Presentazione dell'autore
Vivo in un paese brutto. Brutto, perché maltenuto; brutto, perché
cresciuto disordinatamente - senza armonia; brutto, perché disseminato
di case senza facciata; brutto, perché zeppo di stabili fatiscenti coi
muri crepati.
E’
un vero peccato! Perché di sicuro non è stato sempre così. Un difetto
di senso estetico, poco meno che generale, l’ha reso brutto; il
disinteresse, l’egoismo e la sciatteria, di chi lo ha amministrato per
anni e della sua gente, hanno fatto il resto.
Io
penso che alla sua nascita - mille anni fa - fosse molto diverso da
com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore.
E, a suo modo, doveva pure essere bello. Posso immaginare com’era -
senza sforzo. Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse:
paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei
sassi. Sembrano gatti che si reggono sul sofà con gli artigli ficcati
nello schienale. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare
i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e
loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali.
Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi
serramenti di quercia laccati al naturale. Li vedo ancora i suoi tetti
coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi
nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta. Le vedo ancora
le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del
centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un
bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per
accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante.
D’accordo,
quel paese era povero. Ma non lo nascondeva. Era essenziale e dimesso.
Ma almeno aveva un bel colpo d’occhio omogeneo. Costituiva uno scenario
prezioso, da preservare per la sua tipicità. E’ un vero peccato che sia
stato rovinato, devastato dopo. E’ successo tutto negli ultimi
cinquant'anni. E ci fosse stata almeno una buona ragione per mandarlo in
malora; ci fosse stato almeno qualcosa da predare, qualcosa di cui
arricchirsi dallo scempio. Sarebbe stato uno dei tanti sacchi
scellerati, come ce ne sono stati molti nel secolo appena trascorso.
Come, purtroppo, ce ne saranno tanti altri, in questo nuovo secolo.
Tutti causati dall’ignoranza, dalla negligenza, dall’incuria, dalla ottusità degli uomini.
Prima
che partisse la corsa allo sfruttamento industriale della pietra
calcarea locale, l’unica vera risorsa era la terra: da coltivare,
fertile e generosa; o sassosa e avara.
Allora
i terreni da coltivare si spietravano a mano, sasso dopo sasso. E si
coltivavano per sopravvivere. Allora le uniche prosperità erano gli
animali e i figli. Poi è arrivata qualche lira ed ha guastato tutto. Ha
rotto equilibri antichi, tenuti in piedi per secoli solo dalla miseria e
dalla fame. Ora, che una quantità insensata di cemento è stata versata a
sproposito, brutalmente - come una bestemmia urlata in faccia ad un
povero cristo - su tutto il paese, anche nel cuore del vecchio centro
storico, prendendo il posto delle stradine e delle piazzette lastricate a
pietra e dei muri a secco centenari, le case - se va bene - hanno gli
esterni di quarzo plastico e gl’infissi d’alluminio anodizzato - perfino
alcune di quelle costruite non proprio di recente.
E
i tetti? Alcuni saranno pure nuovi e fatti a regola d’arte, ma sono
tutti coperti con tegole correnti - e poi sono tutti diseguali.
Ora,
che il danno è stato fatto - ed è irrimediabile - non basta rivestire
la piazza centrale con lastroni di marmo bocciardato a macchina, per il
capriccio di farne il salotto buono. E’ un’idea velleitaria. Passerà
alla storia come l’estremo ma vano tentativo di salvarne l’aspetto
arcaico; di conservarne l’essenza originaria, impiantando sul nuovo un
elemento fintamente antico.
Così
il tremendo destino del mio paese è di rimanere per sempre un posto
brutto, triste e trascurato - come, purtroppo, ce ne sono tanti altri -
dove si nasce per caso, si vive senza speciali entusiasmi - quasi per
inerzia - e non succede mai niente di memorabile. Se uno non riuscisse
ad apprezzarne la relativa tranquillità, oltre ad avvertire il
fastidioso sospetto che l’esistenza gli sia sfuggita troppo veloce fra
le mani - più o meno utilmente - potrebbe anche subire, abitandoci da
sempre, l’incresciosa sensazione di averci sprecato malamente una vita.
