lunedì 30 luglio 2012

30 Luglio 2007-30 Luglio 2017: Oggi la morte del Genio di Uppsala.



Dieci anni fa moriva a Faro il più grande regista cinematografico di tutti i tempi ed uno dei maggiori registi teatrali.
Era un lunedì come oggi.
Era un caldo 30 Luglio come oggi e come tanti d'estate. Anche in Svezia.
Solo una quindicina di giorni prima Bergman aveva evitato di presenziare alla Bergman Weckan (La settimana in onore di Bergman) che si svolgeva, come ogni anno, sulla sua isola: un portavoce del regista aveva scritto, in un laconico comunicato che il Maestro avrebbe disertato le manifestazioni, alle quali pure aveva promesso di partecipare, per generici motivi di salute.

Lo ricordo, come è giusto, con una frase, tra le più belle delle tante che il Maestro ci ha lasciato.
E con l'incipit del magnifico libro che Aldo Garzia (malato, come me, di bergmanitudine) ha voluto dedicare al Maestro nel 2010.


"Io non sono un genio, sono un artigiano. Con il tempo sono diventato un artigiano maledettamente abile ed esperto, che sa fare buoni articoli, generi di prima necessità. Roba di cui la gente normale ha bisogno nella vita di tutti i giorni per stare un po meglio e dimenticare la melma in cui si vive. Per poter piangere un po e ridere un po, e magari rabbrividire un tantino. Questo è tutto."

(I.E.B.)




"La notizia della morte di Ingmar Bergman è arrivata da Faro, l'isola dove aveva deciso di vivere fin dagli anni '60, come un colpo di fucile. Lunedì 30 Luglio 2007 alcune generazioni si sono sentite orfane. Era scomparso un padre putattivo che con fare burbero e deciso aveva accompagnato prima la nostra adolescenza e poi la maturità indicandoci i temi sui quali è bene ogni tanto soffermarsi, prendere fiato, pensare. Non aveva rinunciato a questo ruolo nemmeno nell'ultimo decennio, ormai ottuagenario. I suoi messaggi in bottiglia continuavano a tenerci compagnia.
Poteva trattarsi di un libro, di un film televisivo, di una sceneggiatura portata sul grande schermo da altri o di un'intervista. Spettava a noi aver voglia di confrontarci con lui: leggere, vedere, decifrare quello che aveva voluto raccontare."

(dal libro di Aldo Garzia: "Bergman The Genius", La vita, le idee. i film, i rapporti con l'Italia, l'amore per l'isola di Faro)

P.S. Come se non bastasse, lo stesso giorno moriva un' altro Maestro del cinema: Michelangelo Antonioni. Nello stesso maledetto giorno il cinema si era impoverito di due grandi personaggi peculiari, unici, originali, innovativi, insostituibili, a loro modo scomodi. Quel maledetto giorno il padreterno aveva un maledetto bisogno di registi, ma non di registi normali, di veri e propri Maestri.
Ne scelse due, tra i più grandi.


Non ho aneddoti personali che riguardano il mio idolo, Ingmar Ernst Bergman, che non ho mai conosciuto. Ho, invece, un piccolo ma piacevole ricordo personale di Michelangelo Antonioni. Lo voglio condividere, volentieri, con gli amici del mio blog. Incontrai Antonioni a Fiumicino una ventina di anni fa, prima d'imbarcarmi in aereo per un mio viaggio negli U.S.A.. Era anziano e provato dalla grave malattia, seduto in carrozzella, spinta dalla molto più giovane e bella moglie.
Non potevo fare finta di niente, avevo davanti a me un grande del cinema. Diedi un colpo di gomito al braccio di mia moglie che era al mio fianco, forse distratta. Lo salutai con un deferente ..."buongiorno Maestro!" Mi rispose con l'accenno di un sorriso. Anche solo quello costituiva molta fatica per lui. Mi regalò, comunque, un bel ricordo da portare con me e da condividere con voi.



sabato 28 luglio 2012

Piccola storia n.3 Don Peppino, il prete che vedeva lontano.

 Dalla mia raccolta di racconti paesologici: Le stagioni della lattaia, metto qui un estratto della Piccola storia n.3, quella che riguarda Don Giuseppe Lavalle ....il prete che vedeva lontano.


"...Don Peppino era un musicista competente e discreto pianista. Sebbene, per l’artrosi e per la pratica quotidiana, si ritrovasse delle mani mostruosamente deformate. Le ricordo ancora quelle sue dita lunghe e ossute, annerite dalla nicotina e dall’inchiostro. La punta arrotondata le faceva somigliare a un mazzetto rinsecchito di quei funghi che si trovano nei nostri boschi. Come li chiamano? Mazze di tamburo! Per lo più Don Peppino suonava ad orecchio, senza spartito, un vecchio organetto a mantice. Con quello amava accompagnare tutte le funzioni - matrimoni o funerali che fossero. Non si era mai abituato al monumentale organo dalle cento canne donato alla chiesa dagli emigrati in America - molto più divertente ma anche molto più complicato. Solo quando glielo chiedevano espressamente, e non poteva sottrarsi, gli toccava salire ansimante la ripida scala di pietra viva che, inerpicandosi, si avvitava nel ventre scuro del vecchio campanile - sospirando come se andasse al patibolo. Così raggiungeva il coro. Dove prendeva posto, con un saltello, sullo scivoloso panchetto di cipresso. Troppo alto e troppo grande per lui. Si accomodava e dopo aver smanettato per un po’ sul milione di tasti, leve e pulsanti che aveva davanti, cominciava a strimpellare rabbiosamente.    Qualche volta continuava ad accordare l’impegnativo strumento con una mano, mentre con l’altra eseguiva un’aria a caso pestando le dita sui tasti. Spingendo su per le canne le sue strane armonie. Altre volte, fra lo stupore generale, confondeva le melodie. Allora era subito richiamato dalla gomitata insolente dell’allievo sfrontato che sedeva sempre al suo fianco. Cominciava daccapo, come se niente fosse successo. Cantando con voce stentorea, nel latino latinorum che odiavamo, i testi sacri che solo lui conosceva a menadito - stavolta intonando le note giuste."

venerdì 27 luglio 2012

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Le sorelle D'Alessandro: bottegaie nella Coreno degli anni '60.

Una volta i commercianti avevano un'anima. Facevano il loro lavoro con passione, quasi con dedizione. Oggi molti di loro hanno spostato il cuore dalle parti del portafoglio o viceversa.
E fanno solo compassione!
In ricordo di tutti quelli che non esistono più, metto qui un breve estratto dal racconto dedicato alle Sorelle D'Alessandro, bottegaie nella Coreno degli anni '60.


