Dalla mia raccolta di racconti paesologici: Le stagioni della lattaia, metto qui un estratto della Piccola storia n.3, quella che riguarda Don Giuseppe Lavalle ....il prete che vedeva lontano.
"...Don
Peppino era un musicista competente e discreto pianista. Sebbene, per
l’artrosi e per la pratica quotidiana, si ritrovasse delle mani
mostruosamente deformate. Le ricordo ancora quelle sue dita lunghe e
ossute, annerite dalla nicotina e dall’inchiostro. La punta arrotondata
le faceva somigliare a un mazzetto rinsecchito di quei funghi che si
trovano nei nostri boschi. Come li chiamano? Mazze di tamburo! Per lo
più Don Peppino suonava ad orecchio, senza spartito, un vecchio
organetto a mantice. Con quello amava accompagnare tutte le funzioni -
matrimoni o funerali che fossero. Non si era mai abituato al monumentale
organo dalle cento canne donato alla chiesa dagli emigrati in America -
molto più divertente ma anche molto più complicato. Solo quando glielo
chiedevano espressamente, e non poteva sottrarsi, gli toccava salire
ansimante la ripida scala di pietra viva che, inerpicandosi, si avvitava
nel ventre scuro del vecchio campanile - sospirando come se andasse al
patibolo. Così raggiungeva il coro. Dove prendeva posto, con un
saltello, sullo scivoloso panchetto di cipresso. Troppo alto e troppo
grande per lui. Si accomodava e dopo aver smanettato per un po’ sul
milione di tasti, leve e pulsanti che aveva davanti, cominciava a
strimpellare rabbiosamente. Qualche volta continuava ad accordare
l’impegnativo strumento con una mano, mentre con l’altra eseguiva
un’aria a caso pestando le dita sui tasti. Spingendo su per le canne le
sue strane armonie. Altre volte, fra lo stupore generale, confondeva le
melodie. Allora era subito richiamato dalla gomitata insolente
dell’allievo sfrontato che sedeva sempre al suo fianco. Cominciava
daccapo, come se niente fosse successo. Cantando con voce stentorea, nel
latino latinorum che odiavamo, i testi sacri che solo lui conosceva a
menadito - stavolta intonando le note giuste."
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