Al più - ma solo per via della quiete e dell’aria buona - qualcuno
venuto (o tornato) da fuori potrebbe farne il suo… buen retiro. Ma intanto una vita vera se l’è cercata altrove!
A
completare degnamente il tutto - per un supplemento che, onestamente,
non era necessario - il mio paese possiede una storia assai modesta. Di
cui si può facilmente predire che non diventerà mai motivo di vanto.
(...Questo paese, dall’aspetto selvaggio ed ameno …non ha una sua storia di particolare rilievo... da La storia di Coreno
di Don Giuseppe La Valle). Ma forse, si addice così ad un posto che
d’importante ha vissuto solo la Guerra. Quanto altrimenti vi è accaduto
pare non interessare nemmeno i suoi pochi abitanti. Per quest’unico
motivo, conserva cultori raffinati - e rari e preziosi. Le storie dei
piccoli paesi sono fatalmente accomunate da uno strano destino: finendo
tutte per somigliarsi, vengono frettolosamente omologate. Ma, anche se
sembrano simili, ciascuna di esse ha qualcosa di peculiare che la rende
speciale. Se si riuscisse a coglierne la consistenza più intima, a
tratteggiarle con l’opportuna sensibilità, non tutte le storie dei
piccoli paesi sarebbero archiviate come … storie piccole.
Da
qualche parte nel mondo si conserva l’uso di ricordare ed onorare il
compleanno dei morti. Al mio paese sembra che non esista più la Memoria!
Quando un uomo muore finisce nel dimenticatoio. Lì la sua memoria
rischia di evaporare per sempre. Per quanto alcuni viventi -
consapevoli, o meno, d'avere poco o niente da dire - per la loro
banalità hanno i modi di chi è già morto (mi ricordano l’anziano dottore
visto in un vecchio film svedese# degli anni ’50). Al contrario, certi
defunti, anche dopo il trapasso, con le loro ricche storie personali,
ancora ci raccontano molto. E’ come dire: Tutti muoiono, pochi hanno realmente vissuto!
Alcune persone hanno lasciato una traccia - leggera o profonda - nella
sabbia della Memoria e del Tempo. Spesso ci accorgiamo dell’influenza
che hanno esercitata su di noi quando è ormai troppo tardi. In tal caso
solo coi pensieri possono ricevere la nostra gratitudine. E’ sempre da
preferire la riconoscenza - anche tardiva - alla dimenticanza colpevole.
Come
si può descrivere meglio una terra se non raccontando le storie dei
personaggi che vi sono nati, che vi hanno vissuto, che l’hanno animata
con la loro presenza? E, quante esistenze di persone comuni, osservate
con maggiore attenzione, non si rivelano così normali - quasi scontate -
ma, sotto la scorza della loro apparente semplicità, finiscono per
rivelare particolari extra-ordinari? Oggi verrebbe da dire che quelle
persone che sembravano nani erano giganti. E ancora, chi non reca dentro
di se l’eco delle sue frequentazioni? Ognuno di noi si porta dietro
certi luoghi della memoria - posti o persone che ha frequentato.
Qualcuno ricorda, qualcuno dimentica o, addirittura, cerca di rimuovere.
Senza riuscirci, i pensieri - l’unica cosa veramente libera di questo
mondo - non si fanno comandare. Nemmeno dai proprietari legittimi.
Così,
chiunque conserverà sempre le proprie radici, continuando - ancorché
involontariamente - a nutrirle. Esse sono più profonde di quanto
crediamo, e non vanno mai perdute! Se qualcuno tentasse di disfarsene -
come si fa coi vecchi giocattoli rotti - deve convincersi che tale
proposito non avrà un agevole successo. Il filo della memoria,
intrecciato coi ricordi, è sottile ma robusto: riuscendo sempre a non
farsi recidere, ci tiene legati al luogo d’origine.