".....Le sorelle avevano e vendevano tutto. Qualunque articolo i clienti cercassero, solo lì erano certi di poterlo trovare. Anche se al momento non l’avevano disponibile, le sorelle si dichiaravano in grado di poterlo procurare in breve tempo. E per qualunque somma si fosse disposti a sborsare. Era un vero bazar. Le sorelle avevano, vendevano, e procacciavano tutto. All’interno del negozio il caos regnava sovrano. Non si capiva come potessero destreggiarsi in tale e tanto scompiglio. Infatti, solo loro ci riuscivano - miracolosamente. Entrando ti trovavi subito davanti un vecchio, robusto bancone di legno massello, col ripiano lisciato dall’uso - sempre pieno di merce gettata alla rinfusa. La gente l’aveva scartava. Quelle vecchine, con la buona intenzione di riporla subito dopo, l’ammucchiavano da una parte. Lì era destinata a restare per secoli. Addentrandoti eri costretto ad attraversare una trincea letteralmente scavata nelle mercanzie più svariate. Sulle mensole di due monumentali scansie contrapposte ci potevi trovare di tutto: cataste altissime di scatole di cartone con dentro diosolosàcosa, impilate l’una sull’altra in precario equilibrio; cassette di compensato maleodoranti, col fondo rivestito di frutta avariata; scampoli di stoffa a quadretti bianchi e rossi, buoni per ricavarne tovaglie per tavole da pranzo; gomitoli gonfi di lana soffice e multicolore, per maglie e calzini; completi per bimbo, rosa o celesti; corredi bianchi di pizzo o cotone, per spose promesse; fasci di calze e mutandoni di lana; perfino carrube; olive spaccate annegate nell’acqua; fichi secchi infilzati da spiedini di legno; marzoline; lupini; giuggiole appassite; altra frutta in via di decomposizione; barattoli di vetro  con sottolio e sottaceti caserecci; e quant’altro loro considerassero oggetto di compravendita - praticamente tutto. Se chiedevi qualcosa, non so come né dove, ma loro l’avevano. Riposta da qualche parte, conservata in un nascondiglio che solo loro sapevano - ma l’avevano. Anche se non la vedevi, loro l’avevano. Quelle vecchiette, pur di servirti a dovere, brigavano, rovistavano, ispezionavano, spulciavano, cercavano, setacciavano, perquisivano, frugavano dappertutto. Buttando all’aria qualsiasi oggetto fosse a portata di mano ma non servisse al momento. Solo ogni tanto riaffioravano, per dirti d’avere fiducia e pazienza. E per assicurarti. Erano proprio lì lì per trovarla. Mentre, aggiustandosi il fazzoletto fuori posto sulla testa, spuntavano curiosamente, gli occhi spiritati, oltre il ciglio del bancone. Come si sporgerebbero dei folletti, se esistessero davvero, da un cespuglio nel bosco fatato, se esistesse davvero. Dopo lunga e laboriosa ricerca ti porgevano, finalmente, l’affare della vita. Gentilmente. Sudate e ansimanti. Estenuate dallo sforzo, ma soddisfatte. Insistevano perché prendessi in mano l’oggetto in questione. Lo saggiassi e ne constatassi la bontà. Se non volevi toccarlo - magari avevi fretta e credevi alla loro parola - te lo spingevano fin sotto gli occhi. Chiedendoti, subito dopo, affabili, quasi sottovoce ma insistenti, se fosse di tuo gradimento. Bello, eh! Ti piace? Bello, eh! Ti piace? Ti piace? squittivano serpentine. Rivelandosi - per quella volta - insinuanti, scivolose come un lubrificante per motori. Poi, discrete, restavano in trepida attesa. Intimamente speravano soltanto che la loro fatica fosse ripagata dal tuo acquisto."

Il racconto breve della donna che mesceva il latte (Estratto)

Dalla mia raccolta di racconti paesologici:
Le stagioni della lattaia - Il racconto breve della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie,
metto qui un breve estratto.







"....La donna che mesceva il latte - così avevo preso a definirla nell’intimità dei miei pensieri - era, come sempre, indaffarata. Vuotava, riempiva, spolverava, puliva, lavava, sciacquava, risciacquava, asciugava, riponeva, sistemava. Come fosse incapace d’aspettare i suoi pochi avventori, per fare qualcosa di veramente utile, standosene semplicemente seduta a braccia conserte. E come ogni giorno sempre verso quell’ora, era applicata a filtrare il suo prezioso liquido - per ricavarne le consuete porzioni. Ella sola sapeva quanto latte avrebbe chiesto ognuno dei suoi clienti. Così, invece di dosarlo davanti a loro, preferiva avvantaggiarsi nel lavoro. Non avevo mai visto la donna consultare appunti o carte scritte, quindi, da quest’unico ma determinante dettaglio, posso ora dedurre che conservasse ben chiari nella testa i nomi di tutti i suoi clienti e che avesse mandato a mente l’esatto fabbisogno giornaliero della famiglia di ognuno di essi. Così la vedevo attingere il latte col mestolo, direttamente dal secchio traboccante che teneva rialzato da terra su un panchetti no di legno a tre gambe, per versarne, poi, un’esatta quantità nelle misure di stagno di volumi diversi disposte in bell’ordine sul tavolo - saggiamente, ma anche inutilmente, aveva badato a rivestirne lo sconnesso ripiano di legno con una tovaglia di tela cerata. Il suo lavoro, che per il resto appariva agile e spedito, era curiosamente rallentato proprio dal latte. Che sembrava ostinato a non voler cadere direttamente nelle misure e nei contenitori, ma vi colava lentamente, dovendo filtrare attraverso le fittissime trame di uno strofinaccio di canapone quadrettato - un passino improvvisato - che lei usava, opportunamente, per liberare il latte da eventuali impurità. Solo dopo aver effettuato quell’operazione certosina la donna riversava - ora più speditamente - la precisa quantità di latte richiesta nei secchielli di stagno o nelle bottiglie di vetro. Recapitati in precedenza, vuoti e ripuliti, dai suoi clienti, oltre che avere forma diversa, i recipienti differivano anche nel materiale e nei colori. Mentre la donna che mesceva il latte attendeva al suo lavoro, gli ultimi raggi di sole prima del tramonto, fattisi ormai tiepidi, penetravano nella stanza. E, irrompendo, quasi di forza, dalla finestra, trapassavano da sinistra la scena che vi si svolgeva. Nel cucinino della lattaia, ancora prima che fuori, anche quell’altra lunga giornata estiva morente stava cedendo il suo posto al crepuscolo – pigramente, quasi con riluttanza. Gli ultimi bagliori dorati del sole, che all’esterno disponeva perché il riverbero d’ogni suo singolo raggio andasse ad incendiare un tetto del paese, circonfusi nell’angusto locale, contribuivano a creare un’incantevole atmosfera rarefatta - uno sbalorditivo drammatico effetto di luci e ombre. Un’aura irreale, quasi metafisica, avvolgeva l’ambiente e tutto ciò che, animato o inanimato, vi si trovava al momento. Era come perdere gli occhi in uno spettacolare caleidoscopio; come mirare nella stessa camera oscura del pittore#.

giovedì 26 luglio 2012

Appunti di un paesologo: ANAGNI, la città dei Papi.


Percorrendo la SR6 Casilina, dopo aver attraversato il centro di Frosinone e superata la città di Ferentino, si arriva ad Anagni.
Città tra le più grandi della Ciociaria, nota come la città dei Papi, per aver dato i natali a quattro pontefici (Innocenzo III, Alessandro IV, Gregorio IX, e Bonifacio VIII) e per essere stata a lungo residenza e sede papale.
In particolare il nome di Anagni è legato alle vicende di Papa Bonifacio VIII° e all'episodio noto come lo schiaffo di Anagni.
Talvolta citato anche come oltraggio di Anagni - è un episodio occorso nella cittadina laziale il 7 settembre del 1303.
In realtà si trattò non tanto di uno schiaffo dato materialmente, quanto piuttosto di uno schiaffo morale, anche se la leggenda attribuisce a Guglielmo di Nogaret e a Sciarra Colonna (inviati del Re di Francia Filippo il bello) l'atto di un loro vero e proprio violento schiaffeggiamento del pontefice Bonifacio VIII°.
La città è molto antica. E la parte antica è molto estesa.
Citata anche nell'Eneide da Virgilio che la definì dives anagnie, ovvero la ricca anagni.
I primi insediamenti umani sul suo territorio risalgono addirittura a 700.000 anni fa, a tanto sono stati fatti risalire alcuni reperti litici rinvenuti di recente, mentre a ca. 458.000 anni fa risalgono gli altri recenti resti umani di quello che sembrerebbe un vero homo erectus. Forse il più vecchio d'Europa.

Il grande centro storico della città, che parte dalla monumentale Porta Cerere (era una divinità materna della terra e della fertilità, nume tutelare dei raccolti, ma anche dea della nascita, e tutti i fiori, la frutta e gli esseri viventi erano ritenuti suoi doni) e si sviluppa per qualche km. in leggera salita lungo tutta Via Vittorio Emanuele, su su fino alla Cattedrale.



Circa a metà strada verso l'Acropoli, s'incontra il Palazzo Comunale, sede dell'attuale Municipio, importante quanto interessante esempio di architettura civile.
Risalente al XII° secolo, presenta un porticato con otto grandi archi di pietra che sorreggono materialmente la cd. Sala della Ragione, sormontata a sua volta da un interessante loggiato arricchito con bifore.

