sabato 8 luglio 2023

   Essere come la moglie di Cesare. La destra non sa cosa significa e non vuole nemmeno saperlo.

   Essere come la moglie di Cesare è un modo dire che ha un significato ben preciso. 
Con essa, infatti, s'intende che si deve essere al di sopra di ogni sospetto, tenere un comportamento irreprensibile, onesto e moralmente ineccepibile.
La curiosa espressione allude a un episodio narrato da Svetonio nella sua opera storiografica De vita Caesarum (Vita dei Cesari). 
Cesare avrebbe ripudiato Pompea, sua moglie, dopo aver scoperto che Publio Clodio, amante della donna, si era introdotto, travestito da suonatrice, in casa sua per incontrarla.
Publio Clodio fu scacciato e successivamente portato in tribunale; Cesare fu citato come testimone, anche perché aveva ripudiato la moglie. Tuttavia, alle domande rivoltegli dal pubblico ministero, Cesare rispose che non conosceva di persona Publio Clodio e non era minimamente al corrente delle sue malefatte. Non convinto dalla risposta, il magistrato chiese a Cesare di essere più chiaro e per quale motivo avesse dunque ripudiato la moglie; il dittatore rispose allora dicendo: “Perché penso che la moglie di Cesare non debba essere neppure sfiorata dal sospetto”.
Oggi, in ambito giornalistico l'espressione si usa molto spesso in riferimento all’ambito della politica. 
Allora ricordiamo i diversi e svariati ''scandali'', e le polemiche che ne sono seguite, che, in nemmeno un anno di governo hanno come protagonisti personaggi del centro destra appartenenti, a diverso titolo, all'esecutivo della Meloni. 


Cominciamo dalle mendaci e improvvide dichiarazioni e successive smentite di Giovanni Donzelli che rivela segreti concernenti il caso Cospito e la mafia inguaiando la Meloni e Nordio, ministro della giustizia.  
Proseguiamo col ''caro cognatino'' Francesco Lollobrigida, ministro dell'agricoltura che intende incentivare le nascite a scapito della cd. sostituzione etnica. SIC!. 
E ancora, col defunto Berlusconi che include nel suo testamento Dell'Utri, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, il cui silenzio in tribunale e' stato pagato 30 milioni. 
E poi la Santanché, ministro del turismo, tra fallimenti e debiti, che va in parlamento fiera e baldanzosa invece di dimettersi e farsi arrestare. 




E il recente caso del ministro della cultura Santangelo che vota i libri finalisti per il il premio Strega senza averne letto neanche uno. Per sua stessa candida ammissione. 
E finire con La Russa, presidente del senato e seconda carica dello stato che, a proposito dell'accusa di stupro che ha colpito il figlio rapper e drogato, invece di dichiarare che ha profonda stima e fiducia delle istituzioni giudiziarie del suo paese, dichiara da buon arrogante leguleio qual e' che: ''Ho interrogato personalmente mio figlio e posso escludere che abbia commesso il benche' minimo reato''. Un caso veramente degno del migliore... LEI NON 
SA CHI SONO IO!!!!



 
Questa e' l'Italia che volevamo? SI! Questa e' l'Italia che volevamo CAMBIARE! 

martedì 14 febbraio 2023

14 febbraio: San Valentino.

L’amara ballata degli amori perduti.


La maggior parte delle persone non sa amare ne' lasciarsi amare, perche' e' vigliacca o superba; oppure perche' teme il fallimento.




Siamo sogni e speranze, siamo carezze non date, 

o date ma non ricambiate, siamo baci rubati nel buio,

siamo coiti interrotti, siamo parole non dette, 

dette male o maledette, siamo speranze di sogni 

ma viviamo incubi veri, siamo dubbi e certezze, 

siamo un esercito di anime dannate che niente sa 

dei sentimenti, che si diverte a giocare o a ignorare i

sentimenti degli altri.

Non esiste una scuola dove insegnano l’amore, non esiste una scuola dove s’impara ad amare, siamo solo buoni a parlare in una babele di lingue diverse, abbaiamo alla luna come volpi in amore d’estate,

siamo le luci di qualcuno, le ombre di qualcun altro, siamo ferite mai rimarginate suppuranti di pus, siamo piaghe purulente, siamo sudore, siamo macchie di sperma sulle lenzuola degli amanti, siamo saliva mischiata coi baci, siamo particelle di pulviscolo atmosferico che si sfiorano, si incontrano, si scontrano nella galassia finita che chiamiamo vita.

Siamo bocconi amari di amori masticati, relitti mal digeriti, rottami di storie finite, siamo i rifiuti di tanti amori smessi che tentano 

di riciclarsi, in continuazione, con disperazione, ma spesso senza riuscirci. 

