sabato 21 giugno 2014

Ursulella, l'ultimo mastro casaro

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Ursulella è l'ultimo mastro casaro ancora in attività rimasto al mio paese.
E' cugina di mio padre, figlia del leggendario zio Giovanni, fratello di mio nonno Salvatore:
quello che quando veniva a prendere la pensione all'ufficio postale su al paese, riscuoteva i soldi,
li divideva in mazzetti non tanto spessi, di una decina di milioni ognuno, e se li faceva cucire dalla moglie nella federa della giacca, l'unica che aveva, quella che portava addosso, d'estate e d'inverno.
Non aveva né caldo d'estate, né freddo d'inverno, ma doveva sempre stare vicino ai soldi; i soldi dovevano stare sempre vicino a lui, anzi addosso a lui. E allora aveva studiato questo curioso espediente di cui nessuno sapeva nulla, tranne la fidata moglie. Quando è morto, una
quindicina d'anni fa, aveva ottant'anni, hanno trovato la giacca appesa a un chiodo da dieci storto, infilato dietro la porta della camera da letto, pesava troppo, c'era tutto il suo denaro dentro: un
centinaio di milioni in contanti e buoni fruttiferi. Quando m'incontrava in paese mi baciava sempre con grande trasporto, ma non ricordo che mi abbia mai dato una moneta. "Tuturì, Tuturì, vè
cà!" diceva in dialetto stretto. Poi, in italiano perfetto, mi sottoponeva a un quiz, che consisteva sempre nella solita, unica domanda. Per anni, anche quando ero diventato grande, mi chiedeva:
"Quanto pesa, secondo te, una zanna d'elefante africano!" Non mi degnavo nemmeno di rispondergli, facevo spallucce, gli urlavo in faccia un bel "BOOH!" e scappavo. Tanto, pure se avessi risposto correttamente, in palio non c'era mai niente.
Ursulella avrà una sessantina d'anni, ma se li porta bene, un po grassoccia ma in ottima
salute, sembra una vergara marchigiana. Quando ha le guance rubiconde potresti anche scambiarla per una contadina siberiana. E' sposata con Mario, detto Mariuccio, anche lui fa Ruggiero di
cognome, come buona parte dei nostri compaesani. Ruggiero, dal sassone Rutger (siamo parenti lontanissimi di Rutger Hauer, il coprotagonista di "Blade Runner", un mio film di culto, ma da prima
che scoprissi la storia del cognome), è uno dei cognomi più diffusi a Coreno, ma non siamo tutti parenti, anzi, molti di noi non sono parenti fra loro, solo ...cognonimi.
Ursulella e Mario Ruggiero non hanno avuto figli e non hanno mai nemmeno pensato di adottarli.
Evidentemente stanno bene così. In compenso hanno una fattoria in campagna, dove vivono e lavorano, piena di gatti, saranno una trentina, ognuno battezzato da Ursulella con un suo nome proprio. E se li ricorda tutti, uno per uno. Certe volte la prendo in giro, accusandola di barare ma lei li chiama tutti e non sbaglia mai il nome, ne lo dimentica, anche se costretta a snocciolarli per due o tre, comefossero figli. Ursulella e Mario vivono di pastorizia - un'attività economica che si sta estinguendo in Ciociaria come in tutto il resto d'Italia - hanno un centinaio di capre. Mario le pascola, insieme le mungono la sera, appena tornate dal pascolo, ma solo Ursulella ha imparato a lavorare il latte e a farne derivati: ne ricava delle ottime ricotte e formaggio fresco. Una parte della produzione la vende in giornata; la parte in esubero la stagiona e la mette sottolio. Le sue ricottine stagionate si spalmano sul pane, come nutella bianca: sono pornogastriche. D'estate, ogni sabato dopo l'una, mamma mi chiede di accompagnarla con la macchina a prendere un paio di dozzine di
ricotte fresche che poi distribuisce fra tutti gli zii e i figli. Anche le ricotte fresche sono praticamente una panna. A me piacciono spalmate sul pane casereccio e spolverizzate con una nevicata
abbondante di zucchero. Che meraviglia!

mercoledì 18 giugno 2014

Abbracci e baci


Ho un amico in paese, quasi coetaneo, che scrive poesie e mi va particolarmente a genio. 
Ed io penso di andare a genio a lui. 
Quando c'incontriamo, anche ogni due tre giorni, lui, fingendo una piacevole sorpresa, mi si rivolge dicendo: "Scrittore Ruggiero!"; ed io, mentre avanziamo l'uno incontro all'altro, mi rivolgo a lui, fingendo anch'io sorpresa e dicendogli: "Poeta Quirino!" 
Poi, per completare l'incontro, ci abbracciamo, incrociando ognuno le sue braccia robuste intorno alle spalle e alla schiena dell'altro e abbozzando un bacio su ciascuna guancia. 
E' da un po' che lo facciamo e la storia rischia di andare avanti ancora per molto. 
Ed io, da un po', mi sono accorto che siamo i soli che lo fanno, in paese.

sabato 14 giugno 2014

Boville Ernica, una mattina.


