martedì 23 giugno 2015

Metto qui un breve brano dal mio libro:
Cronache dal piccolo borgo della pietra millenaria.





"...andando su, lungo Via Roma, appena dopo il rione Gelso, quasi all'altezza del vialetto del barbiere Angelo F., ti saresti imbattuto nella minuscola bottega di un calzolaio, Mario. Se era bel tempo lo trovavi fuori, sul marciapiede stretto stretto, seduto sulla sediolina, davanti al suo banchetto basso. Con la forma di un piede di ferro poggiata sulle gambe e un martelletto in mano. Mi pare ancora di vederlo; al tavolino e nel ripiano pieno di scomparti quadrati, davanti a lui; chiodi, puntine, tenaglie, pinze, colla, sotto-tacchi, raspe, lime, pezzi di cuoio, suole e tutto quello che serviva per le sue riparazioni. E anche qui il rumore caratteristico di un martello che appiattisce e forma la pelle. E anche qui i cultori dei rumori fini, avrebbero trovato pane per i loro denti: lo scivolare quasi impercettibile di una o spazzola sulla pelle. Più o meno veloce. FFRRRUUUMMM-FFFFRRRUUUMMMM!! FFFRRRUMM-FFFRRUUMMM!!! Come un treno che scivola su rotaie di velluto..."



voi non ci crederete, nessuno ci crederà, nessuno ci crederà mai, ma negli anni '60, a Coreno Ausonio, in Via IV Novembre, quello che oggi, nel 2015 è un tugurio, una stamberga, era la bottega di un artigiano, esattamente di un ciabattino. No! Non era Mario, il protagonista del racconto precedente; era un'altro,ma fa lo stesso: due ciabattini e anche di più, in un paesino di nemmeno 2000 abitanti, oggi fa fatica a sopravvivere un calzolaio che lavori a Formia, una città di 30000 abitanti. Allora il calzolaio stava in meno di due metri quadrati, ma bastava quello spazio angusto per sfamare una famiglia. Ditelo a quelli dei centri commerciali megagalattici; ditelo a quelli delle banche; ditelo ai nostri governanti; ditelo a quelli dell'agenzia delle entrate, del fisco, di equitalia. DITELO A TUTTI! sic!


smr

domenica 21 giugno 2015

oggi è la festa del papà.

nel giorno della festa del papà metto qui un ricordo di mio padre - che è stato davvero un padre speciale e adesso sta al piano di sopra - tratto dal mio libro
Le Stagioni della Lattaia. (p.s. quest'anno cade il 25ennale della sua molto prematura scomparsa)



Ancora due o tre cose sull'Americano....
era mio padre.