In realta' abbiamo solo fame di sesso, ma facciamo finta di cercare l’amore. Tiriamo a campare d’amore, siamo morti d’amore, ma in fondo viviamo solo per il sesso.


martedì 10 gennaio 2023

Tutti i malati di cancro rifiutano la facile retorica contro il cancro. 

Ho cercato di spiegare come la pensava Patrizia, mia moglie, affetta dal cancro alla mammella dall'ottobre del 2010 e che per una recidiva del cancro e' morta nel gennaio del 2018, ormai 5 anni fa, nel mio libro piu' doloroso e drammatico: ''Il Cancro Addosso''. Niente la faceva irritare di piu' che la sequela ininterrotte di ''cazzate'' e di luoghi comuni sparati dai conduttori durante le pur rare trasmissioni televisive organizzate per raccogliere fondi: ''male incurabile''; ''male inguaribile''; ''brutto male''... Infatti non le seguiva mai! Cambiava canale, oppure si allontanava stizzita.



Oggi, sfogliando Dagospia, mi capita sotto gli occhi la intelligente e pertinente testimonianza di un giornalista professionista: Pier Luigi Battista, anche lui affetto dal cancro e pure lui attento a stigmatizzare l'inutilita' anzi, la dannosita', della stessa ripetitiva e trita retorica.

Il suo giudizio va nella stessa identica, univoca direzione.  

QUESTA RETORICA DELLA “GUERRA” CONTRO IL CANCRO FA SOLO DEL MALE AI MALATI – PIGI BATTISTA CRITICA I MEDIA PER COME RACCONTANO LE STORIE DI CHI, COME LUI, DEVE AFFRONTARE UN TUMORE – “SOFFRIRE PER SCACCIARE L’‘OSPITE INDESIDERATO’, COME LO CHIAMAVA VIALLI, NON È COME NE ‘IL SETTIMO SIGILLO’ DOVE VON SYDOW GIOCA A SCACCHI CON LA MORTE. E SE SBAGLI LA MOSSA DEL CAVALLO, ALLORA MERITI LA SCONFITTA DEFINITIVA, IL CANCRO HA FATTO SCACCO MATTO? È PIUTTOSTO UNA SEQUENZA DI NOTTI INSONNI, DI PAURA…”

Per fatto personale, impudicamente una volta e poi basta. E dunque per fatto personale, per favore, non chiamateci “guerrieri”, non abusate con la magniloquenza del “sta lottando/ha lottato come un leone”, non gonfiate il petto con il “non arrendersi mai” rivolto a chi si aggrappa con tutte le sue forze alla speranza che il cancro non prenda il sopravvento. Così, bellicosi come apparite, non ci fate del bene, non ci incoraggiate. Anzi, aggiungete angoscia ad angoscia.

 

gianluca vialliGIANLUCA VIALLI

Morire sarebbe una “resa”? Soccombere significa non aver guerreggiato bene? Dove si sbaglia, che tattica avremmo dovuto usare? Forse al dolore bisogna aggiungere l’umiliazione di una battaglia campale condotta male? Morire è una Waterloo?

 

Sappiate che soffrire per scacciare l’ospite indesiderato, come lo chiamava con una sensibilità che ancora mi commuove Gian Luca Vialli, non è come nel “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman, dove Antonius Max von Sydow gioca a scacchi con la morte. E se sbagli la mossa del cavallo, allora meriti la sconfitta definitiva, il cancro ha fatto scacco matto?

 

PIERLUIGI PIGI BATTISTAPIERLUIGI PIGI BATTISTA

La “guerra” contro il cancro è piuttosto una sequenza di notti insonni, di paura quando entri nel tubo della risonanza magnetica o della Tac, di terrore di guardare negli occhi chi ti ha appena fatto un esame, di gioia se quegli occhi esprimono soddisfazione: un altro ostacolo superato, tra un po’ ne arriverà un altro. Una guerra fatta di attese, sofferenza (“sono i farmaci”), debolezza.

 

E dove sai che la tua volontà è importante, ma non è l’arma determinante. E che invece degli squilli di tromba di chi ti esorta a fare il gladiatore, chi si sta impegnando allo spasimo per uscirne vivo avrebbe bisogno di affetto, di vicinanza, di attenzione, di ascolto, di non essere lasciato solo. Di vita.

