(Giovanni, il contadino vero)
A
Giovanni era toccata in sorte una vita rustica - tutt’altro che
avventurosa, ma travagliata e, soprattutto, dura lo stesso - fatta di
cose apparentemente semplici.
Aveva saputo riempirla - con dignità
esemplare - passandola quasi interamente a fare su e giù lungo la
strada Serra, per raggiungere la sua campagna.
Le vicende più importanti che
lo riguardavano erano tutte ambientate nei luoghi che gli erano
familiari e che amava.
Lì aveva trascorso gran parte della sua esistenza
- col solo vero compenso di aver imparato a coltivare ogni specie di
dono di Dio.
Particolare questo, da non trascurare - anzi fondamentale -
visto che lui e la moglie e i loro quattro figli - in pratica la sua
famiglia intera - vivevano soltanto dei prodotti che riusciva a
strappare alla terra col solo vigore delle sue braccia.
Ovviamente tra
le sue svariate colture quella che gli procurava una forma d’autentico,
pieno, assoluto compiacimento era la vite.
Ogni sua vendemmia era
abbondante.
Non finiva mai di elargire grappoli succosi - preziosa
materia prima per il miglior vino di tutto il paese.
Così almeno
sosteneva, formulando la sola asserzione immodesta che ricordi di lui.
So per certo che la ragione era dalla sua parte.
Potrei testimoniarlo in
giudizio, sotto giuramento.
Per buona parte della sua vita, oltre che
semplice vino, aveva tentato di infilare nelle bottiglie anche una
porzione di se e di quel suo carattere austero; e gli umori e i succhi e
l’essenza vera della terra argillosa che calpestava ogni giorno; e
tutto il calore del sole che, a piedi nudi, aveva schiacciato nei suoi
tini.
Del resto, di tutti i suoi conoscenti, solo mio nonno sosteneva un
parere diverso - anzi opposto.
A me non è mai parsa una valutazione
ragionata.
Puzzava piuttosto di pregiudizio irriducibile.
Anche se, a
proposito dei vini prodotti da Giovanni, il nonno si dilettava ad
argomentare scientificamente.
Ripeteva che il bianco era torbido come un
rivo in piena e sapeva di zolfo; e che il rosso era più nero della
pece, macchiava il bicchiere e in bocca allappava come il mallo ancora
acerbo di una noce.
In una parola li considerava entrambi imbevibili.
Ora non saprei dire se lo pensasse veramente ma, o per puro spirito di
contraddizione, oppure per la schiettezza che lo caratterizzava e a
volte lo faceva risultare troppo diretto - forse perfino antipatico -
lui non faceva nessuno sforzo per nascondere un giudizio che restava
sempre lo stesso: sprezzante, cinico e scoraggiante.
Un distillato di
crudeltà pura nei confronti di una persona che aveva buttato il sangue
sulla sua terra per ottenere un vino che quantomeno aveva il pregio
d’essere schietto.
Così, ogni volta che fra loro si accendeva quella
disputa ormai vieta, mio nonno attaccava Giovanni frontalmente - come si
considerasse la sua nemesi.
Senza mezzi termini, gli vomitava addosso
tutto il fiele concentrato nella sua atroce opinione, accreditandolo,
con una durezza spietata, per la produzione d’un aceto appena passabile.
Non si può dire che Giovanni fosse irascibile, ma un po’ incazzoso lo
era.
In quelle occasioni - le uniche - appariva debole, stranamente
disarmato, non ci provava nemmeno a difendersi.
Suppongo che fosse
convinto che non sarebbe riuscito a far prevalere le sue comprensibili
ragioni su quegli insulti ingiusti - di più - largamente infondati.
Forse per rispetto dell’età si limitava a detestare mio nonno in
silenzio.
Sceglieva di masticare amaro - ma non certo per
condiscendenza.
Inghiottiva la sua dose di veleno - sempre in silenzio.
Solo qualche volta accennava una replica.
Per lo più lo faceva
bestemmiando.
Altrimenti si calava sul viso uno schermo crucciato e
insieme sprezzante.
Giovanni si chiudeva in un mutismo al quale, per sua
fortuna, era addestrato.
Ma si vedeva chiaramente che al posto di
quella tortura verbale avrebbe preferito ricevere una staffilata in
pieno viso.
Il colpo gli avrebbe procurato un dolore meno lancinante di
quello che ogni volta gli infliggevano le parole crude di mio nonno.
(Mio nonno Salvatore)
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