Da piccolo ho sempre pensato che mio padre fosse l’uomo più forte del mondo.  Forse l’idea non è proprio la più originale, dato che, probabilmente, tutti i figli, da piccoli, pensano lo stesso dei loro padri. Lui però aveva davvero un fisico roccioso. Pareva una statua scolpita in un blocco di granito. Vigeland[1] ne ho visto centinaia, plasmate come lui. Conservo una sua fotografia fatta al mare. E’ l’emblema di quanto vado dicendo. Era giovane - avrà avuto neanche trent’anni - e un autentico atleta. Sostiene mio zio a cavalcioni sulle spalle, e due amici con la sola forza delle braccia e delle gambe piantate saldamente nella sabbia. Sorride. Appare divertito. Per nulla affaticato dallo sforzo - che pure doveva essere immane. Mio padre è morto già da quasi vent'anni – mi sembra ieri. Se n’è andato quando tutti avevamo ancora bisogno di lui. Ce l’ha portato via un cancro allo stomaco. Causa del decesso: Adenocarcinoma Gastrico. L’unica malattia che temeva davvero. Tutte le altre le avrebbe prese a calci nel culo. Quella no. Di quella aveva veramente paura. Si era convinto che anche sua madre - mia nonna - ne fosse morta. E anche lei prematuramente. Lui stava già cominciando a morire. Ma nessuno di noi s’è accorto ch’era gravemente ammalato. Neanche il dottore incapace al quale si era rivolto fiducioso - voleva curarlo col Ranidil?! - che per vedergli dentro lo stomaco gli ha cacciato dieci volte un tubo nero in gola. Solo lui presagiva la fine del viaggio. Ricordo - chi potrà mai dimenticarlo - l’ultimo sguardo rivolto dalla strada, verso casa, in alto, prima di salire in macchina, il giorno che partì per il S. Eugenio. Era avvilito, sapeva che non sarebbe più tornato. Era una luminosa mattina di giugno, ma una notte buia gli era già calata addosso. La sua fine improvvisa a tutti è sembrata una beffa. Proprio l’organo che permette agli uomini di sopravvivere, dentro di lui si è rifiutato di funzionare ancora. Come impazzito, l’ha ucciso. Quel male è ferocemente subdolo. Ti attacca da dentro, silenzioso e invisibile. Ti consuma inesorabile, mentre continui a fare tutto normalmente. Spesso non ti accorgi d’averlo se non quando è troppo tardi. Allora ho capito veramente come siano fragili gli uomini, anche quelli che sembrano forti. Come siamo fragili. Reclamando dall’uomo distratto che stava di guardia il permesso d’entrare da solo nella stanza fredda, ho voluto salutare mio padre per l’ultima volta. Siamo stati insieme per lunghi minuti, ma entrambi eravamo soli. Lui impietrito, avvolto in lenzuolo bianco; io senza parole, raccolto in una preghiera muta, il viso segnato dalle ultime lacrime che avevo da versare. Ma, come per un miracolo, il suo volto non era più sofferente. Papà sembrava guarito - restituito per sempre all’espressione serena di sempre. Quella che nelle eterne settimane precedenti avevo dimenticato. Ho avuto l’audacia di scoprire il suo corpo. Era nudo sotto il sudario. L’ho osservato per interminabili momenti. Ho letto, cucita nelle sue carni, una lunga inutile ferita - testimone della scienza impotente che s’arrende al mistero insopportabile della Vita e della Morte. E’ stata la prova più dura di tutta la mia vita. Sembra mostruoso, ma può essere lecito, scoprirsi a pregare perché una persona che ami non viva più, sofferente, ma si spenga al più presto. Oggi, quando mi capita d’entrare nella chiesa deserta percepisco ancora gli echi del necrologio commosso del suo collega più caro - interrotto dai frequenti singhiozzi degli altri. Uscendo, avverto lontano il crepitio sordo dell’ultimo applauso al passaggio della bara portata a spalla dai suoi amici più fedeli - mentre sulla piazza cala, come un velo pesante, immateriale e dolente, il fiacco rintocco della campana a martello dei morti.  