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Il centro storico, risalente ad epoca medievale (che peraltro appare fatiscente e in stato di quasi totale abbandono, quando non addirittura oltraggiato da nuovi e recenti interventi) è fatto di antichi edifici un tempo eleganti ed austeri, di chiese romaniche, di campanili, di logge, scalinate, vicoli e piazze dall'architettura sobria ed essenziale.
In certi punti per la colorazione brunita delle pietre di copertura dei palazzi e delle vie sembra si ha quasi l'impressione di stare nella città vbecchia di Edimburgo. (mutatis mutandis, naturalmente!)
Siti di grande interesse (meritano una visita attenta) sono il duecentesco Palazzo di Bonifacio VIII°, il Palazzo Civico, la Casa Barnekow (abitata dal bizzarro pittore svedese che l'aveva decorata interamente nel suo originale stile) e le numerose chiese, tra cui spicca la Cattedrale, con la splendida cripta i cui affreschi costituiscono uno dei più interessanti cicli pittorici del '200 italiano.
Salendo verso l'Acropoli è possibile scorgere una vera chicca: in basso a destra in un cortiletto privato protetto da una robusta cancellata, due o tre piani di blocchi calcarei anneriti ed erosi dal tempo e dalle precipitazioni (un cubo composito di ca. 3 metri di larghezza x 1,50 di altezza).
Probabilmente quello che resta delle mura poligonali di cinta della città.
Sono rimasto scandalizzato dalla mancanza di qualsiasi tipo di segnalazione riguardante questo importante reperto archeologico. (SIC!) Fossimo stati in Inghilterra, certamente, sarebbe stato trattato con più riguardo. Ma tant'è!

Che dire ancora di questa città?
Se non ripetere quello che - ahimè! - tranne rarissime eccezioni bisogna dire per buona parte dei paesi e delle città della provincia di Frosinone!
Questa terra ricca di vestigia archeologiche, architettoniche, storiche, religiose e paesaggistiche ha avuto e subito la sfortuna di imbattersi in una delle classi politiche ed amministrative più incapaci, incolte, ruffiane, quando non, addirittura, disoneste d'Italia.
Certamente più primitive e rozze delle sue antiche popolazioni erniche e/o lepine.
Per tutta la prima repubblica è stata feudo quasi assoluto della DC nonchè riserva elettorale personale del Divo Giulio, al quale peraltro si deve (forse) l'unica e ultima (alla fine degli anni '50) idea volta al suo sviluppo (perlomeno) industriale: la scelta di far attraversare, da nord a sud, il territorio della Ciociaria Felix dall'Autostrada del Sole.
Lungo l'arteria, di conseguenza, si è fatto in modo che si installassero, nel corso degli anni '60 e '70, ca. 500 fra piccole, medie e grandi industrie, oggi tutte o quasi inesorabilmente in profonda crisi e a rischio di chiusura.
Dopo tangentopoli, che ha spazzato via i partiti tradiziolamente più forti sul territorio (DC-PLI-PRI-PSI-PSDI) si è insediata una nuova classe dirigente (o presunta tale: vale per nuova e dirigente! Sic!) facente capo prima a Forza Italia poi al PDL, caratterizzata dal possesso di tutti gli antichi limiti e difetti della vecchia classe dirigente, ma senza, nè la volontà, nè i requisiti minimi culturali, di progettualità e di capacità per aggredire, affrontare e risolvere i problemi cronici, anzi storici di una terra, tra le più belle e ricche d'Italia, ma che stenta ancora a valorizzarsi e a svilupparsi adeguatamente.
Tuttavia la speranza non sembra aver abbandonato definitivamente queste colline, questi antichi borghi, le sue pietre, i suoi ricchi retaggi culturali.
Guai! Se dovesse avvenire.....

SMR

martedì 24 luglio 2012

Ancora due o tre cose sull'Americano.... era mio padre.



Dalla mia raccolta di racconti LE STAGIONI DELLA LATTAIA, Piccola storia n.7 L'aula di mio padre metto qui questo breve brano.
Nei giorni della sua morte: lo ricordo a me stesso, così!



