnar 7 Bjornstrand; di Bibi Anderson e Liv Ulman; di Ingrid Thulin e Ulla Jacobson? Oppure, se non avesse potuto sfruttare per la rappresentazione delle sue complesse ed articolate sceneggiature interpreti che erano o che sono diventati, anche per merito dei suoi film, dei veri e propri mostri sacri del cinema mondiale? Mi riferisco, ovviamente, a Viktor Sjostrom, Erland Josephson, Nils Joffe, Ingrid Bergman, etc. . Bergman stesso, parlando delle sue sceneggiature, dei suoi testi scritti per il cinema, confessa: “...quando l'attore, alla fine, s'impossessa delle sue parole e le trasforma in espressioni sue proprie, lui stesso finisce per perdere il contatto con il significato originale delle battute. Gli artisti riescono a destare nuova vita in scene piene solo di chiacchiere”. Quarta opinione
Ingmar Bergman, per sua stessa ammissione, ha usato il suo cinema, la sua arte, i suoi film anche come normalissimo, prosaico strumento per raggiungere una fama globale imperitura e per assicurarsi l'agiatezza economica (se non una vera ricchezza); che spesso gli sono mancate: si pensi, ad esempio, al suo disastroso inizio di carriera. Ha usato - anche di questo particolare veniamo a conoscenza per sua stessa ammissione - i film come vere e proprie sedute di auto-psicanalisi. Ha lavorato nel cinema trasmettendo, attraverso le sue sceneggiature e le sue riprese, agli attori le sue proprie angosce, le sue proprie paure, le sue proprie psicosi. Perché essi interpretando i suoi personaggi, le trasmettessero allo spettatore. A noi. Non ha mai fatto mistero di avere accumulato nel corso della sua infanzia problematiche psicologiche, derivanti dagli strani rapporti intrattenuti, suo malgrado, con la madre e col padre. A proposito di tale sofferto rapporto famigliare, egli stesso ammise: “Immagino che i più forti impulsi a girare Il posto delle fragole siano derivati proprio dal dissidio coi miei genitori. Io mi ritraevo nella figura di mio padre, cercando spiegazioni alle amare controversie con mia madre. Credevo di capire di essere stato un bambino non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi... fisica e psichica. Il diario di mia madre ha in seguito confermato questa mia impressione: mia madre era profondamente ambivalente nei suoi sentimenti verso il suo disgraziato, morente bambino”. Ingmar Bergman non ha mai evitato di parlare dei suoi personali problemi, magari preferendo trincerarsi dietro a più opportuni silenzi, oppure dietro al comodo paravento di strategiche omissioni o anche dietro a una artificiosa mancanza di chiarezza. Ha lui stesso messo i suoi estimatori a parte dei piccoli o grandi segreti personali spesso sconvenienti e poco affascinanti, se non addirittura imbarazzanti. Insomma, pur attribuendosi certamente una buona dose di genialità artistica ed ammettendo l'indiscussa grandezza di alcune delle sue opere, non ha mai rifiutato il suo ruolo di uomo storico, pieno di difetti, di essere umano con luci ed ombre, di persona in fondo normale, potenzialmente geniale, ma anche debole e fallibile. Lui stesso ne ha parlato apertamente e scritto altrettanto chiaramente nelle sue varie biografie. A modestissimo avviso dell'autore, anche in questo suo anticonvenzionale, originale ed estroso atteggiamento va ricercata una parte cospicua della sua grandezza.
Quinta e ultima opinione
Nel corso della sua lunghissima carriera cinematografica, Ingmar Bergman ha prodotto una serie di film nei quali ha affrontato direttamente le tematiche religiose; ha espresso ansie e inquietudini della cultura del suo tempo; ha indagato sui sentimenti e sui rapporti interpersonali, intersessuali e interfamigliari; ha, perfino, tradotto in immagini le sue stesse paure personali. Nelle altre sue opere che pure non sembrano rivolte altrettanto apertamente al trascendente, né alla metafisica, si percepisce nel linguaggio e nelle messe in scena allestite dal maestro svedese un retroterra che rimanda alla sua profonda formazione protestante scandinava, alle sue rocciose letture di formazione (soprattutto Strindberg, Ibsen e Kirchegaard) e alla sua solida cultura biblica. Dall'analisi dei suoi film più importanti, si scoprirà che non solo di Dio o del suo silenzio o della sua assenza, si tratta, ma di un rapporto che coinvolge e chiama in causa anche le modificazioni socio-economico-culturali a cui è andata incontro la società in un arco temporale di quasi sessant'anni. Cambiano i riferimenti sociali e quelli culturali, e cambia anche, in un certo senso, l'antropologia che il regista si trova di fronte; evolve, inesorabilmente, la disposizione con cui uomini e donne del nostro tempo sperimentano il proprio incontro con gli altri e la ricerca, eventuale, di una parola trascendente.
Tutti i suoi film contengono importanti connotazioni culturali, religiose, sentimentali, psicologiche, sociali, finanche politiche, in un senso molto lato.
Solo per necessità di informazione, anche sommaria, ne accenniamo di seguito una rapida elencazione:
• I film della fine degli anni '40, gli anni dell'esordio ma anche gli anni del disagio sociale in Svezia e dell'inizio del cd. neorealismo: Crisi (1946), Piove sul nostro amore (1946), La terra del desiderio (1947), Musica nel buio (1948), Città portuale (1948), Prigione (1949), Sete (1949), Verso la gioia (1950), Questo non accadrebbe qui (1950);
• I film degli anni '50, in cui, per primo, Bergman aveva cominciato a fare il punto sulla condizione femminile, sul ruolo della donna nella società moderna e a preconizzare certe sue importanti conquiste sessuali: Un'estate d'amore (1951), Donne in attesa (1952), Monica e il desiderio (1953), Una vampata d'amore (1953), Una lezione d’amore (1954), Sogni di donna (1955), Sorrisi d’una notte d’estate (1955), Alle soglie della vita (1958); • i film, dei primi anni '60, la cd. Trilogia Religiosa, o di Dio, o dell'assenza di Dio. I film del confronto diretto dell'uomo con Dio: Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1963), Il silenzio (1963);
• i film sui turbamenti della psiche e sulla fenomenologia dell'occulto: Il volto (1958), Persona (1966), L’ora del lupo (1968);
• i film della sua adesione ferma e convinta alla battaglia civile pacifista e della conseguente presa di distanza dalla guerra: La vergogna (1968);
• i film, non facilmente dimenticabili, i grandi momenti di una creatività in cui la vera risposta era l’arte in sé (“ars gratia artis”), l'arte alta come così alto in quegli anni ancora il cinema non era stato; i suoi capolavori assoluti: Il settimo sigillo (1956), Il posto delle fragole (1957), La fontana della vergine (1960), Sussurri e grida (1972), Scene da un matrimonio (1975), Sinfonia d'autunno (1978);
• e infine, l'ultima grande tappa della sua lunga carriera, il canto del cigno e testamento poetico autobiografico appunto Fanny e Alexander (1982).