Le attività di mio padre hanno contribuito a farne un punto di riferimento nella comunità del paese - per l’istruzione, la cultura e la ricreazione. Gli hanno meritato la considerazione unanime d’eccellente e moderno insegnante. Oltre che di campione impareggiabile nell’organizzazione del tempo libero - in particolare del calcio. In paese è considerato l’eroe eponimo del pallone. Al pallone ha legato indissolubilmente il suo nome. Allenava i giovani per farne calciatori, ma in realtà il suo vero disegno era più ambizioso: cercava di formare uomini. Amava anche il pugilato. Quando l’incontro era nobile arte, eleganza e strategia veloce - una danza,  un balletto. Non massacro violento. E gli piaceva la caccia. Quella ecologica, se ne esistesse una. Rispettava profondamente la natura e gli animali, e interpretava l’attività venatoria senza accanimento. Era capace di stare fuori un’intera giornata, dall’alba al tramonto, attrezzato di tutto punto, il fucile carico sempre in spalla, la sicura innestata, senza sparare un solo colpo. Non riteneva un fallimento il rientro a casa, dopo una battuta, senza aver ucciso bestiole indifese. Un carniere che restava mestamente vuoto non lo innervosiva. Sembrava invece un evento in grado di procurargli una sensazione di piacevole serenità. Quando era in quello stato gli leggevi negli occhi un benessere quasi euforico.
   Mio padre è ricordato in paese per l’innata capacità di motivare i giovani e avviarli alla piena autocoscienza. Era abile ad intuire le inclinazioni degli allievi - anche le più nascoste - sapendole indirizzare sapientemente, e senza soperchierie, verso un corretto sviluppo delle attitudini e della personalità. Queste doti non comuni hanno contribuito in modo decisivo al coinvolgimento di generazioni intere ed alla buona riuscita delle sue occupazioni professionali e sociali. Gli hanno fatto guadagnare la stima e la gratitudine degli allievi, ma soprattutto dei loro genitori, che vedevano in lui un ulteriore, insperato supporto per l’educazione dei figli.
   Mio padre aveva una personalità forte. Era una persona concreta, determinata, in possesso di un carattere schietto e leale, a volte spigoloso, esigente, con parametri di valutazione rigidi. Ma prima di imporli agli altri, aveva provveduto a comandarli a se stesso. In genere gli adolescenti crescendo tendono a sviluppare un rapporto conflittuale coi genitori. Provano un senso d’avversione, li rifiutano, hanno propensione a escluderli dalle loro vite. Come se ne vergognassero. A me non è mai successo con mio padre. Lui era il mio vanto. Una parte fondante della mia esistenza - fin quando c’è stato. E, attraverso i suoi preziosi insegnamenti, anche dopo. Era una di quelle persone, ormai rare, che sceglieva anche di essere impopolare, se serviva a far prevalere la verità. Diceva sempre quello che andava detto, non quello che gli conveniva di più dire; sceglieva sempre di fare quello che andava fatto, non quello che gli conveniva di più fare. Sapeva bene che un tale comportamento intransigente non gli avrebbe procurato certo vantaggi - piuttosto qualche problema. Ma lui prendeva sempre una parte. Era una delle rare persone che ho stimato e ammirato. E che avrei stimato e ammirato molto, anche se non fosse stato mio padre. E se non avessi mille altre ragioni, me ne basterebbe una sola: l’ho visto spendere la sua intera vita per predicare, in ogni occasione utile, ma senza un filo di retorica la correttezza, l’onestà, la sincerità. A giudicare dai risultati ottenuti il suo è stato un lungo inesaudito soliloquio.
   Mio padre ha cercato d’insegnarmi la bellezza e la straordinarietà della vita; ma anche la complessità e la difficoltà del vivere quotidiano. Forse inconsapevolmente mi ha anche educato al piacere; molto meno al dovere. E, chissà, che per questo motivo in debba essergli grato, ancora di più.  Mi metteva costantemente in guardia sugli ostacoli che ognuno incontra se decide di vivere la sua vita pienamente; se si dispone ad assecondare la propria libertà di spirito; stabilisce di esercitare il  libero arbitrio. Non mi ha mai consigliato altrimenti, non ha mai tentato di persuadermi, o costringermi, a vivere la mia vita in maniera diversa.
   Mi ha lasciato in eredità la sua alopecia, ma anche la sua fierezza e la sua personale filosofia di vita - essenziale e sincera. A quella mi sono ispirato, costantemente. Cercando, nel contempo di costruirmene una che fosse solo mia.
   In passato mi è stata preziosa. Lo è ancora di più in un’epoca di valori ignorati, quando non oltraggiati. Sono perfettamente cosciente di non avere le sue qualità, e anche consapevole delle differenze che ci distinguono. Angustiato dall’intimo convincimento - che a volte si fa certezza - di non poterlo eguagliare, non mi resta che custodire gelosamente l’orgoglio di essere suo figlio. 