Da piccolo ho sempre pensato che mio padre fosse l’uomo più forte del mondo.  Forse l’idea non è proprio la più originale, dato che, probabilmente, tutti i figli, da piccoli, pensano lo stesso dei loro padri. Lui però aveva davvero un fisico roccioso. Pareva una statua scolpita in un blocco di granito. Vigeland# ne ho visto centinaia, plasmate come lui. Conservo una sua fotografia fatta al mare. E’ l’emblema di quanto vado dicendo. Era giovane - avrà avuto neanche trent’anni - e un autentico atleta. Sostiene mio zio a cavalcioni sulle spalle, e due amici con la sola forza delle braccia e delle gambe piantate saldamente nella sabbia. Sorride. Appare divertito. Per nulla affaticato dallo sforzo - che pure doveva essere immane. Mio padre è morto già da quasi vent'anni – mi sembra ieri. Se n’è andato quando tutti avevamo ancora bisogno di lui. Ce l’ha portato via un cancro allo stomaco. Causa del decesso: Adenocarcinoma Gastrico. L’unica malattia che temeva davvero. Tutte le altre le avrebbe prese a calci nel culo. Quella no. Di quella aveva veramente paura. Si era convinto che anche sua madre - mia nonna - ne fosse morta. E anche lei prematuramente. Lui stava già cominciando a morire. Ma nessuno di noi s’è accorto ch’era gravemente ammalato. Neanche il dottore incapace al quale si era rivolto fiducioso - voleva curarlo col Ranidil?! - che per vedergli dentro lo stomaco gli ha cacciato dieci volte un tubo nero in gola. Solo lui presagiva la fine del viaggio. Ricordo - chi potrà mai dimenticarlo - l’ultimo sguardo rivolto dalla strada, verso casa, in alto, prima di salire in macchina, il giorno che partì per il S. Eugenio. Era avvilito, sapeva che non sarebbe più tornato. Era una luminosa mattina di giugno, ma una notte buia gli era già calata addosso. La sua fine improvvisa a tutti è sembrata una beffa. Proprio l’organo che permette agli uomini di sopravvivere, dentro di lui si è rifiutato di funzionare ancora. Come impazzito, l’ha ucciso. Quel male è ferocemente subdolo. Ti attacca da dentro, silenzioso e invisibile. Ti consuma inesorabile, mentre continui a fare tutto normalmente. Spesso non ti accorgi d’averlo se non quando è troppo tardi. Allora ho capito veramente come siano fragili gli uomini, anche quelli che sembrano forti. Come siamo fragili. Reclamando dall’uomo distratto che stava di guardia il permesso d’entrare da solo nella stanza fredda, ho voluto salutare mio padre per l’ultima volta. Siamo stati insieme per lunghi minuti, ma entrambi eravamo soli. Lui impietrito, avvolto in lenzuolo bianco; io senza parole, raccolto in una preghiera muta, il viso segnato dalle ultime lacrime che avevo da versare. Ma, come per un miracolo, il suo volto non era più sofferente. Papà sembrava guarito - restituito per sempre all’espressione serena di sempre. Quella che nelle eterne settimane precedenti avevo dimenticato. Ho avuto l’audacia di scoprire il suo corpo. Era nudo sotto il sudario. L’ho osservato per interminabili momenti. Ho letto, cucita nelle sue carni, una lunga inutile ferita - testimone della scienza impotente che s’arrende al mistero insopportabile della Vita e della Morte. E’ stata la prova più dura di tutta la mia vita. Sembra mostruoso, ma può essere lecito, scoprirsi a pregare perché una persona che ami non viva più, sofferente, ma si spenga al più presto. Oggi, quando mi capita d’entrare nella chiesa deserta percepisco ancora gli echi del necrologio commosso del suo collega più caro - interrotto dai frequenti singhiozzi degli altri. Uscendo, avverto lontano il crepitio sordo dell’ultimo applauso al passaggio della bara portata a spalla dai suoi amici più fedeli - mentre sulla piazza cala, come un velo pesante, immateriale e dolente, il fiacco rintocco della campana a martello dei morti.  Le attività di mio padre hanno contribuito a farne un punto di riferimento nella comunità del paese - per l’istruzione, la cultura e la ricreazione. Gli hanno meritato la considerazione unanime d’eccellente e moderno insegnante. Oltre che di campione impareggiabile nell’organizzazione del tempo libero - in particolare del calcio. In paese è considerato l’eroe eponimo del pallone. Al pallone ha legato indissolubilmente il suo nome. Allenava i giovani per farne calciatori, ma in realtà il suo vero disegno era più ambizioso: cercava di formare uomini. Amava anche il pugilato. Quando l’incontro era nobile arte, eleganza e strategia veloce - una danza,  un balletto. Non massacro violento. E gli piaceva la caccia. Quella ecologica, se ne esistesse una. Rispettava profondamente la natura e gli animali, e interpretava l’attività venatoria senza accanimento. Era capace di stare fuori un’intera giornata, dall’alba al tramonto, attrezzato di tutto punto, il fucile carico sempre in spalla, la sicura innestata, senza sparare un solo colpo. Non riteneva un fallimento il rientro a casa, dopo una battuta, senza aver ucciso bestiole indifese. Un carniere che restava mestamente vuoto non lo innervosiva. Sembrava invece un evento in grado di procurargli una sensazione di piacevole serenità. Quando era in quello stato gli leggevi negli occhi un benessere quasi euforico.
  Mio padre è ricordato in paese per l’innata capacità di motivare i giovani e avviarli alla piena autocoscienza. Era abile ad intuire le inclinazioni degli allievi - anche le più nascoste - sapendole indirizzare sapientemente, e senza soperchierie, verso un corretto sviluppo delle attitudini e della personalità. Queste doti non comuni hanno contribuito in modo decisivo al coinvolgimento di generazioni intere ed alla buona riuscita delle sue occupazioni professionali e sociali. Gli hanno fatto guadagnare la stima e la gratitudine degli allievi, ma soprattutto dei loro genitori, che vedevano in lui un ulteriore, insperato supporto per l’educazione dei figli.
  Mio padre aveva una personalità forte. Era una persona concreta, determinata, in possesso di un carattere schietto e leale, a volte spigoloso, esigente, con parametri di valutazione rigidi. Ma prima di imporli agli altri, aveva provveduto a comandarli a se stesso. In genere gli adolescenti crescendo tendono a sviluppare un rapporto conflittuale coi genitori. Provano un senso d’avversione, li rifiutano, hanno propensione a escluderli dalle loro vite. Come se ne vergognassero. A me non è mai successo con mio padre. Lui era il mio vanto. Una parte fondante della mia esistenza - fin quando c’è stato. E, attraverso i suoi preziosi insegnamenti, anche dopo. Era una di quelle persone, ormai rare, che sceglieva anche di essere impopolare, se serviva a far prevalere la verità. Diceva sempre quello che andava detto, non quello che gli conveniva di più dire; sceglieva sempre di fare quello che andava fatto, non quello che gli conveniva di più fare. Sapeva bene che un tale comportamento intransigente non gli avrebbe procurato certo vantaggi - piuttosto qualche problema. Ma lui prendeva sempre una parte. Era una delle rare persone che ho stimato e ammirato. E che avrei stimato e ammirato molto, anche se non fosse stato mio padre. E se non avessi mille altre ragioni, me ne basterebbe una sola: l’ho visto spendere la sua intera vita per predicare, in ogni occasione utile, ma senza un filo di retorica la correttezza, l’onestà, la sincerità. A giudicare dai risultati ottenuti il suo è stato un lungo inesaudito soliloquio.
  Mio padre ha cercato d’insegnarmi la bellezza e la straordinarietà della vita; ma anche la complessità e la difficoltà del vivere quotidiano. Forse inconsapevolmente mi ha anche educato al piacere; molto meno al dovere. E, chissà, che per questo motivo in debba essergli grato, ancora di più.  Mi metteva costantemente in guardia sugli ostacoli che ognuno incontra se decide di vivere la sua vita pienamente; se si dispone ad assecondare la propria libertà di spirito; stabilisce di esercitare il  libero arbitrio. Non mi ha mai consigliato altrimenti, non ha mai tentato di persuadermi, o costringermi, a vivere la mia vita in maniera diversa.
  Mi ha lasciato in eredità la sua alopecia, ma anche la sua fierezza e la sua personale filosofia di vita - essenziale e sincera. A quella mi sono ispirato, costantemente. Cercando, nel contempo di costruirmene una che fosse solo mia.
  In passato mi è stata preziosa. Lo è ancora di più in un’epoca di valori ignorati, quando non oltraggiati. Sono perfettamente cosciente di non avere le sue qualità, e anche consapevole delle differenze che ci distinguono. Angustiato dall’intimo convincimento - che a volte si fa certezza - di non poterlo eguagliare, non mi resta che custodire gelosamente l’orgoglio di essere suo figlio. 

Appunti di paesologia: Veroli e Torrice (Fr).



Oggi il mio "lavoro" di paesologo mi porta a Veroli, in provincia di Frosinone, ed esattamente nella zona immediatamente a nord del capoluogo.


I primi cartelli stradali che incrocio subito dopo aver lasciato la SS155 per Fiuggi, annunciano trionfanti: "Veroli-Città d'arte".
La qual cosa mi piace, ma mi inquieta anche. Crea aspettative che non sempre vengono rispettate.
E non perchè io sia troppo esigente!
Il nome attuale della città, secondo alcuni, deriverebbe da Verulae, antica città fondata dagli Ernici, poi passata sotto il protettorato romano, da cui a sua volta deriva Verulis.
Secondo altri dalla parola latina Veru, antico spiedo metallico.
Secondo un'altra suggestiva ipotesi si baserebbe sulle due varianti, Verulis e Virulis: letti come Ver - Ulis e Vir - Ulis significherebbero nell'ordine «primavera di Ulisse» e «popolo di Ulisse».
L'ipotesi che mi convince di più, ed anche quella più accettata dagli storici, è l'ultima: la parola Veroli, nella radice Ver, deriva dal greco erúmai (difendere, proteggere), che significa quindi luogo idoneo alla difesa e alla sorveglianza; il significato più probabile, che trova pure una testimonianza incontrovertibile nella geografia e soprattutto nella orografia del paese è quello di:
luogo adatto a sorvegliare e difendersi.
Ad ogni modo apprendo che Veroli è molto antica, essendo stata fondata probabilmente dalle popolazioni erniche intorno al XII° secolo A.C.
La raggiungo in pochi minuti, subendo peraltro un paio di perniciose deviazioni per lavori in corso che mi costringono ad allungare il tragitto.
In compenso la mia curiosità cresce fino all'arrivo nel centro storico.
Sono fortunato! Trovo subito un parcheggio e  mi avvio a piedi per le stradine lastricate del centro.
Con enorme sorpresa mi imbatto subito in una libreria, sebbene ospitata in una specie di emporio.
Altra sorpresa mentre mi dirigo verso la Piazza del Duomo, stavolta in negativo. Mi imbatto - ahimè! - in un consistente numero di vetrine vuote e polverose: altrettante testimonianze di gioiellerie o di altre botteghe chiuse dalla crisi del piccolo commercio al minuto che sta strangolando i centri storici in tutta la Ciociaria, a cominciare proprio dal capoluogo.
Anche Veroli è compresa tra le città della Provincia di Frosinone che ospitano le mura poligonali (o mura ciclopiche), ma apprendo da alcuni cittadini coi quali mi fermo a parlare che esse sono state parzialmente distrutte per larghi tratti, e con esse anche le varie porte monumentali d'accesso alla rocca, delle quali resta solo una: la Porta di Santa Croce.