 

gianluca vialli euro 2020GIANLUCA VIALLI EURO 2020

E ha bisogno di oncologi che sono sempre più bravi, della scienza che ha messo a punto e continua a mettere a punto cure sempre più efficaci, sempre più plurali. La guerra la fa una ricerca condotta da eroi e spesso trascurata da chi in mano le redini dell’autorità pubblica. Lo dico per fatto personale. Scusate l’impudicizia, ma non ne potevo più.

https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/questa-retorica-ldquo-guerra-rdquo-contro-cancro-fa-solo-male-338489.htm

venerdì 23 settembre 2022

Uno dei libri ai quali sono maggiormente affezionato e' naturalmente, il primogenito: ''Le Stagioni della Lattaia'', che ha per sottotitolo: ''Il Racconto della Donna che Mesceva il Latte con Altre Sette Piccole Storie''. 




Ma come nasce quella raccolta di racconti paesologici ante litteram? Me lo sono chiesto spesso e quasi ho stentato a rispondere a me stesso. Poi da qualche parte e' spuntato questo ''Prologo'' che avevo scritto tanto tempo fa, tanto tempo prima dei racconti, e' come un canovaccio, come il plot che prelude a una sceneggiatura vera e propria. L'ho pubblicato nell'altro mio libro ''Passeggiate nella Memoria Profonda di un Ragazzo di Paese''. Lo propongo ai mie tre lettori.



PROLOGO

Domani un amico di fuori viene a farmi visita. Mi ha telefonato stasera per confermare che arriva in treno, nella tarda mattinata di domani.
Vuole che vada a prenderlo alla stazione. Lui odia guidare. Altrimenti sarebbe venuto in macchina. Come lo capisco. Non riesce a scrollarsi di dosso l'insofferenza per le automobili. Io, al contrario, ho dovuto farlo per forza. Come si dice? Ho fatto di necessità virtù. Ma, lui non ha necessità e, quindi, nemmeno ha bisogno di essere virtuoso. Viaggia solo in treno e in aereo. Se non ha chi va a prenderlo non disdegna di prendere una corriera. Aspetto, da un po’, alla stazione. Sto fermo sul binario, bene in vista. Avrei dovuto fargli uno scherzo e scrivere il suo nome su un foglio, come si vede all’aeroporto. Ma non ho con me l’occorrente. Il treno sta arrivando, non avrei nemmeno il tempo di cercarlo. Spunta in fondo al binario, lo vedo da lontano. Fin dove arriva il mio sguardo di miope. Appena si ferma, lui scende per primo. Lui scende sempre per primo. Si alza dal sedile un quarto d'ora prima e si avvicina alle porte scorrevoli. Quando il treno si ferma, e quelle si aprono automaticamente, lui si fionda fuori. Scende. Gli corro incontro. L'abbraccio forte. Mi è molto caro.
E' un secolo che non ci vediamo. Come stai? Non sai che piacere mi fa vederti qui. Ce l'hai fatta almeno una volta a venirmi a trovare. Adesso ti dico il programma che ho in mente per te. Andiamo subito a casa. Abbiamo tanto da raccontarci. Le feste finiamo di farcele lungo la strada. Arriviamo, ti rinfreschi e mangiamo qualcosa. Stappiamo pure una bottiglia di vino. Di rosso. Quello buono. Ricordo che ti piace il vino californiano. Lo so! Tu gradiresti uno Zinfandel. Ma, io ho in serbo per te un vino rosso pugliese, un Primitivo di Manduria che si chiama Anarkos. Il vino pugliese costa poco ed è buono. Anche se sono la stessa cosa: è 
buono come lo Zinfandel, ma costa molto meno. Poi usciamo. Usciamo subito. Senza nemmeno riposarci. Voglio farti vedere il paese. Per te sarà una vera sorpresa. Ho in mente di farti visitare dei posti curiosi e di raccontarti i luoghi dove abitavano alcune persone che conoscevo. Di tutti i posti, di tutte le persone che ho frequentato da bambino, mi sono portato dietro un ricordo indelebile. Attraverso i miei libri cerco di trasmetterlo agli altri. Cerco di fare presto, perché il tempo ci cambia e noi cambiamo i ricordi.

Dopo pranzo, come d'accordo, col mio amico, usciamo da casa. Abito fuori dal centro abitato, ma il paese è piccolo, facciamo qualche centinaio di metri dalla periferia verso il centro e siamo già sul viale. Abbiamo appena passato la casa dei miei nonni materni, in fondo al viale, un po’ prima del cimitero. Imbocchiamo il viale da sud, arriviamo subito al parco; è dove una volta c'era il campo sportivo.

Vieni proseguiamo la nostra passeggiata. Tu hai molto da vedere. Io ho molto da raccontarti.
Andiamo in leggera salita, avanziamo lentamente sul marciapiede. Ci impegniamo a fare una specie di slalom fra gli alberi. Contiamo la lunga fila di tigli in fiore. In questa stagione i tigli in fiore emanano un odore inebriante. Penso ad alta voce. Questo posto è cambiato molto negli anni.