[1]  Parco alla periferia di Oslo. Prende il nome dall’architetto-scultore che lo progettò.

sabato 20 giugno 2015

I paesi, meglio abbandonarli che violentarli!

Metto qui un abbondante brano, estratto dal mio libro:
Cronache dal piccolo borgo della pietra millenaria.


I paesi è meglio abbandonarli che violentarli!



   La gente del mio paese si può distinguere, fondamentalmente, in due grossi gruppi: quelli che hanno (ancora) qualche speranza; quelli che la speranza l'hanno persa (definitivamente o quasi). Quelli che hanno perso la speranza, definitivamente o quasi, sono facilmente individuabili e possiamo facilmente capirli. Sono per lo più individui anziani, quasi sempre di sesso maschile, ultra settantenni, spesso già pensionati, emigrati che si sono ritirati al paese; sono disillusi e nichilisti (anche se non sanno che significa); non credono più in niente: in Dio, nella politica, nella modernità, nei giornali, in quello che dice la televisione (come biasimarli?); stanno spalmati sulle panchine in piazza o nella villa comunale, dove fanno i filosofi, o gli opinionisti un tanto all'etto; parlano solo del passato, mai del presente, tanto meno del futuro; quello li condurrebbe solo alla tomba; mettono in campo i loro ricordi, li montano, li smontano, li rimontano, li sciorinano, spesso sono ricordi vecchi, che risalgono a 40-50 anni fa (sennò che ricordi sarebbero?); del presente non gliene frega niente; vanno solo a prendere la loro pensione, spesso misera, qualche volta doppia, se hanno lavorato qualche anno anche all'estero (in Germania, Svizzera o Belgio, nelle miniere di ferro o di carbone) i primi cinque giorni di ogni mese (in ordine alfabetico) e, finché la Fornero lo permette, tirano a campare. Agiscono solo attraverso le loro funzioni vitali primarie: aspettando solo di mangiare a mezzogiorno, di defecare e di ...morire. Quelli che la speranza non l'hanno (ancora) persa sono per lo più giovani (ovviamente); studiano quasi tutti all'università fuori, si sono tutti inurbati. Oggi non esiste che l'università si faccia da pendolari come la facevamo noi negli anni '70. Certe volte svegliandosi assai presto - alle cinque d'inverno è ancora notte - chiedendo un passaggio a un operaio della Ginori di Gaeta, per poter prendere il treno locale delle 6,15 alla stazione di Formia e trovarsi a camminare lungo i vialoni di Castro Pretorio, per raggiungere La Sapienza, nella nebbia gelata di Roma, alle otto del mattino, in orario per la lezione del cattedratico di turno. Adesso, se si sceglie di studiare fuori all'università - a meno che non sia a Cassino: che dista 15 chilometri, e lì ci si va con l'auto di papà  - che sia Roma, o Napoli, Pisa o Perugia o Camerino o Bologna, ovunque, ti devi affittare una stanza e stare fuori 300 giorni l'anno. Quelli che non hanno perso la speranza (pare) sono anche le persone, non ancora pensionate e che non studiano all'università, ma che lavorano al paese o anche fuori, e poi la notte tornano a dormire tutte nelle loro case al paese. Il famoso paese ...dormitorio. E, siccome, escono presto la mattina e tornano la sera tardi, tanto stracchi da andare a letto con in pancia solo una tazza d'orzo caldo o una zuppa di latte e caffè, sembrano auto-esiliati dalla vita sociale (vita sociale? parola grossa!), non li vedi mai. Potresti vederli la domenica mattina, in mezzo alla piazza, all'uscita della messa cantata, se andassero in chiesa, ma dovresti andarci anche tu. E la gente non va nemmeno più in chiesa, nemmeno nei paesi. La messa cantata della domenica era gremita di gente, non ci si entrava: adesso le prime file dei banchi sono occupate dai ragazzini che fanno la preparazione alla prima comunione, altrimenti l'immensa navata della chiesa di Santa Margherita sembrerebbe vuota. Altrimenti, per vedere i ...desapercidos, non ti resta che aspettare le ferie d'agosto. Quelli che (più o meno apparentemente) non hanno (ancora) perso la speranza sono gli imprenditori, i professionisti, i commercianti, gli artigiani, o comunque tutte quelle persone che hanno le loro attività al paese o con sede nel paese ed interessi nel paese e anche fuori. Loro la speranza ce l'hanno incorporata. Devono averla per forza. Anche perché, se quelli avessero persa la speranza, o le speranze, tirerebbero i remi in barca e farebbero come gli amici pensionati. La loro attività non avrebbe più senso. A pensarci bene qualcuno del