Tra i monumenti di grande importanza storica e architettonica resta la Basilica di Santa Sàlome che ospita le reliquie della Santa, protettrice della città.
Al suo interno, tra il 1715 ed il 1740, fu fatta costruire dal Vescovo di Veroli Monsignor Lorenzo Tartagni, la Santa Scala composta da 12 gradini di marmo.
Nell'undicesimo gradino pare sia racchiusa una presunta reliquia della Croce.  Ci credo poco alle reliquie sacre; servono solo ad alimentare un commercio che poco si sposa con la tanto sbandierata ma mai applicata povertà della chiesa cattolica.
La chiesa ha risentito, nonostante la distanza, della forte scossa di terremoto verificatasi a l'Aquila nel 2009 e il giorno del terremoto, sono caduti alcuni pezzi di intonaco e si sono allargate vistosamente alcune crepe.  Peccato!
La rocca di San Leucio, che raggiungo con una breve passeggiata in salita, ospita il punto più alto della città, e un antico borgo risalente, forse, all'IX° secolo.
La Piazza Mazzoli e San Andrea ospita gli uffici del comune e la Concattedrale di Sant'Andrea.

Il centro storico è grazioso e ben tenuto. Ma non sufficientemente valorizzato e pubblicizzato.
Gli abitanti del posto confermano che praticamente Veroli non è mai stata meta turistica, il che conferma una mia convinzione antica, cioè che la classe politica ciociara sia una delle più depresse culturalmente di tutta la nazione e che gli amministratori locali siano più dei "prenditori" di beni pubblici che degli imprenditori ben attrezzati per procurare il tanto auspicato salto di qualità alle nostre belle, antiche e ricche cittadine.

Sempre nel territorio del comune di Veroli, si trova l'importante e bella Abbazia di Casamari.


Lascio Veroli, le sue vestigia architettoniche e i suoi guai, per planare sul suo fondo valle, dove Firenze incontra la Ciociaria, in località Giglio di Veroli.
Di qui mi sposto subito e, percorrendo una strada a due corsie stretta, in leggera salita e piena di curve, arrivo a Torrice, un paesino sulla Via Casilina (SS6) a pochi km dal capoluogo Frosinone.

Chiamato anticamente Turrice.
Che potrebbe derivare da Torre, in riferimento alla presenza della struttura in loco; oppure da Turriger, ossia munito di torre.
Non ho tempo per visitarlo, s'è fatto assai tardi. Sarà per un'altra volta. Scatto solo qualche foto. alle mura. Il paese sembra deserto: gli abitanti devono essersi avvicinati tutti ai rispettivi deschi.
Una volta arrivato a casa, mentre lavoro a questi appunti trovo con gran stupore un simpatico video su youtube.
Ne pubblico il link qui sotto assai volentieri.
Come diceva Confucio: vale più un'immagine che mille parole. Specie se quelle mille parole a scriverle sono stato io.
Prometto a me stesso che appena avrò tempo tornerò a Torrice per vedere i bei posti del filmato e quello straordinario, impagabile, mozzafiato ....tramonto rosso.

http://www.youtube.com/watch?v=pN7cLITG-IU

SMR

sabato 21 luglio 2012

Guida alle mura poligonali della Provincia di Frosinone.

Nel corso delle mie scorribande nei paesi della provincia di Frosinone, di cui rendo conto nei miei appunti di paesologia, pubblicati su questo blog, mi sono imbattuto spesso in paesi o città sedi di costruzioni o mura poligonali, dette anche ciclopiche o pelasgiche o megalitiche.
Sono in possesso di una interessante, nonchè lacunosa pubblicazione, scaricabile gratuitamente in formato PDF, a cura della Provincia di Frosinone, di cui pubblico di seguito il link.

http://www.tesoridellazio.it/pagina.php?area=Downloads&cat=Guide%2C+riviste+e+brochure&pag=Guida+alle+mura+poligonali+della+Provincia+di+Frosinone

Per provare che l'opera in discussione è lacunosa cito solo il caso della Chiesa di S.Maria in Correano (Frazione di Ausonia- Fr) di cui pubblico un interessante link di seguito, nel quale si legge - secondo la Guida Rossa del Toruing Clu che, la chiesetta sarebbe stata "eretta sul posto di un tempio antico di cui resta lo stilobate formato da grandi massi recanti un'iscrizione latina del sec. II; davanti alla chiesa, importanti avanzi di mura poligonali e un sarcofago".

 

venerdì 20 luglio 2012

Il pranzo delle feste nei favolosi anni '60.

Estratto dalla piccola storia n.6 Giovanni il contadino vero.




Solo dopo aver accudito l'animale Giovanni rientrava a casa - dove avrebbe provveduto finalmente a se stesso. La moglie Maria, sempre premurosa, badava a rifocillarlo. E quando non era impegnata ad atterrirci coi suoi racconti di popenari e ianare# scodellava, per lui e per i figli e per me, quantità industriali di minestre calde, energetiche e saporite. Chi se lo scorda più il suo riso nel brodo di strutto. Raramente, succedeva in genere al pranzo della Domenica o di qualche festa di precetto, cucinava i maccheroni - candele di pasta lunghe un metro spezzate a mano - col ragù di polpette e il pollo arrosto - rigorosamente ruspante - con le patate. Serviva in tavola il pollo intero, in modo che il capofamiglia, come da tradizione, potesse tranciarlo, tagliarlo in pezzi, e servire a ciascun commensale la sua porzione. Che stupenda tradizione! Ora si è persa, per colpa del tempo che non abbiamo più, dei sofficini, dei quattrosaltiinpadella, e degli altri cibi pronti, precotti e surgelati. Peccato! Perché quel gesto semplice ricordava tutta la sacralità contenuta nell’atto antico del sacerdote che divide e spartisce la carne del sacrificio di Cristo. Allora, invece che sui fornelli a gas, si cucinava direttamente sul fuoco, e per intere giornate - spesso anche d’estate. Gli intensi effluvi, che si sprigionavano dai tegami di coccio, sostenuti dal treppiedi di ferro battuto o accostati ai carboni roventi a borbottare per intere giornate, invadendo la scalinata, finivano per raggiungere casa mia. Quegli aromi genuini e familiari - oggi fatalmente scomparsi - costituivano, per me, un richiamo irresistibile. Davvero non potevo fare a meno d'invitarmi. Con appena qualche cautela, ma senza soverchie esitazioni, mi accostavo alla sua tavola. A ripensarci ora dovevo essere davvero indiscreto. Ma nonostante le mie pesanti intrusioni, anche se lo avesse pensato, mai - nemmeno una mezza volta - Giovanni lo aveva detto apertamente, o anche solo fatto intuire. Nelle rare occasioni in cui la trovavo chiusa, la chiave infilata nella toppa dall’esterno mi consentiva ugualmente d’entrare a casa sua - in ogni momento. Quando invece era aperta - e la sua porta era sempre aperta - lui riconosceva immediatamente la mia piccola sagoma, appena spuntava sulla soglia di casa. Anche attraverso la cortina di gommini colorati, quasi trasparenti, che teneva appesi a piombo sull’uscio, che staccavamo di nascosto per farci gli scubidoo. Oltre al vaporizzatore a pompa del Ddt, erano l’unico rimedio possibile contro l’invadenza delle mosche. Così, dal sedile che occupava di fronte al focolare, Giovanni m’invitava con cortesia a prendere posto a tavola proprio accanto a lui. Senza perdersi mai in cerimonie, fingendo piuttosto d’irritarsi se abbozzavo la mia abituale, timida resistenza d’occasione, mi accoglieva sempre come se anch’io fossi suo figlio. Anzi, come fossi il suo figlio prediletto.

giovedì 19 luglio 2012

Il racconto breve della donna che mesceva il latte. Incipit. (Dal libro di Salvatore M.Ruggiero: Le stagioni della lattaia)


Questo dipinto di Vermeer mi ha ispirato il racconto, di cui di seguito pubblico l'incipit, contenuto nella mia raccolta di racconti: "Le stagioni della lattaia. Il racconto breve della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie."



