Questo dipinto di Vermeer mi ha ispirato il racconto, di cui di seguito pubblico l'incipit, contenuto nella mia raccolta di racconti: "Le stagioni della lattaia. Il racconto breve della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie."
Intorno
ai dieci anni, quando ormai si è alle soglie dell’adolescenza e per
questo motivo si dovrebbe cominciare a riflettere giudiziosamente a cosa
fare della propria vita, io ho iniziato, invece, a coltivare una
concezione ludica dell’esistenza, che peraltro ancora considero
preziosa. Al punto che - per quanto non sia stata impresa facile - ho
voluto conservarla, anche crescendo. Convinto come sono che possa
aiutarmi a sopravvivere meglio. Tutto sommato, e fatta eccezione dei
piccoli grandi problemi che si patiscono a quell’età delicata, potevo
considerarmi un bambino fortunato, disimpegnato com’ero e sollevato da
qualsivoglia onere - specie durante le vacanze estive, quando non avevo
nemmeno la seccante incombenza della scuola. Nei fatti, andare a
prendere il latte da una signora che abitava poco lontano da casa nostra
era l’unico incarico che i miei genitori mi affidavano. Mi troverei di
sicuro d'accordo con quei lettori, che dovessero considerarlo un impegno
di responsabilità assai relativa.
La
donna di cui riferirò è ancora in vita, ma s’è fatta assai anziana.
Ancora l’incontro, ogni tanto. Il marito è morto. I figli sono tutti
sciamati per il mondo. Non penso che, rimasta sola, abiti ancora la
vecchia casa dove andavo da piccolo a prendere il latte. Né, tanto meno,
che ancora tiri su le numerose bestiole che allora possedeva. Tranne un
grasso gatto tigrato, che se ne andava in giro annoiato per la casa e
nei dintorni, non aveva altri animali d’affezione. Allevava, invece, per
il suo personale tornaconto, una grande quantità di bestiole domestiche
di piccola taglia, che lasciava libere di razzolare in cortile e un
paio di grosse mucche da latte, che stavano al pascolo tutto il giorno.
Ritirava le mucche solo nel tardo pomeriggio, ricoverandole per la notte
nella stalla che aveva ricavato da un seminterrato sotto casa sua. Come
avevano raggiunto il loro riparo si preoccupava che fossero munte,
immediatamente. Ne aveva ben donde, perché da quella mungitura
quotidiana, rigorosamente manuale, non ricavava mai meno di due grossi
secchi colmi di buon latte fresco - trenta o quaranta litri di liquido
bianco, grasso e spumoso ogni giorno. Di quell’enorme quantità
conservava per le sue esigenze solo una minima parte. Quasi tutto il
latte era stato destinato, infatti, a clienti abituali, scelti
accuratamente tra i suoi conoscenti che fossero disposti ad
accaparrarselo pagandolo con moneta sonante. Quella donna, oltre ad
essere una economa esemplare era anche venale quanto bastava e da quella
vendita riusciva a trarre un discreto reddito. Così si adoperava perché
una tale risorsa in denaro, modesta ma costante, risultasse molto più
utile del latte, alla sua famiglia - resa numerosa da una vera frotta di
figli. La sua era, infatti, una famiglia traboccante. Tutti assieme,
genitori e figli, costituivano un clan. Erano una vera tribù, come, per
fortuna o sfortuna, oggi non si vedono più in giro tanto facilmente.
Sarebbe un vero problema riuscire ad accudir le con la stessa apparente
leggerezza. Mentre, con esigenze modeste e qualche ragionevole e più che
salutare rinuncia, a quei tempi sembrava che anche una famiglia
numerosa come quella si sostentasse praticamente da sola. Sebbene – ci
sarebbe da aggiungere - le tentazioni di allora non erano quelle di
adesso. Non ricordo se i figli fossero nove, dieci, o addirittura di
più. Tutti minorenni. Tutti sotto i vent’anni. In pratica ne aveva
sfornato uno ogni trenta mesi, in meno di un paio di dozzine di anni.
Posso affermare con assoluta certezza che a nessuno di loro fosse mai
stato concesso dai genitori di vivere un’esistenza scioperata.
Nonostante l’età, infatti, ognuno di quei ragazzi - compresi i due o tre
che erano miei quasi coetanei - s’era visto affidare dai genitori una
mansione precisa. E, in effetti, nell’economia familiare, ciascuno di
loro doveva presidiare una postazione precisa, adeguata alla sua forza e
alle sue capacità. Ciascuno doveva portare a termine, con diligenza, il
personale compito che gli era stato assegnato. Per la giovanissima età
che vantavano lo facevano tutti con un giudizio e una maturità inusitati
- sembravano ammaestrati. C’era chi la mattina presto, ancora prima
d’entrare a scuola - quando capitava che poi ci andasse - portava le
mucche al pascolo; chi provvedeva la sera al loro recupero e allo
stallaggio; chi doveva integrarne la dieta, distribuendo regolarmente
fieno e biada; chi le mungeva; chi si preoccupava, prima o subito dopo
la cena, della consegna del latte appena munto al domicilio dei clienti
che non andavano a ritirarlo personalmente - prassi alla quale io
attendevo molto volentieri. Qualcuno di loro, durante il resto della
giornata, si adoperava anche in altre faccende d’importanza economica
più trascurabile. Così, per il fatto che i più piccoli avevano imparato
assai presto a rendersi utili, e i più grandi, frequentando
saltuariamente la scuola, in pratica già lavoravano tutti - oggi si
direbbe part-time - dal primo all’ultimo di quella prolifica cordata
erano apertamente indicati in paese come sfolgoranti esempi
d’assennatezza; erano continuamente citati - specie da mia madre - come
veri campioni d’ubbidienza e devozione ai genitori. A me sembravano
semplicemente affetti da crisi acute di serietà precoce, all’epoca
peraltro non del tutto inusuali in bambini di quell’età. Ma, sempre
secondo la personale ed autorevole opinione di mia madre si trattava di
modelli da tenere nel debito conto - anzi da imitare assolutamente. Per
questo motivo sebbene alcuni fra loro, nei loro rari momenti liberi,
fossero miei compagni di giochi, a volte ero portato a detestarli -
pratica alla quale attendevo solo intimamente. Io pretendevo di
conoscere bene la verità che si nascondeva dietro la loro presunta
fortuna e, ai miei occhi, quella condizione si presentava molto meno
felice di come potesse apparire all’esterno. In pratica fin dalla
nascita quei piccoli poveri cristi avevano subito un’educazione severa.
Sia il padre che la madre s'erano rivelati assai meno moderni e liberali
della media dei genitori del paese - che non brillavano certo per
larghezza di vedute. Pure conservando l’indubbio merito di avere prima
instillato e poi saputo coltivare nei figli un auspicabile ma, per conto
mio, troppo anticipato senso di responsabilità, li avevano costretti,
in buona sostanza, a saltare una comoda e piacevole fanciullezza e a
confrontarsi precocemente con la durezza della vita - a mio parere
avevano esagerato. Ridotti a vivere una sorta di cattività, quei
ragazzi, che a me, onestamente, parevano vessati da genitori troppo
esigenti e severi, si erano guadagnata tutta la mia commiserazione.
Nutrita solo nei recessi più nascosti e profondi del mio intimo,
anch’essa restava inespressa manifestamente.
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