Deriva
da queste poche, elementari riflessioni - che da alcuni saranno
considerate trascurabili - l’impulso che mi sono auto-trasmesso,
abusivamente, a scrivere “Le stagioni della lattaia con altre sette
piccole storie”. Ebbene, si! Piccole Storie. Possono sembrare piccole,
ma sono importanti, soprattutto per me, ma non solo per me. E come avrei
potuto raccontare vite intere di personaggi realmente esistiti? Ho
tentato, quindi, di ricostruirne solo pochi episodi; alcune scene che
amo definire piani-sequenza tracciati in punta di... tasto. Si
riferiscono all’esistenza di certe persone che ho conosciuto, e che
vorrei sottrarre alla damnatio memoriae.
Esse potrebbero anche costituire una specie di memento mori.
Proprio a quelle persone è rivolto questo modesto tributo, convinto,
come sono, della esemplarità delle vite che hanno vissuto. Le loro
flebili voci ancora risuonano - per chi sa ascoltarle - tra le pietre
immutate dell’antico borgo, dove si inala dall’aria l’odore del tempo;
e, riferendo qualcosa d’interessante, hanno impartito lezioni di vita
tuttora preziose. Chi più chi meno, tutti ci hanno insegnato qualcosa:
chi più chi meno tutti abbiamo imparato qualcosa da loro. Ora non
possiamo - non dobbiamo! - permettere che i loro segni precari si
dissolvano in un oblio ingiusto. Abbiamo tutti il compito di custodirli
come fossero retaggi di valore.
Alla
maniera di Arcadio Buendìa# ho marcato i nomi di sette otto (s)oggetti,
per non dimenticarne la …funzione. Di sicuro erano più di sette otto i
(s)oggetti che hanno meritato di essere contrassegnati. Per ora dovrete
accontentarvi di questi.
Per ultimare quest’impegno - assunto soltanto con me stesso e col mio daimon
(il vizio impunito della scrittura) - non mi sono sfinito in alcuna
ricerca, ho solo adoperato brandelli di vite, i cui titolari sono
individui realmente esistiti, persone comuni - ma, a loro modo, speciali
- campioni di una umanità schietta; protagonisti di esistenze sobrie,
silenziose, quasi invisibili, sempre garbate. Sono morti tutti. Tutti
hanno terminato la loro personale battaglia terrena. Per questo motivo
ho voluto ricordare l’anno di nascita e di morte di ciascuno. Mi è
sembrato che la coltre di polvere che ricopre tutte le cose vecchie
avesse coperto anche loro e che andasse rimossa. Allora ho voluto
asportarla. E grattando nella crosta di quelle vite ho prelevato questi
pochi frammenti (Rosam carpe, spinam cave!).
Soprattutto mi sono sforzato di conservarne la sostanza più autentica.
Per lo più si tratta di reminiscenze nitide, o appena impallidite dal
molto tempo passato; sospese tra memoria ed imago,
realtà (quasi tutta) e fantasia (qualche lampo). Le ho ritenute adatte
ad offrire scampoli di quelle esistenze - ripeto, solo in apparenza
ordinarie - consumati nei tanti brevi attimi che cuciti insieme fanno
una vita intera. Qualche volta - devo ammetterlo - mi sono arreso alla
tentazione d’inserire qualche piccolo dettaglio sprigionatosi dalla mia
immaginazione - senza, per questo, tradirne la verosimiglianza.
Coltivando il progetto ambizioso di tracciare un mio personale amarcord
sono andato a scavare nei ricordi di un bambino qualunque. Ho tentato
di riportare alla luce quelli che amo definire ordinari luoghi comuni.
Territori geografici o metafisici; realmente esplorati o frutto della
mia immaginazione; popolati da campioni umani o da creature leggendarie;
costruiti con immagini e voci; provvisti di forma e dimensioni;
arricchiti da emozioni personali o da sensazioni collettive; consumati
in brevi attimi o nei lunghi momenti di una vita. Parte cospicua del
risultato è contenuta in questo…time travel.