Passiamo davanti alla casa del medico Samuele. E' stata restaurata. Ora ha la facciata appariscente: è dipinta di rosso. Chissà, se piacerebbe al dottore. Lui, che amava passare inosservato, l'aveva fatta tutta bianca. Arriviamo di fronte al distributore di benzina. Ora è chiuso, caduto in disuso.

Vedi le tre costruzioni uguali che abbiamo davanti? Sono le Case Popolari. Noi le chiamavamo Casette. Furono fabbricate subito dopo la guerra. Io abitavo alla prima. In quella centrale abitava una persona davvero affascinante, un uomo eccezionale. Avresti dovuto vederlo, conoscerlo e parlarci. Per me era un vero enigma. Non sapevo da dove arrivasse. La sua storia è legata a un lavoro che non esiste più. La lavorazione a mano dello strame. Ti sembrerà strano, ma al mio paese, fino a quaranta cinquant'anni fa l'attività principale era la lavorazione dello strame. Con quell'erba mietuta, seccata e battuta, s'intrecciavano le funi che servivano a legare i fardelli e le bestie. Ci riempivano i cassoni di un camion, quando venivano da fuori per prendere il lavorato. Nato chissà quando, quell'artigianato è proseguito fino alla scoperta delle cave di marmo. Erano i primi anni '60. Qualche coraggioso, per quattro misere lire, ha proseguito la lavorazione dello strame anche dopo. Uno di questi era Alessandro, il funaio che somigliava a Nero Wolfe. Quando è morto lui, nessuno ha più fatto quel lavoro. Quel lavoro è morto con lui. Se t'incuriosisce vedere come si lavora lo strame, la prossima volta che vieni ti porto in un paese vicino, a Ventosa, in provincia di Latina, dove qualcuno ancora lo fa. Più per sfizio e per tradizione, che per vera necessità.

Poco più avanti, siamo al civico n.10. Il posto, dove le mie sorelle giocavano a campana sul marciapiede ed io mi divertivo a sbucciarmi le ginocchia. Io abitavo al secondo piano. Nello stesso stabile, al primo piano, nel quartino centrale, abitava Sergio. Il mio migliore amico. Il fratello maggiore che non ho mai avuto. Suo padre si chiamava Giovanni, era un contadino vero. Risaliamo lentamente il viale. Oltrepassiamo la curva e siamo quasi in piazza.

Dove adesso c'è quel garage lungo e stretto c'era il bar di Zio Fiore e di fronte c'era il vespasiano. Dopo il bar, la Villa Comunale e la Piazza Centrale, la più importante del paese. Il posto dove tutti gli abitanti si ritrovavano la sera dopo il lavoro. Il luogo dove le piccole comunità, come la nostra, distillavano la loro identità più autentica. Ora non usa più. Resta solo l'antico foro. Proprio davanti a noi si staglia il campanile, la costruzione più alta del paese. E' stato ristrutturato dopo il terremoto del 1980. Quella sera si staccò qualche pietra, ma per fortuna non fece danni. Accanto ci sono la chiesa e la canonica. Dove abitava Don Erasmo Ruggiero, l'arciprete pittore. Dopo di lui venne Don Raffaele Pimpinella, mio grande amico. Se avessimo proseguito in discesa lungo via T. Tasso, dopo cento metri avresti trovato i Lavandini. E più avanti, girando a sinistra saremmo arrivati alle Vallisconti. Il paese è cambiato molto negli ultimi trenta quarant'anni. Anche questo posto è cambiato molto negli ultimi anni. Non so se sia meglio o peggio, ma la piazza non era come appare adesso. Oggi sembra di stare in un paese fantasma. Questa piazza di pietra, deserta e desolata, ricorda certe piazze dei quadri di De Chirico. Non c'è mai nessuno. Allora non era mai deserto. Ancora non c'era quest’orrenda costruzione che ospita gli uffici comunali. Qualcuno l'ha ribattezzata apparecchio per i denti. Mica ha tanto torto! Intorno al lato sud della piazza girava un muretto di pietra con i sedili di un cemento grigio, grezzo e ruvido. Ognuno di essi, raccordato ai successivi con delle sbarre tonde, come delle robuste canne di ferro. Al centro della piazza sorgeva una fontana tonda con l'alto zampillo centrale e una vasca con le carpe rosse. Non morivano mai di vecchiaia, quei pesci. Ogni giorno erano seviziati dalle punte delle nostre canne. Di sotto c'erano un piccolo fazzoletto di terra, coltivato a vigneto e più sotto un prato con un covone di fieno al centro, gliu metale. Ricordo che sul muretto della piazza ci vedevo spesso, sdraiato a dormire, uno strano personaggio. Gerardo, un vecchietto naif. Attraversiamo la piazza, dal lato opposto di Viale della Libertà. Imbocchiamo l'altro, dei due più importanti decumani del paese: Via IV Novembre.

