lunedì 19 novembre 2012

Storie di paese. 8


Alfonso è una persona molto riservata, di poche parole, introverso come un vecchio contadino, ma ha solo qualche anno più di me.
E'stato un allievo di mio padre.
Lo conosco per quest'unico motivo: quando non andavo ancora a scuola, ma andavo a trovare mio padre a scuola, ero la mascotte di tutti i suoi allievi, tutti più grandi di me.
Non siamo mai stati amici amici, ma tra noi c'è sempre stato un profondo rispetto: oltre a quello tra noi, anche quello che lo legava a mio padre e che, forse, ho ereditato dopo la sua morte.
Dopo la scuola elementare le strade si sono divise, anche per colpa della differenza d'età e del suo lavoro nei campi: non ha mai amato bighellonare in piazza. 
Abbiamo continuato a vederci in rare occasioni: qualche partitella a pallone, se non sbaglio giocava in porta; o alla sezione della D.C., dove veniva a prendersi la tessera, all'inizio di ogni anno.
Forse proprio una rara frequentazione ha permesso che questa amicizia dell'infanzia si salvasse: invece di consumarsi, come tante altre, anche più assidue.

Quando sono nati i miei bambini e cominciavano a conoscere e ad appassionarsi agli animali spesso li portavo a fare una passeggiata per il paese, la domenica pomeriggio, in cerca di animaletti da fargli vedere.
E spesso prendevamo la strada che porta verso la casa di Alfonso, lì eravamo sicuri di trovarne ancora. 
Anche in paese è sempre più difficile vedere animali domestici, figuriamoci di selvatici.
Alfonso ha ereditato dal padre una piccola fattoria, dove alleva molti animali: cani, gatti, conigli, oche, pecore, asini, galline e galli, maiali, caprette e mucche.
Mentre i bambini si divertivano a parlare con gli animali e ad imitarne il verso o gli offrivano qualcosa da mangiare o li infastidivano soltanto, io e Alfonso scambiavamo due chiacchiere, senza mai perderli d'occhio. 

Un giorno che stavamo lì a parlare del più e del meno, io al di qua e lui al di la della recinzione, entrambi aggrappati con le mani alla rete di ferro, la mia attenzione fu attirata da un albero che non avevo mai notato nel suo grande orto: non più alto di tre quattro metri, un tronco robusto, tutto storto e bitorzoluto, scuro, con pochi rami e ancora meno foglie. Ovviamente senza frutti.
Pareva un albero fossile. In qualche modo lo era.
"E' un vecchio pero - mi fa - ci sono affezionato, lo piantò mio padre da giovane, circa 80 anni fa, quando venne ad abitare in questa casa. Per quest'unico motivo si è salvato dalla sega."
"Ma è un albero di pere d'inverno?" - gli chiedo.
"Si! Proprio quelle." - risponde.
"Pensa, Alfò, sono anni, ma che dico, decenni che non ne assaggio una: ne ho quasi dimenticato l'odore e il sapore. Ne ho mangiata qualcuna quando, da bambino, andavo in montagna con mio padre e mia sorella Anna a cercare ginepri per fare l'albero di Natale. Sono molto buone, succose e zuccherine, sanno quasi di cannella e a me la cannella piace parecchio. Un sapore che oggi non ha più niente."

La breve chiacchierata termina così, altrettanto rapidamente di come s'era iniziata.
E' quasi l'imbrunire. S'è fatta ora di tornare, lascio Alfonso al suo lavoro, richiamo i bambini, li prendo per mano e ci avviamo verso casa.

E' passato appena qualche mese da quell'incontro estivo, siamo in autunno inoltrato, è quasi inverno, manca poco a Natale. 
Mentre me ne sto, un pomeriggio, in negozio ad aspettare clienti, chi ti arriva all'improvviso? 
Alfonso. 
Ha in mano due buste di plastica gonfie, sono piene zeppe di pere d'inverno, questo frutto quasi scomparso, un cripto-frutto dal nome che mi piace molto: mi ricorda i giardini d'inverno e per una strana confusione che mi porto nella testa da quando ero bambino, anche quelli di Cechov, che però erano di ciliegi. 
Mi porge le due buste, mettendole a terra con molta attenzione. 
Mi saluta con una vigorosa stretta di mano. 
"Devo scappare." - dice.
"Quando mai!" - gli rispondo, sorridendo.
Ma prima di scapparsene nella sua fattoria, dove avrà certamente qualcosa di più importante da fare, mi dispensa qualche utile raccomandazione per velocizzare la maturazione e la corretta conservazione delle sue pere d'inverno.
"Sono ancora acerbe, ma non preoccuparti, si raccolgono un po prima della maturazione. Mettile all'aperto, stendile su un graticcio di canne, a casa ne avrai sicuramente qualcuno, tua madre li tiene sicuramente nel forno dove fa il pane. Solo, devi ricordarti di girarle ogni tanto. Mano a mano che si maturano cambiano colore: adesso sono verdi, ma diventeranno presto marroni. Allora potrai mangiarle: crude, cotte al forno o nei dolci. Sono deliziose, ma questo lo sai. Quelle che avanzano, non buttarle, mi raccomando, puoi metterle sott'aceto e conservarle per anni. Sono un ottimo contorno per la carne bollita, da mangiare come antipasto o da servire con l'aperitivo."
"Alfonso, ma mi metti in seria difficoltà. A parte il fatto che non so come sdebitarmi, eppoi tutte queste pere, sarà l'intera produzione di quel tuo piccolo albero."
Sono sempre sinceramente commosso quando mi regalano qualcosa, è la mia indole: mi intenerisce che qualcuno mi abbia pensato.
"Si, è vero, Totò, queste pere stavano tutte su quell'alberello, ma io non le mangio, sono stufo, le avrei date in pasto ai maiali. Quando quel pomeriggio d'estate ne abbiamo parlato, lo hai fatto con un entusiasmo che mi è sembrato fuori dal tempo ed ho pensato quello stesso giorno di regalartele tutte. Non vedevo l'ora di poterle raccogliere e portarle a te e alla tua famiglia."
Mi volge le spalle in un attimo e se ne va, di corsa. 
E' una caratteristica della sua andatura, corre anche quando non ha fretta.

I regali sono tutti belli. Quelli inaspettati sono ancora più belli.

Sarò pure, un inorreggibile romantico, ma non mi considero un passatista: resto solo convinto che certe cose, che nei tempi andati, forse, avvenivano quotidianamente tra la gente di un paese, oggi sono sempre più rare, anche in paese.
Purtroppo!




smr

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