mercoledì 12 luglio 2017

Amerigo Iannacone è morto stamattina. Il mio personale ricordo.

Conoscevo Amerigo Iannacone ma non eravamo amici. Eravamo semplici conoscenti e nemmeno assidui. Tuttavia mi è capitato d'incontrarlo spesso anche alle mie iniziative culturali a Coreno e di salutarlo cordialmente, intrattenendomi con lui a scambiare semplici idee sulla nostra visione della cultura e sulla sua diffusione. Spesso difficoltosa.
Quando veniva era sempre un po in anticipo. Si sedeva in prima fila, per vedere e sentire meglio, la luce era scarsa. Ma, ricordo che non aveva mai alcuna frenesia di intervenire o di prendere in mano il microfono. Quando lo citavo e lo citavo sempre, poeta editore e divulgatore, si limitava solo a fare un saluto, semplice ma cordiale, con la mano e un accenno di sorriso. Lui che per i sorrisi non era famoso.
Amerigo mi invitava sempre alle sue manifestazioni culturali, frequenti, anzi serrate, (reading di poesie, presentazioni dei libri editi da lui con l'Edizioni Eva, corsi di esperanto)  ma io, che ero più giovane ma più pigro di lui, non ho mai coperto i meno di 50 km che separavano Coreno da Venafro.
Al matrimonio di Margherita Agresti, cara amica comune, siamo capitati seduti vicini allo stesso tavolo, anzi di fronte e pure li ho passato tre o quattro ore di piacevole conversazione.
Qualche volta mi è anche capitato di leggere il suo Flugfolio il notiziario letterario, una sua creatura in esperanto a cui teneva tanto.
Infine siamo stati vicini di "pianerottolo" letterario: entrambi sollecitati a scrivere per le rispettive competenze, ci siamo trovati "vicini di pagina", ospitati entrambi nell'antologia del comune amico Dante Cerilli Orpelli Svaniti. Senza sapere che anche lui fosse tra gli AAVV io l'ho citato nel mio contributo paesologico, ricordando una sua poesia paesologica che si riferisce alle sue montagne.
Le stesse montagne che stamattina alle otto hanno assistito impotenti ed incredule, come noi del resto, alla sua dipartita dal mondo dei vivi.