Seguimi! Ti faccio vedere un altro posto interessante. 

Facciamo pochi passi, appena un paio di decine di metri e passiamo la strettola re Guardianeglio. Sulla facciata restaurata da poco, ci ritroviamo a guardare una targa di marmo. E' stata apposta (il sindaco di allora disse che era stata opposta: che orrore! Ma, lui si che era un vero umanista.) dall'amministrazione comunale in memoria di Don Giuseppe La Valle, il prete che vedeva lontano. 

Vieni amico mio. Dobbiamo affrettarci. Ci sono ancora un paio di posti e qualche persona che devi ancora conoscere.

Sfiliamo davanti a una casa che pare un castello, per quanto è alta. Ma, non è bella come un castello. Il castello che il paese non ha mai avuto.
Qui hanno fatto sparire un panorama magnifico. Prima si vedeva un paesaggio che sembrava una valletta alpina. Tutta verde. Con le casette sullo sfondo. Un villaggio di montagna, col mare di Gaeta sullo sfondo. Una cartolina. Ora non si vede più niente.

Abbasso lo sguardo, evitando altri inutili commenti. Proseguiamo. Sfilando davanti alle Scalette.
Collegano Via IV Novembre a Via Roma. Raggiungiamo più avanti un altro stabile che pare in costruzione, ma era in restauro, fino a qualche decennio fa, e non è mai stato terminato. Le sorelle D'Alessandro volevano costruirci un ospizio per i vecchi del paese, ma è rimasto incompiuto.

Proprio qui - indico al mio amico il punto esatto - affacciato sulla via principale, un centinaio di metri prima di Piazza Quercia e della Scuola Elementare Cesare Battisti, c'era il bazar delle Sorelle D'Alessandro. Adesso vieni, voglio farti vedere la mia scuola. La scuola di mio padre. Tu non l'hai mai conosciuto. Ma sono sicuro che ti sarebbe piaciuto. Piaceva a tutti i miei amici. Te ne racconto rapidamente la storia mentre visitiamo la sua aula.

...Oggi abbiamo trascorso una bella giornata assieme. Abbiamo anche fatto una bella passeggiata. Scusami se ti ho riempito di chiacchiere, ma volevo solo che vedessi alcuni luoghi della mia fanciullezza e conoscessi, attraverso i miei racconti, alcune delle persone che hanno arricchito la mia infanzia. Ora dobbiamo tornare a casa. Devi prepararti al ritorno. Ma, quasi dimenticavo di dirti la cosa più importante. La vera novità. Ho terminato il mio libro. Finalmente! Dirai. Vorrei che tu lo leggessi per primo. Poi mi dirai cosa ne pensi. Vorrei che tu lo leggessi per primo. Ma, mi raccomando! Il tuo giudizio dev'essere spietato. Te ne ho stampata una copia, in anteprima. Leggilo sul treno. E fammi sapere che ne pensi. Ciao, caro amico mio, adesso non mi resta che salutarti.

Arrivederci! 

martedì 15 febbraio 2022

Studi sull'amore. Il giorno dopo.

 Studi sull'Amore. Il giorno dopo.



Che cos'è l’amore?

Domanda difficile.

Cosa sia l’amore esattamente nessuno lo sa.

Perché ciascuno di noi ha la sua idea dell’amore, il suo personale concetto.


Per Ovidio... 

l’amore è una cosa piena di ansioso timore.


Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende... 

scriveva, invece, Dante Alighieri qualche secolo fa. 

Ma così spiegava soltanto quello che l’amore fa, non quello che l’amore e’. E quando, tra le anime peccatrici del suo Inferno, ne scorge due che procedono insieme, i lussuriosi Paolo e Francesca, ed esse gli sembrano più leggere al vento che le colpisce, scrive… 

quei due che ‘nsieme vanno e paion sì al vento esser leggieri. Dal che, quindi, si potrebbe dedurre che chi si ama e’... leggero?!?!? E prosegue ancora con altri divini versi… 

amor ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte...


Per Shakespeare che, pur sapendola lunga sull’amore, si e’ guardato bene dal dirci cosa sia davvero, l’amore conterrebbe un po’ di follia…

se non ricordi che l’amore t’abbia mai fatto commettere la più piccola follia, allora non hai mai amato.


Per D'Annunzio, grande amatore, che smentisce cosi’ quanti lo credono solo un seduttore seriale l’amore e’ un fatto cerebrale… 

ci sono certi sguardi di donna che l'uomo amante non scambierebbe con l'intero possesso del corpo di lei. Immagine fantastica e vera, degna del Vate. 

