venerdì 30 novembre 2012

Storie di paese. 12



Al mio paese c'è stata la guerra, quella vera, quella grande.
Nell'inverno del '43 faceva freddo, molto freddo; sul paese nevicava e piovevano bombe.
Il centro abitato brulicava di soldati tedeschi biondi, arroganti, dai modi bruschi.
Parlavano una lingua incomprensibile.
L'unica cosa che i corenesi capivano era quando urlavano: 
raus! raus!
Quando arrivarono gli alleati da sud la popolazione e il centro abitato si trovarono proprio tra i due fuochi: come stretti nelle morse di una tenaglia, nel bel mezzo della Linea Gustav.
Tra forze alleate, da una parte e truppe tedesche delle SS, dall'altra.
Come salvarsi?
La gente, in grossa parte, fu sfollata.
Tutto il paese si trasferì sulle montagne vicine.
Alcuni andarono verso sud, arrivando fino in Calabria a Vibo Valentia; altri andarono a nord, raggiungendo perfino Milano Lacchiarella, come mia nonna e i suoi figli piccoli, compresa mia madre.
Quei pochi che non avevano voluto abbandonare le cose, le case, la terra, avevano messo tutto dentro un sacco, su una carretta, a dorso di mulo, se ne avevano uno, e si erano trasferiti sulle montagne.
In una casetta per il ricovero degli ovini o nelle grotte.  
Vissero nelle condizioni di uomini primitivi per diversi mesi, fino alla fine della guerra.
Non che in paese la vita a quei tempi fosse più confortevole: l'acqua corrente non c'era; non c'era il gas nè l'elettricità.
Per non parlare dei riscaldamenti.
Si cucinava sul fuoco e ci si scaldava vicino alle braci ardenti: il fuoco si accendeva la mattina presto e si alimentava, con la legna raccolta a mano, fino alla sera.
Prima che i carboni si polverizzassero in cenere si prendevano e si mettevano in uno scaldaletto di rame. 
Gliu scarfalettho veniva passato caldissimo e rapidamente nel letto, fra le lenzuola, per scaldarle per la notte.

Quando, finalmente, la guerra passò la gente tornò in paese.
Il lavoro non c'era, la fame era tanta.
Molti uomini e anche giovani e ragazzi si sparpagliarono di nuovo sui monti alla ricerca del ferro, delle schegge di proiettili, di bossoli vuoti o pieni di polvere da sparo.
Qualche poveraccio ci ha pure lasciato le penne.
Molti di quei fortunati che sono sopravvissuti alle esplosioni - molto frequenti, per l'imperizia dei cercatori - hanno lasciato sui monti un dito, più dita, tutta la mano, un avambraccio o il braccio intero.
Verso la fine degli anni '50, ancora in pieno dopoguerra, la ricostruzione non era finita, il mio paese, invece di andare avanti, è tornato indietro: dall'età del ferro è passato all'età della pietra.
Molti si sono occupati nelle cave di marmo: la nuova frontiera economica.
E molti, in cambio di un tozzo di pane, hanno continuato a lasciarci le penne.
E diversi di quelli che sono sopravvissuti, in cambio del tozzo di pane nelle cave, sotto a un masso, ci hanno lasciato un arto, per pegno.




 smr

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