giovedì 19 luglio 2012

Il racconto breve della donna che mesceva il latte. Incipit. (Dal libro di Salvatore M.Ruggiero: Le stagioni della lattaia)


Questo dipinto di Vermeer mi ha ispirato il racconto, di cui di seguito pubblico l'incipit, contenuto nella mia raccolta di racconti: "Le stagioni della lattaia. Il racconto breve della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie."



Intorno ai dieci anni, quando ormai si è alle soglie dell’adolescenza e per questo motivo si dovrebbe cominciare a riflettere giudiziosamente a cosa fare della propria vita, io ho iniziato, invece, a coltivare una concezione ludica dell’esistenza, che peraltro ancora considero preziosa. Al punto che - per quanto non sia stata impresa facile - ho voluto conservarla, anche crescendo. Convinto come sono che possa aiutarmi a sopravvivere meglio. Tutto sommato, e fatta eccezione dei piccoli grandi problemi che si patiscono a quell’età delicata, potevo considerarmi un bambino fortunato, disimpegnato com’ero e sollevato da qualsivoglia onere - specie durante le vacanze estive, quando non avevo nemmeno la seccante incombenza della scuola. Nei fatti, andare a prendere il latte da una signora che abitava poco lontano da casa nostra era l’unico incarico che i miei genitori mi affidavano. Mi troverei di sicuro d'accordo con quei lettori, che dovessero considerarlo un impegno di responsabilità assai relativa.
  
La donna di cui riferirò è ancora in vita, ma s’è fatta assai anziana. Ancora l’incontro, ogni tanto. Il marito è morto. I figli sono tutti sciamati per il mondo. Non penso che, rimasta sola, abiti ancora la vecchia casa dove andavo da piccolo a prendere il latte. Né, tanto meno, che ancora tiri su le numerose bestiole che allora possedeva. Tranne un grasso gatto tigrato, che se ne andava in giro annoiato per la casa e nei dintorni, non aveva altri animali d’affezione. Allevava, invece, per il suo personale tornaconto, una grande quantità di bestiole domestiche di piccola taglia, che lasciava libere di razzolare in cortile e un paio di grosse mucche da latte, che stavano al pascolo tutto il giorno. Ritirava le mucche solo nel tardo pomeriggio, ricoverandole per la notte nella stalla che aveva ricavato da un seminterrato sotto casa sua. Come avevano raggiunto il loro riparo si preoccupava che fossero munte, immediatamente. Ne aveva ben donde, perché da quella mungitura quotidiana, rigorosamente manuale, non ricavava mai meno di due grossi secchi colmi di buon latte fresco - trenta o quaranta litri di liquido bianco, grasso e spumoso ogni giorno. Di quell’enorme quantità conservava per le sue esigenze solo una minima parte. Quasi tutto il latte era stato destinato, infatti, a clienti abituali, scelti accuratamente tra i suoi conoscenti che fossero disposti ad accaparrarselo pagandolo con moneta sonante. Quella donna, oltre ad essere una economa esemplare era anche venale quanto bastava e da quella vendita riusciva a trarre un discreto reddito. Così si adoperava perché una tale risorsa in denaro, modesta ma costante, risultasse molto più utile del latte, alla sua famiglia - resa numerosa da una vera frotta di figli. La sua era, infatti, una famiglia traboccante. Tutti assieme, genitori e figli, costituivano un clan. Erano una vera tribù, come, per fortuna o sfortuna, oggi non si vedono più in giro tanto facilmente. Sarebbe un vero problema riuscire ad accudir le con la stessa apparente leggerezza. Mentre, con esigenze modeste e qualche ragionevole e più che salutare rinuncia, a quei tempi sembrava che anche una famiglia numerosa come quella si sostentasse praticamente da sola. Sebbene – ci sarebbe da aggiungere - le tentazioni di allora non erano quelle di adesso. Non ricordo se i figli fossero nove, dieci, o addirittura di più. Tutti minorenni. Tutti sotto i vent’anni. In pratica ne aveva sfornato uno ogni trenta mesi, in meno di un paio di dozzine di anni. Posso affermare con assoluta certezza che a nessuno di loro fosse mai stato concesso dai genitori di vivere un’esistenza scioperata. Nonostante l’età, infatti, ognuno di quei ragazzi - compresi i due o tre che erano miei quasi coetanei - s’era visto affidare dai genitori una mansione precisa. E, in effetti, nell’economia familiare, ciascuno di loro doveva presidiare una postazione precisa, adeguata alla sua forza e alle sue capacità. Ciascuno doveva portare a termine, con diligenza, il personale compito che gli era stato assegnato. Per la giovanissima età che vantavano lo facevano tutti con un giudizio e una maturità inusitati - sembravano ammaestrati. C’era chi la mattina presto, ancora prima d’entrare a scuola - quando capitava che poi ci andasse - portava le mucche al pascolo; chi provvedeva la sera al loro recupero e allo stallaggio; chi doveva integrarne la dieta, distribuendo regolarmente fieno e biada; chi le mungeva; chi si preoccupava, prima o subito dopo la cena, della consegna del latte appena munto al domicilio dei clienti che non andavano a ritirarlo personalmente - prassi alla quale io attendevo molto volentieri. Qualcuno di loro, durante il resto della giornata, si adoperava anche in altre faccende d’importanza economica più trascurabile. Così, per il fatto che i più piccoli avevano imparato assai presto a rendersi utili, e i più grandi, frequentando saltuariamente la scuola, in pratica già lavoravano tutti - oggi si direbbe part-time - dal primo all’ultimo di quella prolifica cordata erano apertamente indicati in paese come sfolgoranti esempi d’assennatezza; erano continuamente citati - specie da mia madre - come veri campioni d’ubbidienza e devozione ai genitori. A me sembravano semplicemente affetti da crisi acute di serietà precoce, all’epoca peraltro non del tutto inusuali in bambini di quell’età. Ma, sempre secondo la personale ed autorevole opinione di mia madre si trattava di modelli da tenere nel debito conto - anzi da imitare assolutamente. Per questo motivo sebbene alcuni fra loro, nei loro rari momenti liberi, fossero miei compagni di giochi, a volte ero portato a detestarli - pratica alla quale attendevo solo intimamente. Io pretendevo di conoscere bene la verità che si nascondeva dietro la loro presunta fortuna e, ai miei occhi, quella condizione si presentava molto meno felice di come potesse apparire all’esterno. In pratica fin dalla nascita quei piccoli poveri cristi avevano subito un’educazione severa. Sia il padre che la madre s'erano rivelati assai meno moderni e liberali della media dei genitori del paese - che non brillavano certo per larghezza di vedute. Pure conservando l’indubbio merito di avere prima instillato e poi saputo coltivare nei figli un auspicabile ma, per conto mio, troppo anticipato senso di responsabilità, li avevano costretti, in buona sostanza, a saltare una comoda e piacevole fanciullezza e a confrontarsi precocemente con la durezza della vita - a mio parere avevano esagerato. Ridotti a vivere una sorta di cattività, quei ragazzi, che a me, onestamente, parevano vessati da genitori troppo esigenti e severi, si erano guadagnata tutta la mia commiserazione. Nutrita solo nei recessi più nascosti e profondi del mio intimo, anch’essa restava inespressa manifestamente.

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