Per qualcuno l’amore e’ solo un sentimento di attaccamento a qualcun’altro. Quasi lapalissiano! 


Ma anche tutte le altre idee circolanti sull’amore sono buone e plausibili, seppure tendenti a disegnare non l’unicum ma tanti piccoli particolari, quasi come una sineddoche periodica.

Alcuni sono convinti che l’amore non esisterebbe, sarebbe solo leggenda.

Alcuni altri, invece, che l’amore sarebbe tutto. E che senza amore non sarebbe possibile vivere.

Forse la verità sta nel mezzo. 


Per Bergman... 

l’amore e’ Dio e Dio e’ amore.

Salvo smentirsi quasi subito mettendo in bocca allo scudiero filosofo Jons del Settimo Sigillo queste precise parole… 

l’amore e’ fatto di lussuria piu’ lussuria, di inganni piu’ inganni, di menzogne sotterfugi e scempiaggini… l’amore e’ una faccenda molto dolorosa e alle volte sembra di doverne morire ma poi, invece, passa… e’ estremamente raro che uno stupido muoia per amore... se tutto e’ imperfetto in questo imperfetto mondo l’amore, invece, e’ perfetto nella sua assoluta e squisita imperfezione.


Per alcuni l’amore non sarebbe altro che un sentimento amoroso con risvolti passionali. Ma va’!

Allora forse l’amore e’ il desiderio? 

Forse l’amore e’ la passione? 

O, forse, l’amore e’ solo compassione? 

Nel senso colto di patire con, soffrire insieme a qualcuno.

Forse l’amore e’ solo sesso o anche sesso? 

Quello sporco naturalmente, come sostiene Woody Allen, tra il faceto e il serio.

O, forse, l’amore vero col sesso non c’entra proprio nulla?

Molti non sapendo esattamente cosa sia l’uno e cosa sia l’altro lo confondono. O fanno finta?

Eppure… 

ti voglio, ti desidero, voglio farti mia, voglio toccarti, voglio entrare in te 

tutti lo hanno detto almeno una volta nella vita e se non lo hanno detto almeno una volta una volta almeno l’hanno pensato. 

E tutti, o quasi, almeno una volta lo hanno sentito dire nella vita.

Quindi l’amore e’ tutto e niente, e’ bianco e nero, e’ fisico e mentale, e’ gioia e dolore, e’ meraviglia e stupore, e’ emozione e passione, e’ commozione e trepidazione, e’ erotismo e voluttà, et multa alia... 

Allora, in conclusione, che l’amore sia affetto e calore, dolcezza e tenerezza, dolore e sofferenza, attrazione e trasporto, legame e relazione, sesso e fisicità, si può’ dire che… 

ogni amore e’ una storia e ogni amore e’ un romanzo. 

E si puo’ dire anche che... 

chi ama l’amore lo riconosce


Ah! Che cos'è l’amore per me? Quasi dimenticavo di dirlo. L’amore per me e’ quando... 

lei sta bene con lui e lui sta bene con lei. E potrebbero continuare a farlo fino allo sfinimento. 

Semplice, no? 

Cos’altro potrebbe essere l’amore?


sabato 23 ottobre 2021

 ''Scene da un matrimonio'' un capolavoro di Ingmar Bergman.



   Si e' molto parlato in questi giorni della nuova serie tv ''Scene da un matrimonio'', il remake in lingua inglese dell'omonimo film di Ingmar Bergman del 1973. Questa ha come protagonisti, peraltro abbastanza bravi, Oscar Isaac e Jessica Chastain, oltre che brava anche bella,  nei ruoli che furono dei due portentosi attori feticcio bergmaniani: Erland Josephson e Liv Ullmann. Io l'ho visto, e devo dire che la serie ha luci e ombre. E aggiungo anche che non ha niente a che vedere con il film originale di Ingmar Bergman. Peraltro il regista Hagai Levi ha riadattato e rimaneggiato la strabiliante sceneggiatura del maestro svedese. Ne risulta una trama quasi completamente nuova e personale che ricorda solo lontanamente quella dell'originale. Non staro' qui a tentare di dissuadere a non farlo, chi volesse vedere la serie lo faccia pure. Mi permetto, pero', di dare un consiglio. Dopo averla vista andate a rivedere il film di Ingmar Bergman e noterete da soli e senza esitazioni le enormi differenze tra le due opere che evidentemente di uguale hanno solo il titolo. Dopo di che, se volete anche assaporare tutta la profondita' del film svedese potreste leggere il mio saggio: ''Scene da un matrimonio Un capolavoro di Ingmar Bergman'' che contiene una sinossi completa del film e la mia recensione.