L’ho tessuto con premura - e con pazienza che neppure sospettavo di
possedere - sul malfermo arcolaio della mia perizia, utilizzando come
ordito i miei ricordi, come trama le mie parole. Non sono una …bestia da
prosa - forse, non lo diventerò mai - quindi ho dovuto sforzarmi di non
scrivere insulsaggini - in ogni caso non troppe - cercando, al contempo
- senza risultare troppo aforismatico, né sapienziale o pretenzioso -
di attenermi, quanto più fosse possibile alle sole persone e al loro
operato, anche se in qualche caso ovvio sono stato sentimentalmente
coinvolto.
Questo
è il meglio di cui sono stato capace. Voglio offrirlo a quanti hanno
condiviso quei ricordi con me, ma non hanno colto la straordinaria
normalità di quelle persone (o, se preferiscono, la loro normale
straordinarietà); donarlo a chi non ha vissuto quei tempi, perdendo il
momento propizio per apprezzarne la evidente diversità. All’unica
condizione che entrambe le categorie sappiano cogliere ora la tensione
drammatica ora la levità ironica che mi sono sforzato di contenervi.
Chi
avrà la ventura - o la sventura di leggerlo, dipende dai punti di vista
- vi potrà ritrovare, o sperimentare, le mie stesse sensazioni,
attraverso la suggestione che solo le testimonianze dirette riescono a
generare. Ho reclamato a me stesso di scribacchiare questo volumetto, e
l’ho fatto: con qualche fatica (Hoc opus, hic labor est!),
ma ricavandone puro piacere. E cercando anche di metterci dentro, qua e
là, una certa idea di poesia che mi porto in testa da sempre.
Per
questa e per mille altre ragioni mi auguro che le quasi 100 pagine che
seguono - fittissime, perché contengono più di 40.000 parole, ordinate
in 900 paragrafi, a loro volta distribuiti lungo 4.000 righe - non siano
considerate un impegno superfluo o, peggio, tempo speso male. E,
nemmeno, che appaiano rimembranze banali, prive di originalità. Auspico,
invece, che possano far assaporare ad altri sensazioni simili a quelle
che io ho provato scrivendole - altrettanto intense. E spero, pure, che
possano trarne lo stesso mio gusto i pochi - o i tanti - che le
leggeranno. Per questa ragione preminente ho deciso, alla fine, di
parteciparle. Le mie evocazioni non aspirano certo ad ottenere la
considerazione che meritano solo i più alti esercizi di stile; né a
fornire una nostalgica apologia dei tempi passati. Esse provengono
direttamente da un mondo anteriore - schietto ed espressivo. Se questo
mondo sia peggiore o migliore del nostro, in tutta onestà, io non posso
saperlo. Sebbene abbia tentato di fornire un abbozzo di risposta che
possa aiutare a comprenderlo - o, quantomeno, a farlo intuire. Solo per
iniziare, posso dire che quel mondo era anche nostro. Ci apparteneva e
nemmeno lo sapevamo. La nostra incuria ne ha provocato la definitiva
scomparsa. Ora, che non c’è più - o meglio, che non lo abbiamo più; che
non possiamo più disporne - dobbiamo limitarci a ricordarlo con un
pizzico di commozione. O - se preferite - addirittura a rimpiangerlo. E,
utilizzando quegli stessi struggenti ricordi, cercare il giusto, e più
che meritato, riscatto delle dignitose persone che l’hanno popolato e
animato. Perché, ora, più che mai, solo quelle persone possono
degnamente rappresentare quel mondo.
Da
quei giorni felici, che oggi mi appaiono come in un sogno - bello ma
ormai sbiadito - sono passati più di quarant’anni. Per quanto possano
sembrare lontani, quei giorni, quel mondo, quelle persone, insinuano il
dubbio che non siano mai esistiti davvero. In questo libro non si
tratterà di come magnificare quei giorni, quel mondo, quelle persone; ma
si tenterà, piuttosto, d’impedire la definitiva estinzione del loro -
fin troppo effimero - ricordo.
l'autore
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