Intorno ai dieci anni, quando ormai si è alle soglie dell’adolescenza e per questo motivo si dovrebbe cominciare a riflettere giudiziosamente a cosa fare della propria vita, io ho iniziato, invece, a coltivare una concezione ludica dell’esistenza, che peraltro ancora considero preziosa. Al punto che - per quanto non sia stata impresa facile - ho voluto conservarla, anche crescendo. Convinto come sono che possa aiutarmi a sopravvivere meglio. Tutto sommato, e fatta eccezione dei piccoli grandi problemi che si patiscono a quell’età delicata, potevo considerarmi un bambino fortunato, disimpegnato com’ero e sollevato da qualsivoglia onere - specie durante le vacanze estive, quando non avevo nemmeno la seccante incombenza della scuola. Nei fatti, andare a prendere il latte da una signora che abitava poco lontano da casa nostra era l’unico incarico che i miei genitori mi affidavano. Mi troverei di sicuro d'accordo con quei lettori, che dovessero considerarlo un impegno di responsabilità assai relativa.
  
La donna di cui riferirò è ancora in vita, ma s’è fatta assai anziana. Ancora l’incontro, ogni tanto. Il marito è morto. I figli sono tutti sciamati per il mondo. Non penso che, rimasta sola, abiti ancora la vecchia casa dove andavo da piccolo a prendere il latte. Né, tanto meno, che ancora tiri su le numerose bestiole che allora possedeva. Tranne un grasso gatto tigrato, che se ne andava in giro annoiato per la casa e nei dintorni, non aveva altri animali d’affezione. Allevava, invece, per il suo personale tornaconto, una grande quantità di bestiole domestiche di piccola taglia, che lasciava libere di razzolare in cortile e un paio di grosse mucche da latte, che stavano al pascolo tutto il giorno. Ritirava le mucche solo nel tardo pomeriggio, ricoverandole per la notte nella stalla che aveva ricavato da un seminterrato sotto casa sua. Come avevano raggiunto il loro riparo si preoccupava che fossero munte, immediatamente. Ne aveva ben donde, perché da quella mungitura quotidiana, rigorosamente manuale, non ricavava mai meno di due grossi secchi colmi di buon latte fresco - trenta o quaranta litri di liquido bianco, grasso e spumoso ogni giorno. Di quell’enorme quantità conservava per le sue esigenze solo una minima parte. Quasi tutto il latte era stato destinato, infatti, a clienti abituali, scelti accuratamente tra i suoi conoscenti che fossero disposti ad accaparrarselo pagandolo con moneta sonante. Quella donna, oltre ad essere una economa esemplare era anche venale quanto bastava e da quella vendita riusciva a trarre un discreto reddito. Così si adoperava perché una tale risorsa in denaro, modesta ma costante, risultasse molto più utile del latte, alla sua famiglia - resa numerosa da una vera frotta di figli. La sua era, infatti, una famiglia traboccante. Tutti assieme, genitori e figli, costituivano un clan. Erano una vera tribù, come, per fortuna o sfortuna, oggi non si vedono più in giro tanto facilmente. Sarebbe un vero problema riuscire ad accudir le con la stessa apparente leggerezza. Mentre, con esigenze modeste e qualche ragionevole e più che salutare rinuncia, a quei tempi sembrava che anche una famiglia numerosa come quella si sostentasse praticamente da sola. Sebbene – ci sarebbe da aggiungere - le tentazioni di allora non erano quelle di adesso. Non ricordo se i figli fossero nove, dieci, o addirittura di più. Tutti minorenni. Tutti sotto i vent’anni. In pratica ne aveva sfornato uno ogni trenta mesi, in meno di un paio di dozzine di anni. Posso affermare con assoluta certezza che a nessuno di loro fosse mai stato concesso dai genitori di vivere un’esistenza scioperata. Nonostante l’età, infatti, ognuno di quei ragazzi - compresi i due o tre che erano miei quasi coetanei - s’era visto affidare dai genitori una mansione precisa. E, in effetti, nell’economia familiare, ciascuno di loro doveva presidiare una postazione precisa, adeguata alla sua forza e alle sue capacità. Ciascuno doveva portare a termine, con diligenza, il personale compito che gli era stato assegnato. Per la giovanissima età che vantavano lo facevano tutti con un giudizio e una maturità inusitati - sembravano ammaestrati. C’era chi la mattina presto, ancora prima d’entrare a scuola - quando capitava che poi ci andasse - portava le mucche al pascolo; chi provvedeva la sera al loro recupero e allo stallaggio; chi doveva integrarne la dieta, distribuendo regolarmente fieno e biada; chi le mungeva; chi si preoccupava, prima o subito dopo la cena, della consegna del latte appena munto al domicilio dei clienti che non andavano a ritirarlo personalmente - prassi alla quale io attendevo molto volentieri. Qualcuno di loro, durante il resto della giornata, si adoperava anche in altre faccende d’importanza economica più trascurabile. Così, per il fatto che i più piccoli avevano imparato assai presto a rendersi utili, e i più grandi, frequentando saltuariamente la scuola, in pratica già lavoravano tutti - oggi si direbbe part-time - dal primo all’ultimo di quella prolifica cordata erano apertamente indicati in paese come sfolgoranti esempi d’assennatezza; erano continuamente citati - specie da mia madre - come veri campioni d’ubbidienza e devozione ai genitori. A me sembravano semplicemente affetti da crisi acute di serietà precoce, all’epoca peraltro non del tutto inusuali in bambini di quell’età. Ma, sempre secondo la personale ed autorevole opinione di mia madre si trattava di modelli da tenere nel debito conto - anzi da imitare assolutamente. Per questo motivo sebbene alcuni fra loro, nei loro rari momenti liberi, fossero miei compagni di giochi, a volte ero portato a detestarli - pratica alla quale attendevo solo intimamente. Io pretendevo di conoscere bene la verità che si nascondeva dietro la loro presunta fortuna e, ai miei occhi, quella condizione si presentava molto meno felice di come potesse apparire all’esterno. In pratica fin dalla nascita quei piccoli poveri cristi avevano subito un’educazione severa. Sia il padre che la madre s'erano rivelati assai meno moderni e liberali della media dei genitori del paese - che non brillavano certo per larghezza di vedute. Pure conservando l’indubbio merito di avere prima instillato e poi saputo coltivare nei figli un auspicabile ma, per conto mio, troppo anticipato senso di responsabilità, li avevano costretti, in buona sostanza, a saltare una comoda e piacevole fanciullezza e a confrontarsi precocemente con la durezza della vita - a mio parere avevano esagerato. Ridotti a vivere una sorta di cattività, quei ragazzi, che a me, onestamente, parevano vessati da genitori troppo esigenti e severi, si erano guadagnata tutta la mia commiserazione. Nutrita solo nei recessi più nascosti e profondi del mio intimo, anch’essa restava inespressa manifestamente.

Appunti di paesologia dalla Ciociaria Felix: ALATRI.