Metto qui un ampio stralcio del mio lavoro.

L'incomunicabilità nella coppia moderna.
Scene da un matrimonio è l'ennesimo film di Ingmar Bergman sul problema della incomunicabilità tra gli uomini e sul dramma della impossibilità di una corretta gestione dei rapporti interpersonali e interfamigliari. In Scene da un matrimonio Ingmar Bergman affonda il suo bisturi in modo profondo, crudo, violento, volutamente e assolutamente impietoso, senza anestesia, nella carne viva della istituzione familiare per eccellenza: il matrimonio. L'opera è un affresco complesso e impressionante dell'istituto matrimoniale, un quadro contundente, dipinto con palese, quasi compiaciuto pessimismo, in parte dovuto, come quasi sempre nei film di Ingmar Bergman, a motivi autobiografici. In questo caso specifico contribuisce, certamente, la fine recente della sua relazione con Liv Ulmann. “Ingmar mi lasciò con una lettera di undici pagine.” A Ingmar Bergman non interessa dipingere la separazione dei due coniugi, ma piuttosto lo studio analitico della fenomenologia del fallimento dell'evento matrimoniale e le sue conseguenze sui singoli. I due protagonisti, Marianne e Johan, nell'intervista che apre il film, si presentano come due coniugi felici, soddisfatti, accontentati, quasi compiaciuti (a dire il vero più lui che lei) dalla perfezione del loro rapporto e dall'obiettivo della macchina fotografica del cameraman, che pare carezzarli immortalandoli in momenti di vero rapimento, di estasi matrimoniale. Ma quella perfezione inespressiva, che si rivelerà finta, sembra fin dall'inizio troppo fragile per resistere alla furia delle liti e delle discussioni. Ingmar Bergman aveva già accennato all'impossibilità della coppia di vivere nella sincerità, e di resistere alle intemperie della vita, nel suo precedente "Sussurri e grida". Tra i due coniugi (interpretati dagli stessi attori che lì erano amanti), infatti, si fanno strada sospetti e diffidenze, rimorsi e tormenti, fallimenti e delusioni, capaci di far franare il loro ideale di vita comune. Quando Johan confessa alla moglie di averla tradita, in lei traballa l'equilibro psichico. Marianne ricorda la profetica esposizione della signora Jacobi, sua assistita, che le aveva raccontato come può essere non solo rovinoso ma autodistruttivo un matrimonio vuoto d'amore. È anche questa la causa dell'esplosiva violenza di Johan nei confronti di Marianne, al momento di firmare le carte del divorzio e dell'isterico impulso erotico che spinge Marianne a chiedere al marito sempre un ultimo bacio, un'ultima notte, un ultimo amplesso, un ultimo piacere. La coppia, ritrovato l'equilibrio nervoso e un minimo di civiltà, riesce a ritrovarsi solo grazie al dialogo, alla tolleranza, alla comprensione e alla tenerezza dei ricordi. Attraverso l'egoismo si arriva alla morte del matrimonio; dalle ceneri del matrimonio, attraverso la solidarietà reciproca, la capacità di ascoltare, la lealtà e la capacità di comprendere, rinasce - una nuova consapevolezza. Il film narra la radicale trasformazione del sentimento che ha indotto la coppia alla convivenza, l'amore, in puro odio. E prova che gli obblighi e le convenzioni possono essere nemici delle relazioni matrimoniali. Il film lancia un messaggio universale di rispetto fra gli uomini. Mutua il messaggio evangelico : “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che Bergman, all'inizio del film, mette in bocca a Marianne. Per Bergman “Dio è l’Amore, e l’Amore è Dio. L’Amore è una prova dell’esistenza di Dio. L’Amore è la sola realtà di questo nostro pietoso mondo terreno.”


giovedì 2 settembre 2021

 Cosa penso di Roberto Benigni. In breve. 