Amerigo non l'ho conosciuto a fondo e me ne dolgo, ma dal poco che ho capito di lui e del suo carattere posso dire che appariva come un uomo pacifico, modesto, pieno d'iniziative e rispettoso di antichi valori e, soprattutto, dei suoi simili. Tutti.

Ciao Amerigo, adesso declamerai le tue poesie tra gli angli. Forse in esperanto. E forse ti capiranno tutti.

Metto qui il mio contributo nella parte che riguarda lui e la sua arte poetica.

"...Ma si può produrre grande poesia paesologica (più o meno consapevolmente)
anche parlando di montagne “indifferenti”, ma che indifferenti non sono (almeno nel
modo in cui lo intendono i marsigliesi quando si riferiscono ai molluschi morti che loro
chiamano appunto: “indifferents”).
Succede quando le montagne (ci) parlano di “volti scomparsi, lavori sofferenti ed
amati, canti spiegati nei campi… fervidi afflati rurali” . A farlo è il poeta-editore
Amerigo Iannacone nella sua poesia Montagne:

Cime che fanno corona
immobili antiche maestose
intorno alla casa modesta
raccontano storie remote
di bimbi con loro in simbiosi
di volti da tempo scomparsi
di lavori sofferti ed amati
di canti spiegati nei campi
di cuori protesi al futuro
di fervidi afflati rurali
di affetti immortali.
Montagne indifferenti
al cosiddetto progresso
al codice binario
ai giorni incalzanti e concitati,
con un refolo di vento
con una nuvola bassa
mandano antichi sussurri
del tempo perduto e rimpianto.

E, a tale proposito, Dante Cerilli, nel numero di Pagine lepine A. XIV - N. 1,
gennaio/marzo 2008, scrive: Caro Amerigo, quello che tu scrivi nella poesia
“Montagne” mi conferma quello che penso della tua spiritualità. Hai scelto la
componente più materiale, maestosa, più grande come le montagne della tua terra per
parlare di ciò che invece è esile, impalpabile, impercettibile se non all’animo delicato
e sensibile che sa amare e patire il vecchio ed il nuovo, il vecchio per la nostalgia di
certezze la cui esperienza è a volte irripetibile, il nuovo per l’ampio respiro che affratella
e che vorrebbe essere respiro di speranza ed amore anche quando la vena della malinconia
intacca perniciosa l’alta mole della “montagna”. Mi pare un ossimoro non linguistico,
questa poesia, ma sostanziale di corpo e spirito. Continua ad abbracciare il tempo la tua
poesia con l’alito caldo del pensiero che oggi anche i tuoi figli possono ingerire."

martedì 6 giugno 2017

Un mio personale ricordo di Roberto Tortora.





Il mio personale ricordo di Roberto Tortora.