 La città della ciociaria Felix che ho visitata oggi è Alatri.
A meno di 15 km da Frosinone, il capoluogo della provincia.
Alatri si raggiunge percorrendo la SS155 per Fiuggi, imboccandola quasi dal centro della città: prima Via Aldo Moro e poi percorrendo un tratto della Via Tiburtina, svoltando al semaforo verso nord.
È una delle città più importanti della Ciociaria ed è la terza della provincia per popolazione, dopo Frosinone e Cassino.
È l'antica Alatrium o Aletrium, il cui significato è tuttora sconosciuto, che fu uno dei centri principali del popolo italico degli Ernici.
Nota soprattutto per l'Acropoli preromana, cinta da mura megalitiche (non megagalattiche, come qualcuno ancora si ostina a dire! Sic!), tuttora ben conservata, della quale risalta per imponenza la Porta Maggiore.
Ma possiede anche un significativo patrimonio di monumenti di notevole interesse architettonico e artistico, tra i quali la Chiesa Collegiata (Chiesa senza dignità vescovile ma con un collegio o capitolo di canonici) di Santa Maria Maggiore, costruita in stile Gotico-romanico; la Basilica Concattedrale di San Paolo; le chiese di San Francesco e di San Silvestro; il Protocenobio di San Sebastiano, le diverse ottocentesche fontane monumentali; il Palazzo Gottifreddo e il Palazzo Conti-Gentili ornato da una grande meridiana murale.
Lascio la macchina al parcheggio (non custodito, ma poco male, così non devo nemmeno pagarlo) e a piedi proseguo verso l'Acropoli imboccando una stradina lastricata molto stretta.
La prima piacevole sorpresa è costituita dalle targhe viarie.
Sono semplici, quasi spartane, ma splendide, in terracotta ocra e bordate di blu, qualcosa a metà tra le porcellane di Delft e le ceramiche di Vietri, con la didascalia scritta a mano e murate nelle pareti esterne delle case. Sembrano opera di qualche benemerito ma anonimo artigiano locale.
Costiuiscono anche la testimonianza dell'esistenza di forme primitive di vita ...amministrativa!
Percorrendo le strette stradine lastricate di porfido nero raggiungo l'Acropoli – detta anche Civita – posta nel cuore del centro storico, sulla cima del colle.
Il sito riveste un notevole interesse per le sue mura ciclopiche in opera poligonale, costituite da diversi strati di megaliti polimorfici che spesso raggiungono la lunghezza di 3 metri, provenienti dalla stessa collina e fatti combaciare perfettamente ad incastro senza l'ausilio di calce, malta, o altri collanti e cementi.
Non suoni come una iperbole (di cui pure coltivo il gusto) ma mi sembra di stare a Machu Pichu!
Il perimetro delle mura è notevole: ca. 2 km.
L'avrei percorso tutto se non fosse per il caldo asfissiante: il termometro della farmacia sulla strada per Tecchiena di Alatri segnava 39°c. (Sic! Nemmeno fossimo all'Equatore).
Su di una roccia affiorante, nella parte più alta dell'Acropoli, è stato rinvenuto nel 2008, un graffito rappresentante un "Templum" (Triplice Cinta), perfettamente orientato astronomicamente.
L'acropoli, oltre alla rampa d'accesso, presenta due porte d'ingresso, la Porta Maggiore, di tipo sceo come quella di Troia, e la Porta Minore detta dei falli o della fertilità (che poi è la stessa cosa!)
Su di essa sorge la Cattedrale (oggi Concattedrale, cioè una chiesa che ha la stessa dignità e gli stessi privilegi di una cattedrale, ma ha precedenza minore nel diritto ecclesistico.) dedicata a San Paolo e, successivamente, a San Sisto.
Le cui reliquie sono conservate all'interno di un'antichissima urna di piombo, sul cui coperchio è incisa la scritta:
«HIC RECONDITUM EST CORPUS XYSTI PP. PRIMI ET MARTIRIS».
Dato l'alto numero di latinisti che legge i miei appunti evito la traduzione, imbarazzante per quanto facile.
La Porta Maggiore è posizionata verso il tratto sudorientale dell'Acropoli. 
Esattamente all'opposto c'è la Porta dei Falli, posizionata verso ovest dove c'è l'ombra.
Ed è proprio dove mi fermo per rinfrescarmi un po.


SMR

mercoledì 18 luglio 2012

Appunti di paesologia da Villa Latina e Casalvieri.

   Stamattina il mio "lavoro" di paesologo mi porta nella Valle di Comino, una delle valli paesaggisticamente più belle della Ciociaria Felix. E anche una di quelle più ricche di storia e di cultura. La valle è immensa, piena di verde, rigogliosa. Sembra un catino. Contornata da una corona di alte montagne. Adesso sono piene di verde; d'inverno, e fino a primavera inoltrata, piene di neve. Disseminata di abitazioni di nuova costruzione e di paesini, almeno una dozzina, che sembrano sparsi  a terra casualmente come i grani di un rosario rotto. Atina, Casalattico, S.Donato, Gallinaro, Picinisco; San Biagio Saracinisco, Casalvieri, Vicalvi,Posta Fibreno; Ponte Melfa, etc. Vengo da Cassino, percorrendo la SS630, la Cassino-Sora. Sbuco dalla lunga galleria, scollino e svolto subito a destra al bivio per Atina Centro Storico. Non sono mai stato a Villa Latina, ho delle indicazioni che però voglio accertare, mi fermo nella bella piazza di Atina e chiedo a un ambulante, un signore gentilissimo che lascia di sasso due vecchie clienti e si avvicina al finestrino come se il suo lavoro fosse quello della guida turistica, per indicarmi sorridente la direzione esatta; non bastasse, mi dice pure il chilometraggio: mancano meno di 5 km.
Passo davanti alla bacheca distrutta che indicava Casa Lawrence. Attualmente, si sta rivoltando nella tomba, per essere stato vittima - lui vero lord inglese - di tanta gratuita inciviltà.
Arrivo presto a Villa Latina e, sorpresa! è l'Eldorado del verde. Vegetazione in tutte le tonalità del verde. Magnifico. La prima impressione è fantastica. Scendendo dalla via collinare che curva dolcemente come le spire di un lungo serpenone nero, sembra di planare col parapendio in un immenso prato verde. Non pare  nemmeno di stare in ItaIia, sembra la Svizzera.
Il nome ufficiale di Villa latina fino al 1862 era 'Agnone'. Il nome attuale lo si deve alla presenza di un'antica villa termale ambita meta di villeggiatura per gli antichi Romani che già colonizzavano queste terre. Il paese sviluppa praticamente lungo un ampio vialone in leggera salita. Ai lati costruzioni nuove ebasse, massimo due piani, che al piano terra ospitano negozi, locali, attività artigianali e, naturalmente, bar, pasticcerie e gelaterie. Dalla zona di Atina e da tutta la Valle del Comino sono sciamate, praticamente in tutta l'Europa, orde di gelatai. In fondo alla salita si vede appollaiato sulla sommità di uno sperone roccioso il piccolo centro storico di un altro piccolo paese della valle: Picinisco.
A Villa Latina mi colpiscono subito quattro particolari:
1) l'insegna stradale che indica il sito  delle Mura Poligonali, conferma che il paese è molto antico e che, soprattutto, conserva gelosamente il suo passato storico e architettonico;
2) lo striscione che annuncia un interessante quanto improbabile "Old Scotch Festival-Fish&Chips";
3) la estrema pulizia dell'aria e di tutto il territorio, urbano;
4) il fatto che ho incontrato o visto passare per strada almeno una trentina di persone, apparentemente nessuna era sotto i 60/65 anni. Ma tutti erano arzilli e in ottima forma. Sembrava di stare a Cocoon!  
Mi siedo al bar con la scusa di leggere un po del libro di Aldo Garzia sul Genio di Uppsala (Ingmar Bergman) che mi porto sempre dietro, ma in realtà leggo poco, perchè attacco subito bottone con dei signori gentili, seduti al tavolino di fronte, che ben raccordandosi alla mitezza, alla tranquillità del paesaggio circostante, non solo non si sottraggono alle mie domande, ma ci restano male quando le finisco.
Mi dicono che il paese non conta più di 1250 abitanti. Che l'indotto fondamentale è costituito dalla Fiat di Cassino. Che, se chiude, poco male: quelli che ci lavorano torneranno a lavorare la terra. Che non è poi così male. Tutto sommato non fanno altro che confermare una mia vecchia teoria: quelle che, per "merito" del Divo Giulio (ndr, Andreotti), sono state occupate all'inizio degli anni '70 alla Fiat, non erano altro che ...braccia strappate all'agricoltura ciociara! Alla faccia di Marchionne, è meglio che tornino alla terra che quì ce n'è tanta e promette anche di essere buona, fertile e redditizia. Tra le varie prelibatezze del posto ne cito sonlo due ma sono tante: Il fagiolo Cannellino di Atina e il Cabernet DOC sempre di Atina. Quelli che mano mano hanno lasciato il paese per cercare fortuna fuori, stanno per lo più in Belgio, Scozia e Inghilterra (Gelatai?). Tornano d'estate e la popolazione lievita fino a 10.000 abitanti.
  

La lussureggiante Valle di Comino FR Panorama.

