Nel cucinino della lattaia, ancora prima che fuori, anche quell’altra lunga giornata estiva morente stava cedendo il suo posto al crepuscolo – pigramente, quasi con riluttanza.
Gli ultimi bagliori dorati del sole, che all’esterno disponeva perché il riverbero d’ogni suo singolo raggio andasse ad incendiare un tetto del paese, circonfusi nell’angusto locale, contribuivano a creare un’incantevole atmosfera rarefatta - uno sbalorditivo drammatico effetto di luci e ombre.
Un’aura irreale, quasi metafisica, avvolgeva l’ambiente e tutto ciò che, animato o inanimato, vi si trovava al momento.
Era come perdere gli occhi in uno spettacolare caleidoscopio; come mirare nella stessa camera oscura del pittore[1].
[1] E’ fatto noto - ma controverso, tra gli
esperti d’arte - che Vermeer fosse solito ricreare nel suo studio
l’assemblaggio dei soggetti che intendeva riprodurre nei suoi quadri,
controllandone l’assetto attraverso l’obiettivo di un innovativo strumento
ottico, chiamato appunto “camera oscura”.
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