   Io e Roberto, per una buona porzione della nostra vita, siamo stati solo cortesi conoscenti, non amici. Ci conoscevamo bene, però, perché lui era un compagno di classe di mia moglie Patrizia e ci eravamo conosciuti personalmente proprio nei primi anni del loro Ginnasio, intorno alla fine degli anni '70. Avevamo continuato a vederci solo saltuariamente. Magari incontrandoci e salutandoci in occasione di qualche festa di compleanno di amici comuni di Formia che avevamo conservato proprio dagli anni del Liceo che anch'io avevo frequentato, qualche anno prima di loro. Le nostre strade si erano poi divise per via del diverso indirizzo di studi: io e Patrizia frequentavamo la Facoltà di Giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma; Roberto aveva prima scelto di immatricolarsi alla Facoltà di Architettura poi, preferendo seguire una sua passione innata per la letteratura, si era deciso a cambiare facoltà, iscrivendosi a Lettere, ma all'Università di Napoli. E questo è pure l'unico motivo per cui non ci siamo più rivisti fino agli anni '90. C'incontrammo un pomeriggio, casualmente, tra gli scaffali di un grande magazzino dove, io e mia moglie, e lui e la moglie, eravamo andati per qualche piccola spesa. I nostri incontri, in verità, erano sempre molto cordiali - devo dire - ma di una cordialità poco più che formale, benché ripetuti quasi annualmente; una volta al cinema, una volta lungo Via Vitruvio, un'altra volta nel negozio per i neonati. Ma quegli incontri non sono mai sfociati in una promessa di frequentazione né - da parte di entrambi - nella conclamazione di una vera amicizia. Per mia moglie il discorso era diverso. Loro due erano stati compagni di classe, ed essere compagni di classe è come fare il militare assieme: è un'esperienza che ti lega per tutta la vita. Le nostre strade erano però destinate a incrociarsi e quei rapporti poco più che formali ad intensificarsi e a rendersi più profondi proprio grazie alla nostra passione per la letteratura e all'amore comune per i libri e per la lettura. Nel 2010 ebbi finalmente la prima vera concreta occasione per invitarlo alla mia rubrica estiva di presentazione di libri e di scrittori: "Incontro con l'Autore" che, da qualche anno, curo e conduco in collaborazione stretta con l'Assessorato alla Cultura del Comune di Coreno. Avevo da poco appreso, dall'ultimo numero de "La Serra" - il periodico di vita corenese diretto dal compianto (anche lui) Tonino Lisi - della presentazione della bellissima raccolta di racconti di Roberto "Quattro quadri per una spiaggia d'inverno", appena pubblicata per i tipi del lungimirante quanto capace editore pugliese Manni. 