secondo gruppo lo fa già, ma non ammetterebbe mai pubblicamente di aver perso la speranza, non lo direbbe mai apertamente come, invece, fanno quelli del primo gruppo. Allora fa finta di niente anzi, fa finta di averla (ancora) la speranza, e tira avanti. Ingannando se stesso, prima degli altri. Ma quello che a me pare più grave è che certe volte la speranza sembrano averla persa anche certe mamme che vedo spingere per strada, con aria afflitta e nulla affatto felice, anzi rassegnata, il passeggino con la loro speranza ...dentro. Oppure certi ragazzi con i jeans a vita bassa che trascinano il loro culo basso per strada, spingendosi a calci e pugni senza sapere come altro occupare il loro tempo. Ma di quale Speranza stiamo parlando, quando ci chiediamo chi l'ha conservata e chi l'ha persa? La domanda è legittima, dal momento che la Speranza, quella con la esse grande, è una, ma le speranze, anche le più piccole, possono essere tante. E ciascuno può avere, anzi deve avere, legittimamente, la sua Speranza grande e/o le sue speranze piccole, e coltivarle entrambe. A me pare che la Speranza (generalizzata) di cui stiamo parlando, possa essere divisa a metà, o se preferite, raddoppiata o moltiplicata per due o per tre: 1 - che il paese non muoia, ma sopravviva, anche tra mille difficoltà; 2 - che il paese diventi, finalmente, un paese normale; 3 - che il paese rifiorisca, come recita anche lo slogan della Pro-loco. 
Le speranze più piccole, contenute tutte in quella più grande, sono molte, ma potrebbero essere riassunte in una breve lista. Cioè, che il paese possa diventare un posto dove: - la gente viva in pace, in perfetto equilibrio e simbiosi, con se stessa e con gli altri compaesani; - ci si interessi alle condizioni del prossimo sempre, non solo quando siamo chiamati ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, al cimitero; - non ci si rivolga al nostro prossimo solo quando ci interessa avere o ricevere qualcosa da lui, e poi disinteressarci dei suoi bisogni e finire per ignorarne anche l'esistenza; - non esistano (solo) bisogni individuali, anzi, esistano pure, ma con essi convivano e siano ugualmente importanti, anzi preponderanti, i bisogni collettivi, quelli di tutti e non di uno solo, quelli di tutti i cittadini e dell'intero paese; - non esistano più o vengano cancellate per sempre incomprensioni politiche radicate nei decenni e drammaticamente stranianti; - l'economia ridiventi in qualche modo "autarchica" e si ricominci a pensare, come una volta, che una lira quando ha attraversato i confini del paese, lo avrà fatto definitivamente e non tornerà più indietro; - si ricominci a collaborare gli uni con gli altri senza pensare, come avviene adesso, che tutti possono bastarsi e che nessuno ha bisogno di nessun altro, anzi può farne tranquillamente a meno; - si possa riscoprire il gusto di mettersi al servizio della propria comunità gratuitamente e non per arricchirsi o, comunque, per migliorare la propria posizione economica o sociale; - non si sia concorrenti l'uno contro l'altro, ma tutti, ciascuno per la propria parte, concorrano a migliorare realmente il paese; - non ci siano signorotti innominabili che fanno il bello e il cattivo tempo, come nei secoli bui del medio-evo; - non regnino il perbenismo, l'ipocrisia e l'egoismo; - negli animi della sua gente non alberghino solo invidia e risentimento; - si viva ogni giorno religiosamente, come se si andasse a una processione dietro al santo, con umiltà, rispetto e riflessione; - anche chi è ancora affetto dalla cd. sindrome del suddito, si curi, cerchi di guarirne una volta per tutte e si emancipi, rassegnandosi all'idea che i signori da servire non esistono più; - le parole d'ordine della comunità diventino solo due e molto semplici: Mutualità e Cooperazione. La Speranza è una, grande, molto grande, ma può contenere tante altre piccole speranze. E' molto importante nutrirle, innaffiarle come fossero tante piccole piante; farle crescere, fortificarle, accudirle. E' importante sapere che se il terreno intorno si inaridisce anche le nostre speranze possono appassire. E, se appassiamo noi, anche le nostre speranze moriranno con noi. E, in ultima analisi, e come extrema ratio, resto sempre del parere che i paesi bisognerebbe preservarli e difenderli, anche e soprattutto, da certi loro abitanti. 
E, se proprio non ci si riesce ... è meglio abbandonarli, i paesi, che violentarli!