Faccio in tempo a prendere un caffè, peraltro davvero pessimo.
Me lo serve l'unica persona sotto i 60 anni che incontro a Villa Latina. Credendo di essere in credito con la fortuna compro anche un grattaevinci, ma gratto soltanto! Esco dal bar, non prima di aver lanciato un'occhiata in una curiosa vetrina ad angolo dove alloggiano diverse bottiglie; non posso fare a meno di notare la presenza (sorprendente in altro luogo ma non quì) di una bottiglia di Scotch Straigth, un Pure Malt Glenfiddich 18 yars old, di quelle da un litro a forma triangolare. Lascio Villa Latina un po di malavoglia. Se non fosse per quella ciofeca di caffè. Si sta bene, l'aria è fresca, quasi frizzante, ma ...naturalmente! Mi immetto ancora sulla SS630 direzione Sora, dove ho un appuntamento alle 11. Ma prima devo svolare immediatamente a destra per fare una breve tappa a Casalvieri. Percorro una stradina ombreggiata in leggera salita per qualche km. Pochi tornanti dolci e mi trovo di fronte al panorama del centro storico di Casalvieri tutto raccolto ai piedi del campanile della chiesa dei Santi Giovanni Battista, Evangelista e Nicola, del XVIII° secolo, opera dell'architetto Giacomo Del Sole (forse un indigeno), con una bella facciata barocca ornata di due statue. All'interno conserva dipinti settecenteschi e statue lignee, che però non faccio in tempo a vedere perche' s'è fatta già l'ora di andare. Tra l'altro non incontro quasi nessuno da intervistare, tranne un paio di signori, che mi appaiono molto meno disponibili di quelli incontrati a Casalvieri, seduti ai tavolini fuori del solito bar. Sembra che il tempo davanti a quei bar di paese si fermi. Se ci torno tra un anno temo d'incontrare le stesse facce. Ma tanto non ci torno. Ho così tanti posti dove andare ancora in Ciociaria.

SMR


Atina FR Panorama del centro storico.

martedì 17 luglio 2012

La Gazzosa (Bevanda ecologica degli anni ’60).


   
Ricordo che da bambini, nei primi anni ’60, al pranzo dei giorni di festa, o nei rari banchetti nuziali ai quali ci capitava di partecipare - allora si tenevano quasi sempre a casa degli sposi; quasi mai al ristorante come usa oggi - mentre i grandi bevevano vino, noi piccoli avevamo diritto alla nostra abbondante e fresca razione di gazzosa.
Ricordo pure come molte passeggiate fatte d’estate, in compagnia dei nonni o degli zii adulti, finivano con noi seduti a cavalcioni sul muretto, i piedi penzoloni, esausti ma soddisfatti; o all’ombra di un pergolato - come nelle più torride gite in Sicilia - a gustarci, in piena tranquillità, una bottiglietta ghiacciata di quella soave, frizzante bevanda, con leggero aroma di cedro.
Dubito molto che ancora oggi esista qualcuno disposto a produrre, imbottigliare e distribuire quella modesta bibita effervescente che bevuta d’un fiato ti toglieva il respiro.
Dubito molto che ancora oggi esista qualche buontempone disposto a venderla per le poche lire che allora ci chiedeva il nostro vecchio amico barista, grasso e  baffuto. Tu gliela chiedevi, lui la pescava dal bidone pieno di acqua e ghiaccio, tuffandoci dentro quasi tutto il braccio. Subito ti tendeva l’altra mano asciutta, aperta e avida. Ti cedeva la bottiglietta solo dopo che glie l'avevi regolarmente pagata.
Oggi siamo tutti condannati, inesorabilmente, alla modernità! E, si sa, la modernità  non sempre è vero progresso.
Di sicuro siamo tutti bersagli viventi. Vittime indifese. Sotto un bombardamento incessante di bevande colorate. E se ne vedono davvero di tutti i colori! Ne ho viste alcune di un terrificante celeste.
E ne vedo tuttora moltissime vendute in lattine colorate, o in bottiglie di plastica col tappo di plastica.
E il sapore? Vi chiederete! Anche quello di …plastica! Con lo zucchero o senza. Allora dentro c’èl’aspartame. O qualche altro stucchevole ritrovato di sintesi che possa renderle dolci - o, perlomeno gradevoli.
Se provi a leggere gli ingredienti, poi, ci trovi tante strane “E” con tanti numeri appresso. C’è di che preoccuparsi.
Costano molto, per quello che offrono e, forse, ti avvelenano pure - lentamente.
La nostra vecchia, meravigliosa Gazzosa non aveva niente a che fare con tutto questo. Anche a volerla indicare come il capostipite di tutte le bibite moderne, nulla può accomunare due modi tanto diversi di bere. Due interpretazioni così diseguali di rimedio alla sete. Oserei dire due filosofie di vita tanto difformi.
La nostra vecchia, meravigliosa Gazzosa era servita nella sua inconfondibile bottiglietta di vetro trasparente - oggi si direbbe “vintage”. Con le poche, semplici indicazioni, del produttore e degli ingredienti, scritte in rilievo sul vetro. Chiusa tassativamente col suo caratteristico tappo di ceramica bianca. Tenuto bloccato da una semplice ma geniale molletta di ferro. Guarnito con l’anello di gomma arancione - per non farla sfumare. Che te ne facevi di una Gazzosa senza bollicine? Avresti perduto tutto lo sfizio di berla.
La nostra amata Gazzosa appariva cristallina e incolore, quasi scialba alla vista, ma con un sottile, singolare gusto - miracoloso, per come semplicemente era fatta. Acqua minerale, zucchero, aromi di cedro o di altri agrumi. E solo una piccola aggiunta di anidride carbonica - a renderla piacevolmente frizzante.
Qualcuno tra noi - ma era raro - la trovava troppo mossa e vivace. Allora prendeva a sbattere maldestramente la bottiglietta, tenendola tappata col suo piccolo pollice. Quindi, mollando un po’ la presa, tentava disperatamente di farla sfumare - se non gli era prima caduta quasi tutta per terra.
L’unico effetto che poteva ottenere era di perderne mezza - con un grosso sbuffo impertinente. Anche agitato ben bene, o sbatacchiato energicamente, quel liquido continuava a frizzare - impassibile.
Era come se l’anidride carbonica, contenuta nella bottiglia, si rigenerasse in continuazione per cause soprannaturali - magicamente.
Se volevi, potevi solo attenuarne di poco l’effetto gasato. L’unico sistema era stapparla e aspettare - perdendo tempo a osservarla mentre sfiatava lentamente, naturalmente. Con la cannuccia d’ordinanza - rigorosamente di paglia, beninteso, non di plastica come oggi - infilata nel collo della bottiglia, che si sollevava come per incantesimo.
Oppure dovevi versarla in un capace bicchiere di vetro e aspettare che si ossigenasse. Ma se pensavi di doverla snaturare così perché dovevi comprarla? Se pensavi di doverla snaturare così allora era meglio non prenderla proprio quella Gazzosa!
Meglio procurarsi qualcos’altro da bere! O, no?
Se la gazzosa esistesse ancora, messa a confronto col milione di bibite che circolano oggi, di sicuro, sarebbe considerata la bevanda più naturale - dopo l’acqua.
Forse l’unica bibita veramente ecologica.
Ma se la gazzosa esistesse ancora, con un’abile campagna pubblicitaria, una di quelle, odiose e martellanti, studiate dai così detti “creativi” - quei fantasiosi signori che inventano le mode estive più perniciose - diventerebbe un nettare “chichissimo”, da vendere in tutti i locali alla moda.
E, dagli! foto sui giornali. Magari con la bottiglietta amorevolmente, e maliziosamente, ospitata tra le gambe o tra i seni di signorine mezze nude, sedute sulla sella di moto di grossa cilindrata con gli occhi a mandorla.
E questo indegno “can-can” ne appannerebbe inevitabilmente la genuinità dell’immagine. La renderebbe artefatta - quindi finta.
E il suo inconfondibile gusto prenderebbe di marcio.

Forse per questo motivo, in un mondo che sembra pericolosamente impegnato a distruggere quel poco che ancora ci resta di naturale e di schietto, qualcuno, tanti anni fa, di proposito, ha provocato la fine della nostra gazzosa.
Forse qualcuno ha, volutamente, accoppato la nostra Gazzosa.
La Gazzosa è morta!
Anzi, è stata ammazzata!
.…Per eutanasia.
        

(racconto in Appendice del libro di Salvatore M.Ruggiero: "Le stagioni della lattaia. Il racconto della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie.")