Risultati immagini per quattro quadri per una spiaggia d'inverno

Pensai bene, quindi, d'invitare proprio Roberto Tortora alla mia rubrica. Devo dire che, sebbene conoscessi il professore per una persona che non s'infiamma troppo facilmente, sempre misurato e ponderato nelle reazioni, e schivo, quella volta mi sembrò palesemente entusiasta del mio invito, come se non se lo aspettasse; come se, per un eccesso di modestia, lo ritenesse esagerato, non commisurato al suo reale valore. Doveva avere di sé stesso una scarsa stima: ma io, che in seguito ho imparato a conoscerlo bene, sono portato a credere che fosse solo questione di vera sobrietà. Era modesto come poche persone che ho conosciuto. Sobrio come solo le grandi persone sanno essere. A dire il vero e a volerla dire tutta, ero io che avevo temuto un suo diniego; avevo temuto di essermi sopravvalutato e di aver puntato troppo in alto; di aver chiesto troppo ad un giovane autore emergente e già apprezzato e pluri-pubblicato critico letterario. Si dà il fatto che Roberto, quella estate, approdò a Coreno, nella Villa Comunale, dove trovò ad attenderlo una nutrita platea di bibliofili, tutti i suoi allievi ed ex-affezionati allievi dell'ITC di Formia, me - naturalmente -, il preside Nilo Cardillo che parlò di “scrittore vero, letteratura vera, libro vero”, e il mio amico e severo critico letterario, il prof. Dante Cerilli, anch'egli molto conosciuto nell'ambiente ed anch'egli entusiasta del suo libro. Mi confessò, solo molto tempo dopo, che non avrebbe mai accettato di presentarlo se non gli fosse piaciuto veramente e non avesse valutato convenientemente il pregevole valore artistico dell'opera. Anche tra loro due si strinse un'amicizia sincera, piena di significato e alimentata dai comuni intenti e dalla comune passione. Fu resa solo non facilmente praticabile dalla lunga distanza geografica che li separava e dal tempo che non c'è mai. Ricordo che quando comunicai a Dante della morte prematura di Roberto, fu costernato. A stento riuscì a trattenere la sua sincera, viscerale commozione, mi attaccò quasi il telefono in faccia oppure gli cadde dalle mani, forse aveva preferito restare da solo a versare le sue lacrime in onore e in memoria di un collega del quale, in futuro, avrebbe certamente sentito parlare e in modo assai lusinghiero. E del quale non aveva mancato di intuire la gentilezza e qualche afflizione di troppo, dovuta ad un genuino eccesso di sensibilità. L'occasione per "farmi ricambiare - da Roberto - il favore" che gli avevo reso quell'estate, venne l'anno dopo, quando si trattò di cercare un relatore per la presentazione del mio primo libro: "Le stagioni della Lattaia", la mia prima raccolta di racconti pubblicata nel 2011. Anche in questo frangente Roberto, al quale la semplicità non faceva difetto - lo sapevo bene e lo avevo apprezzato anche per questo - sembrò stupito che io chiedessi proprio a lui, e non ad altri critici, un contributo alla nostra causa comune, ma accettò sopraffatto dall'entusiasmo e animato da un grande, visibile, sincero senso di riconoscenza nei miei riguardi e nei riguardi dell'Amministrazione di Coreno che lo aveva apprezzato e, quindi, accolto con grande affetto e la reverenza che valeva. Immeritata per me; meritata per gli amministratori. La recensione del mio libro fu talmente piacevole e lusinghiera che ebbi quella sera stessa l'idea di pubblicarne a mia cura il testo integrale; fin da subito, fin da quella esaltante serata, assunsi con me stesso l'impegno a sbobinarla e a pubblicarla. In concomitanza col primo anniversario della sua dipartita, sono riuscito a realizzare quello che per me e, soprattutto, per la memoria di Roberto consideravo un vero punto d'onore. Ho pubblicato il libro col titolo: “Il critico Roberto Tortora legge Le Stagioni della Lattaia”


Non ho mai pensato, anzi l'idea è sempre stata accantonata con decisione, che questa pubblicazione dovesse aiutarmi a vendere qualche copia in più del mio libro; piuttosto che dovesse renderlo più comprensibile; ed ho sinceramente pensato di dovere rendere questo mio piccolo ma significativo omaggio, non all'amico e nemmeno allo scrittore, ma all'uomo e, soprattutto, all'autorevole critico letterario che Roberto era e che ancora di più sarebbe diventato con la piena maturità dei suoi mezzi. E giungiamo, infine, alla parte più tremenda della breve cronistoria del mio sodalizio con Roberto. Eravamo ormai giunti al marzo del 2013. Si trattava per me di cercare, ancora una volta, l'ospite per la mia rubrica estiva, ed avevo pensato subito di chiedere a Roberto l'ennesimo sacrificio; da poco era uscito il suo primo, tanto atteso, romanzo ed era stato presentato con grande successo, ma non senza qualche inopportuno ed inutile strascico polemico, solo a Formia (Hormiae), la sua città natale. Perciò cercai di raggiungere telefonicamente Roberto al recapito che ormai conoscevo bene, per averlo più volte adoperato in passato. Lo feci ripetutamente, per giorni; giorno dopo giorno, ma sempre senza ottenere risposta, né sua né dei suoi famigliari. Solo dopo i miei numerosi, ripetuti tentativi, che in qualche modo mi allarmarono anche, per avere finalmente sue notizie certe, mi decisi a telefonare a un amico comune, l'avvocato Michele Piccolino, scrittore e critico letterario anche lui. Il buon Michele mi rispose con tono drammatico e triste che, non solo Roberto non sarebbe stato disponibile per la presentazione del suo libro (solo per inciso, considera "Tutta la luce del giorno" un vero capolavoro); ma che, probabilmente, non sarebbe sopravvissuto fino all'estate, per godersi il meritato successo. 