Rischio di essere una voce fuori dal coro di giubilo per il premio alla carriera attribuito al comico ieri a Venezia, ma Roberto Benigni non mi è mai piaciuto e non mi è mai stato simpatico. Ciò non toglie che per curiosità e necessità di documentazione abbia visto molti se non tutti i suoi film e abbia seguito abbastanza assiduamente le sue apparizioni in TV. A mio personalissimo parere è attore e regista ampiamente sopravvalutato. E sempre a mio modesto avviso è reo di aver sdoganato nello show-bizz italiano la furbizia a danno dell'intelligenza. Da alcuni è considerato un genio, mentre è solo un genialoide pazzo, troppo spesso anzi, quasi sempre, sopra le righe, perché ha capito che oggi per avere successo bisogna proporre qualcosa di originale. Sono 50 anni che, praticamente, propone sempre lo stesso copione e ormai e' diventato la parodia di sé stesso. Ha capito che in Italia, per essere qualcuno, bisogna avere santi in paradiso e lui e' andato a cercarseli sempre tra quelli che detengono il potere. Cosi' sfrutta molto bene le amicizie nel mondo del cinema, ma anche quelle politiche, grazie alle quali si procura cachet milionari e grazie alle quali ha portato a casa un Oscar largamente immeritato che gli consente di vivere di rendita. Per completare il quadro manca solo che quei ridicoli insipienti giurati svedesi gli attribuiscano un Nobel al quale - udite! Udite! E' già stato candidato nel 2007. Sic! Per quale categoria? I Guitti! Ultima annotazione: sbandiera ai quattro venti la sua cultura e poi sbaglia termini di uso corrente nella lingua italiana. Andatevi a guardare su YouTube il video del suo monologo sul Cantico dei Cantici del 2006 e lo sentirete pronunciare la parola alvèo invece che àlveo. Uno scandalo! Forse sarebbe il caso, per ripristinare nel nostro tanto vituperato paese un livello minimo di credibilità e di sensatezza ricominciare, ad esempio, a mettere un po' d'ordine nei giudizi critici e un piu' equilibrio nell'uso delle parole. A cominciare, magari, dalla parola genio. Come giustamente diceva Moretti... Ma come parli? Le parole sono importanti.
P.S. Onestamente a me Benigni ha rotto il cazzo! Ops! Non si può dire? Allora è meglio usare uno dei nomignoli che lui stesso ha proposto per dire... cazzo. Potete sceglierlo nell'elenco che segue: la sberla, il calippo, il pitone, il missile, l'obelisco, la baguette, la ciriola, il maritozzo, il pendolino delle 18,30, lo sciupavedove, lo sventrapapere, il vermicione, il tronchetto della felicità, l'affare, l'arnese, il malloppo, il pacco, il bastone, il candelotto, il manico, il cavicchio, la falce, la pertica, il fuso, il manganello, il ferro, la manovella, il randello, la mazza, l'asta, l'archibugio, la clava, la mazza, l'arpione, il timone, il batacchio, il bischero, il piffero, il cero, la reliquia, il belino, il fiorino, il quattrino, il tallero, il crick, il menhir, il pirla, lo scettro e... gli altri 100 tutti da lui codificati e sdoganati decenni fa in TV davanti a una falsamente basita e o falsamente divertita Raffaella Carra'.

smr


venerdì 5 marzo 2021

  Oggi 5 marzo Pier Paolo Pasolini, se fosse sopravvissuto abbastanza, avrebbe compiuto il suo 99esimo compleanno. Ovviamente la domanda e' una sola. Quale sarebbe stato il suo commento sull'attuale situazione polica, sociale ed economica della nostra Italia. Metto qui una delle sue poesie piu' belle, a dispetto di qualche purista attento piu' alla metrica che alla profondita'. Una di quelle che sicuramente piu' lo rappresentano. E, comunque, una di quelle che a me piacciono di piu'.


















''La terra di lavoro''.

Poesia tratta dal suo libro ''Le Ceneri di Gramsci''. Contenuta nell’ultimo degli undici poemetti che lo costituiscono. Considerato, se non il suo capolavoro, uno dei suoi libri più letti, per la virulenza dei versi che raggiungono nei testi portanti vertiginose altezze poetiche. Colpisce il pathos, dai versi affiora la cupa drammatica immagine del quadro di Daumier “Il vagone di terza classe”, ma gli sguardi di quegli emarginati che si vergognano della loro povertà, vissuta come una colpa, non sono certo un’immagine fine a se stessa.




E non sfugge a Pasolini la dolorosa scoperta dello schiacciamento delle masse popolari da parte del Potere, vittime di una societa' che nei primi anni ’50 si sta delineando nelle sue forme piu' aberranti di privilegio e di esclusione. E questi potenti versi di denuncia non sono altro che il suo bisogno di raccontare le deformazioni della realtà sottraendosi alla logica perversa di una società corrotta e servile.

''Dentro, nel treno che corre mezzo vuoto,
il gelo autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori è il paradiso,
qui dentro è il regno dei morti,
passati da dolore a dolore
- senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,
eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto di pane unto,
masticando male, miseri e scuri
come cani su un boccone rubato:
e gli sale se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.
Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento, se lo guardi,
ti guarda con il cuore negli occhi, quasi,
con spavento, a dirti che non ha fatto nulla di male,
che è un innocente...
in una gioia ch’è forse conservata
- come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra - in fondo al cuore di
questi poveri viaggiatori: vivi, soltanto vivi,
nel calore che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,
e anche la tua pietà gli è nemica.''