Oggi il mio lavoro di paesologo che non riceve alcuna retribuzione, se non dal suo piacere personale, mi porta a Boville Ernica. L'antica Bauca. 
Cittadina in provincia di Frosinone, a pochi km di distanza dal capoluogo. 
Sorta, in epoca preistorica, su un colle a ca. 450 metri s.m. , che domina le tre valli dei tre fiumi ciociari: il Sacco, il Liri e il Cosa. 
Compresa nell'elenco dei Borghi più belli d'Italia. Come avverte un cartello posto appena fuori della grossa porta dalla quale si accede da nord-est al vecchio centro storico. 
Appena sopra, una piastrella di ceramica recante una poesia di C. Zavattini, scritta durante un suo soggiorno a Boville, e apposta il 13 dicembre 2009, recita:
"Verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno!"

Sapete come si chiamano gli abitanti di Boville? Baucani. 
A parte l'etimo curioso, che contiene un paio di richiami alla cinofilia, pare si tratti di una delle popolazioni più antiche del Lazio, quindi della Ciociaria: gli Ernici. 

La giornata e molto calda e assolata. Non l'ideale per una passeggiata, ma attirato dalle tante promesse fatte della bella cittadina mi avvio bendisposto e attrezzato. 
Prima di cominciare la visita, compro in un baretto, una bottiglia d'acqua fresca per idratarmi e impugno l'immancabile digitale.

All'esterno dell'acropoli, stretta in una robusta e ininterrotta cerchia di alte mura medievali, risalenti al X° secolo, c'è un agevole parcheggio, non a pagamento: lascio la macchina e, passando attraverso una delle tre porte esistenti, mi immergo nel dedalo di viuzze antiche che mi portano subito alla chiesa di S. Michele Arcangelo, che sorge in Piazza S. Angelo, poi, attraverso un vicolo laterale a destra, alla Chiesa di San Pietro Ispano dove è custodito il celeberrimo mosaico l'Angelo di Giotto. 
Un mosaico unico, non molto grande - appena 70 cm di lato - ma perfettamente conservato e preziosissimo, proveniente certamente dalla stessa scuola romana del Pittore Giotto, che pare sia stato donato personalmente dal Pontefice, Paolo V°, allora regnante, agli inizi del XVII° secolo, esattamente nel 1610, a Monsignor Giovanni Battista Simoncelli, baucano,  nella curia di Roma, protonotario apostolico “cubicularius” addetto alle vesti del Pontefice. 
Sono fortunato, perfettamente sincronizzato con l'orario di apertura della chiesa. 
Arrivo alle undici in punto. 
Un vigile, al quale mi rivolgo, mi avverte che apre esattamente a quell'ora e che la visita è gratuita. Prima, però, tento d'imbucarmi come portoghese in un gruppo di turisti che ha prenotato una visita guidata al convento attiguo. Poi, siccome il tempo è tiranno e devo correre, decido di farmi riaprire il portoncino dalla suora di guardia, che nel frattempo ha abbassato, addirittura, il paletto di ferro. 
Con la scusa di tornare alla macchina a prendere qualcosa che mi serve, esco e, salendo appena due o tre gradini, passo il portone di legno semichiuso della chiesa attigua. 
La navata non è molto grande ed è immersa nella penombra e nel silenzio. 
Giro intorno e butto l'occhio in tutte le cappelle laterali. Fino all'ultima, sul lato sinistro - è quella buona - dove, in alto, in una cornice ad arco, subito sopra un grande dipinto su tela, scorgo quello che cercavo. 
E' un po' buio ma si distingue agevolmente il caratteristico volto angelico alato che sovrasta una cornice di tessere d'oro. E' davvero bellissimo. Da solo vale un viaggio a Boville. 
Resto un po' in contemplazione, la merita tutta. 
Me ne stacco a malincuore, avviluppato da tanta bellezza. 