venerdì 19 giugno 2015

Amo molto osservare...

dal mio libro "Passeggiate nella Memoria Profonda di un Ragazzo di Paese" metto qui un brano tratto dall'excipit.


   Amo molto guardare la gente che passa per strada. Mi piace osservare, senza essere visto, quello che fa, come cammina, come gesticola. Mi piace immaginare come la gente vive, dove vive, la casa che abita, l’auto che guida. Mi piace immaginarne il titolo di studio, il lavoro che fa, la cultura che ha, e la mentalità che la opprime. La personalità e il temperamento. I costumi e le abitudini. Le manie e le paure. E i tic, se li ha. Ma quelli, li hanno tutti. I timori e le insicurezze (quelle non mancano mai). Le sicurezze e le certezze (anche quelle non mancano mai). Mi piace osservare la gente che passa per strada, senza essere visto, e poi classificarla per tipo, come farebbe un entomologo con i suoi piccoli insetti. Ovviamente - ca’ va sans dire - non mi sognerei mai di trapassare nessuno con uno spillo al centro delle spalle; dopo averlo trafitto, non inchioderei mai nessuno sul fondo di una scatola, chiusa da un coperchio trasparente. Anche se, lo confesso, la tentazione di trattare qualcuno come fosse un insetto è forte. Più di qualcuno che conosco meriterebbe di essere trattato come una blatta. I tipi che vedo passare per strada, sono molti e variegati. C’è il tipo nervoso, l’indaffarato (certe volte vero, certe volte finto), quello pieno di tic, il fannullone, cha va solo perdendo tempo e… si vede; il curioso, che osserva tutte le vetrine, ma non compra mai niente; c’è la coppia di giovani innamorati che si tiene stretta per mano e non si stacca nemmeno se ha qualcuno che le avanza di fronte (guai staccarsi, semmai costringono lui a cambiare strada e deviare). Poi c’è la signora anziana, nonna lenta, col bambino piccolo, nipote veloce. Uno corre davanti, l’altra dietro. L’anziano lento e quello veloce. L’insicuro e il barcollante. Le torme di studenti appena usciti da scuola, che sembrano mandrie bovine o, anche, transumanze. Insomma, un campionario di varia umanità, muta, anonima, trascurabile, che cambia, sfila, appare e scompare. Lasciando, solo una rapida traccia di se: un flebile ricordo, appuntato su un taccuino. Sul quale si cerca di raccontare le piccole storie di uomini che non hanno fatto la storia, ma che hanno tutti una piccola o grande storia da raccontare.

martedì 2 giugno 2015

La pietra bianca sulla montagna che segna l'ora per i contadini.




metto qui un brano dal mio libro Storie dal Paese dei Ciclamini:



Come facevano gli antichi abitanti del mio paese a sapere esattamente o, anche, con buona approssimazione, che ore fossero? Come facevano a sapere quando era arrivata l'ora di lasciare il lavoro nei campi per arrampicarsi in paese per la notte, attraverso la salita della vecchia, impervia Strada Serra? Prima della seconda grande guerra gli orologi da polso non erano ancora troppo diffusi in paese, qualche raro esemplare era appannaggio solo dei pochi, ricchi notabili. Si sarebbero dovuti aspettare gli anni dell'immediato dopoguerra, gli anni della ricca ricostruzione perché mio nonno, il mitico Nonnu Salvatore, conosciuto da tutti in paese come Zì Salvatore gl'arefece potesse cominciare a smerciare e a diffondere - antesignano del mercato parallelo - gli Zenith, i Longines, i Tissot, i Vetta, orologi meccanici a carica manuale, d'acciaio o laminati d'oro che qualcuno ancora mostra orgoglioso sul polso raggrinzito dalla vecchiaia, quando mi incontra per strada o viene al negozio per la manutenzione. Mio nonno li comprava a Napoli, in Piazza Mercato, a Forcella, dietro alla Stazione Centrale, e li rivendeva a rate - un tanto al mese - a Coreno, per una cifra complessiva che spesso valeva uno stipendio mensile. Dovevano essere davvero soldi ben spesi, all'epoca, perché quegli orologi sono sopravvissuti a molti proprietari e anche a mio nonno. Stessa storia per gli orologi tascabili; solo chi aveva un ricco zio emigrato in America poteva vantare il possesso di un Elgin d'argentone o di un Roskoph, rumoroso ma indistruttibile, col quadrante in ceramica, se l'avo, invece di andare in America col piroscafo, fosse restato a lavorare nel vecchio continente. L'orologio della torre campanaria non so se c'era; e se c'era non si vedeva certo dalla campagna. Allora, siccome dalle mie parti si dice ed è vero: scarpe grosse, cervello fino; la necessità aguzza l'ingegno, a qualcuno di quei villici arguti dev'essere venuta un'idea veramente brillante. Si doveva cercare, individuare e sfruttare necessariamente un segno naturale sulla montagna di Fammera, che fosse facilmente visibile, anche da molto lontano, da chiunque si trovasse nelle campagne di Coreno ed avesse bisogno di regolarsi. E così fu. Fu segnalata una grossa formazione rocciosa, un enorme esemplare di calcare sporgente, bianco abbagliante, proprio a destra della base di uno sperone di roccia più grande, a metà dell'altezza della montagna: quando l'ombra di quello sperone fosse stata proiettata su quella pietra, spaccandola quasi a metà, potevi essere sicuro che, in quella stagione, o anche nelle altre potevano essere: le dodici, l'una, le due o le tre spaccate, del pomeriggio. A quell'ora convenzionale si doveva interrompere il lavoro e cominciare a preparare la vappata o il saccapà perché, di lì a poco, si doveva intraprendere la strada del ritorno, lunga e dura. La lunga e dura giornata di lavoro nei campi sarebbe finita; ma non la strada per casa: quella attendeva immobile, inesorabile, immutabile, lungo i ripidi declivi della collina i contadini stanchi e sudati. Per ironia della sorte, oggi che gli orologi si sono diffusi e inflazionati - tutti ne hanno almeno uno sul polso - non ci sono più contadini in campagna, che hanno necessità di sapere l'ora.
Nessuno butta più l'occhio verso la roccia dimenticata sulla montagna di Fammera. Qualche anno fa un gruppetto di buontemponi lo sguardo verso Fammera deve averlo l'ha buttato ancora una volta per accorgersi che la pietra sulla montagna non si vedeva più. Le pietre, dalle nostre parti, ingrigiscono col tempo,; col tempo e con le intemperie e i licheni, perdono il loro pallore lucente. Allora quel gruppetto di amici ha raggiunto a piedi la roccia, armato di pennelli e vernice, l'ha dipinta di bianco, per farla vedere bene da lontano, ancora una volta. Anche se non si sa bene da chi. Forse da tutta la gente del paese, che ha dimenticato la vecchia tradizione dell'orologio di pietra. Oggi, per vedere l'ora, non serve guardare da lontano una grossa pietra verniciata in montagna; basta guardarsi sul polso. O su quello del vicino.



questa è la pietra che si trova alle falde del monte Fammera dipinta da Andrea La Valle e dai suoi pards per consentire ai (pochi) contadini di Coreno rimasti di vedere l'ora.


smr