Risultati immagini per tutta la luce del giorno

La sua malattia era così grave, inarrestabile e - ahimé! - inesorabile. Ecco perché a casa del mio amico nessuno aveva mai alzato la cornetta, nessuno aveva mai risposto al telefono: da un po' di tempo non c'era nessuno; la casa era rimasta praticamente disabitata: Roberto era da qualche settimana ricoverato all'ospedale di Latina, i suoi cari al suo capezzale, ai piedi di quello che sarebbe diventato il suo letto di morte. Lui sottoposto a cure poco più che palliative: la sua malattia letale e subdola lo avrebbe condotto alla morte entro appena qualche settimana. Dopo la sua morte ho letto il suo romanzo e ribadisco il giudizio che ne diede l'amico Piccolino: è un capolavoro, che consiglio a tutti di leggere e che accresce, moltiplicandolo a dismisura, il dispiacere per la perdita di un grande scrittore. Di un vero, sopraffino narratore. Roberto Tortora, per ironia della sorte, ci ha lasciato proprio il giorno del mio compleanno: il 6 giugno del 2013. Trasformando così una mia bella e personale ricorrenza in una data infausta e funesta. Ma proprio questa spiacevolissima, tristissima coincidenza, insieme ad una stima umana e artistica che in cuor mio ho sempre sperato essere profonda ma, soprattutto, reciproca, ha finito per legare per sempre e indissolubilmente al mio destino, l'ultimo tratto del suo percorso terreno. Lo ha fatto nel modo migliore per l'uomo: con un ricordo delicato, caro e sempre vivo, che mi porto appresso e che custodisco gelosamente "...come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuole versare. E (quella memoria) sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere." Fin quando sarò vivo!

smr

venerdì 19 maggio 2017

Zia Natalina se n'è andata. R.I.P.

Zia Natalina se n'è andata. Era quasi centenaria, aveva 95 anni. Era una anziana zia di mio padre. Ha rappresentato anche un pezzo di storia della mia vita. Sono molti i ricordi che mi legano a questa donna buona e altruista che ha animato una buona parte della mia vita. Quando andava a pranzo da lei la domenica; quando veniva a trovarmi al negozio per comprare qualche regalino destinato sempre agli altri e mai a se; quando mi incontrava per strada da piccolo e mi dava una caramella, un confetto, una noce che portava sempre in tasca.
Ho scelto di pubblicare questo breve ma significativo estratto dal mio libro "Storie dal paese dei ciclamini", che si riferisce alla morte di uno dei miei nonni. Nonno Salvatore. Quello raffigurato in copertina.


"Ci eravamo sistemati quasi da un anno nella nostra nuova casa a Valiavetta, quando mio nonno morì. In realtà non morì subito, mia madre lo trovò con la faccia tutta storta e la bava alla bocca, nel suo letto, nella sua stanza. Non si era alzato alla solita ora perché colpito da un ictus cerebri, un colpo apoplettico che gli avrebbe lasciato poche ore di vita, come sentenziò il nuovo medico Vittorio, amico di mio padre. Lo avevamo portato all'ospedale di Formia, di corsa con 27 la 127 appartenuta a zio Peppino, l'ex-sindaco, morto l'anno prima, che mi aveva appena regalato proprio mio nonno per farsi scarrozzare. Ma io preferivo di gran lunga scarrozzarci le mie numerose ragazze. Il rimorso non si fece attendere e mi accompagnò per molto tempo. Nonnù era sopravvissuto ancora un paio di giorni, ma si vedeva che non ce l'avrebbe fatta. Era già un miracolo se avesse resistito per qualche ora. Una mattina presto stavo lì, nella sua stanzetta, seduto sul letto accanto vuoto, a seguire i suoi rantoli, a contare i suoi lenti, rumorosi, affannosi respiri. Avevo da poco dato il cambio a mio padre, ch'era restato per la notte. Con me c'era solo Zia Natalina, sua cognata, che corre sempre quando qualcuno della famiglia sta male: è la donna più buona e disinteressata che esista. In quei due lunghissimi giorni di permanenza e di agonia in ospedale, il suo cuore era stato spesso fibrillante, come ebbe modo di dirmi il mio amico medico Raimengia A un certo punto, mio nonno, poveretto, aveva semplicemente cessato di respirare ed era morto. Come se qualcuno, improvvisamente, avesse tolto la spina. E' stata la prima persona che ho visto morire. Aveva 75 anni, era il 1980."

smr