Alla fine devo proprio andarmene. 
Maledico il tempo che nessuno ha più! 
Esco. Intorno alla chiesa, alla quale si accede attraversando il maestoso arco del Castello Filonardi, sovrastato da una splendida trifora, si aprono un dedalo di viuzze e vicoli tipicamente medievali che portano tutti alla piazza centrale di S. Angelo, a pianta rettangolare, dominata dall'enorme e incombente facciata della Chiesa di S. Michele Arcangelo. 
Poco prima di accedere alla piazza, sulla destra, l'ingresso della Locanda di Giotto. Ma è chiusa e comunque sarebbe troppo presto per fermarsi a mangiare qualcosa. L'avrei visitata volentieri. 

Lascio Boville quasi a malincuore, costeggiando in auto, lentamente, la lunga passeggiata panoramica sulla mia sinistra e la lunga muraglia di cinta medievale sulla destra. 
Mi ha detto un paesano, incontrato per strada, che le mura costruite nel X° secolo d.C. sono talmente ben conservate che, se si chiudessero le tre porte d'accesso, l'acropoli diventerebbe praticamente inespugnabile. 
Sulle colline intorno, nonostante la foschia, scorgo, in lontananza, una miriade di altri piccoli centri abitati. Pare che se ne possano individuare ben 72 di 4 regioni diverse (Lazio, Campania, Molise e Abbruzzo). 
Proprio di fronte a me, prima d'iniziare la discesa che, per il Giglio di Veroli mi riporterà a Frosinone, vedo netta l'antica città di Veroli. Famosa per le sue mura megalitiche e per i Fasti Verulani.

Una delle mie prossime meravigliose mete Ciociare.

venerdì 13 giugno 2014

CORI (Lt)



Arrivo a Cori, costeggiando Doganella di Ninfa, in una mattinata afosa e molto umida: la foschia
impedisce di vedere la pianura Pontina che si stende a perdita d'occhio e perfino la grossa macchia
verde del parco di Ninfa, che altrimenti sarebbe visibile da chilometri di distanza.
Scopro subito, a mie spese, che di Cori ce ne sono due: Cori Monte e Cori Bassa.
Io vado a Cori Bassa.
Arrivo in piazza, dove mi attende un parcheggio ampio, ma poco attrezzato, nel senso che è
senza strisce e col fondo sterrato. Fortuna che c'è ombra e col caldo che fa non è poco.
Lascio la macchina completamente nell'ombra di un grosso salice - nella quale la ritroverò - e mi avvio a piedi, armato di buona volontà, curiosità (molta) e la mia inseparabile macchinetta digitale.
Incontro subito una piazzetta che deve aver visto tempi migliori. Adesso tranne il fresco degli alberi e le panchine (peraltro scomodissime) non offre più niente.
Solo un piccolo spiazzo, lastricato di porfido, reso pedonale da due transenne d'alluminio, all'interno del quale alcuni bambini piccoli giocano a pallone con un Santos, tanto per restare in tema coi mondiali in Brasile che s'inaugurano oggi.
Intanto conto almeno una trentina di tigli, a coppie di due, sistemati sui marciapiedi a fianco della strada, mentre annuso dall'aria il loro odore, che in questa stagione è inebriante.
Dopo un pò mi avvio in salita, passando sotto un arco finto, allestito per la scenografia del Carosello Storico dei Rioni di Cori che si terrà questa estate.

 La prima impressione che ricevo dalla città è pessima; appare maltenuta, trascurata, zeppa di muri crepati e scrostati. Sulle facciate esterne di quasi tutti i palazzi, molto in alto, credo di scorgere, i colpi inferti dai fucili e dalle mitragliatrici durante la guerra. Ci vorrebbe un bel restauro generale per portarla ad uno splendore solo lontanamente suggerito dai fregi in muratura appena visibili sulle facciate dei palazzi ottocenteschi che incoronano la piazza.


Un signore che mi vede scrivere i miei appunti mi si rivolge: "non perde tempo lei!"
Gli dico che sono un paesologo e che sto raccogliendo i miei appunti.
Non mi chiede cosa sia un paesologo, ma si avvicina per raccontarmi qualcosa della città e mi svela un particolare curioso.
Pare che, contrariamente alla legge di gravità che sta spopolando tutti i centri storici della Ciociaria, Cori Monte sia molto più vivace commercialmente, culturalmente e socialmente; il sindaco e la giunta investono molto più sopra che sotto.
Ovviamente, di questi tempi, la coperta è troppo corta e non permette di spendere soldi anche a Cori Bassa, che infatti appare come appare.
Mi dice pure che ai commercianti pare molto più conveniente allestire il loro mercato settimanale, definitivamente a Cori Monte, invece che, come avveniva prima, alternarlo una settimana sopra e l'altra sotto.
E mi rivela anche, ma senza ombra di razzismo, che la città ospita più extracomunitari che coresi; è piena di indiani, rumeni e magrebini che lavorano a Latina e nalla Pianura Pontina, ma trovano molto più conveniente abitare a Cori, pagando meno di affitto.
Mi alzo e m'incammino. Sono diretto al Pozzo Dorico, al Tempio di Castore e Polluce e al tempio di Ercole e, se ce la faccio, vorrei anche visitare le Mura Poligonali del V° secolo prima di Cristo, che si trovano nel centro storico di Cori Monte, la vecchia Cora.
Mentra salgo a piedi lungo il decumano centrale mi imbatto nella casa che diede i natali a Marchetti, ingegnere progettista e costruttore dei primi aerei italiani, nonché pilota che trasvolò due volte l'Oceano Atlantico.
Ma dopo qualche km il caldo si fa insopportabile e, deluso, desisto dal continuare oltre nella salita. Torno in piazza per rinfrescarmi a una delle tante fontane di ghisa e m'imbatto in Muhammad, che si siede accanto a me, i capelli neri e crespi e la barbetta rada, il suo interloquire tradisce una pesante inflessione romanesca, di cui pare orgoglioso, quando mi dice che anche chi non lo conosce ci sente l'accento corese.
Dice di chimarsi Simone e che venne in Italia 24 anni fa, ora ne ha 25, e mentre parla con me, chiede una sigaretta a tutti quelli che ci passano davanti, ma nessuno gliela da.
Mi dice che Cori è più antica di Roma - la città dei suoi sogni - lo ha saputo appena 15 giorni fa.
In effetti pare che la fondazione della vecchia Cora risalga al XIII°-XII° secolo A.C.. 
Mi racconta che quando compì 18 anni, lo stesso giorno, decise di cambiare vita "vaffanculo!" mi fa: voleva andare a Roma e stabilirsi lì per sempre. Addio Cori!
Ma il padre ne denunciò la scomparsa e i carabinieri lo trovarono mentre tentava di prendere il treno per Roma, alla stazione di Cisterna, e senza biglietto.
Lo bloccarono prima che riuscisse a inurbarsi e a scomparire per sempre, fogocitato dal ventre della megalopoli.
Adesso continua a vivere a Cori, un pò sconsolato, facendo lavori saltuari.
Come elettricista "quando lo chiama uno di Velletri" - mi dice - oppure offrendosi come guida turistica dell'antica Cori.
Mi racconta di quando accompagnò alcuni turisti al Tempio di Ercole, dopo tanto camminare questi stanchissimi decisero di non continuare e di fotografare il tempio da sotto con lo zoom; non lo pagarono e non gli diedero nemmeno una piccola mancia.
Li pagò lui con un sonoro e meritato "vaffanculo!".
Muhammad é un vulcano di aneddoti; un fiume in piena di curiosità sulla cittadina.
Il piatto tipico di Cori sono le fettuccine alla corese, coi funghi.
L'economia di Cori si fonda sulla coltivazione della vite e dell'ulivo, da cui si ricava un gran vino d.o.c., il Cori bianco e rosso, e un olio e.v.o. eccellente.
Le notti di Cori sono molto movimentate, per via delle risse che si scatenano tra rumeni e indiani ubriachi.
A Cori fa fresco perchè già dal pomeriggio si alza un piacevole vento.
Anche lui è rimasto ferito in una lite con un rumeno ubriaco che gli chiedeva una sigaretta e sfilandogliela dalla bocca lo colpì con un pugno in pieno viso provocandogli una ferita alla cartilagine dell'orecchio sinistro.
Me la mostra e mi racconta la sua odissea per raggiungere il pronto soccorso e farsi medicare.
Quel simpatico e facondo magrebino non mi risparmia nemmeno la diagnosi e la cura dell'assai disponibile medico.
E' talmente disponibile che si offre pure di sintonizzare il mio net-book sul wi-fi comunale.
Ma dopo ripetuti tentativi desistiamo.  
"Vaffanculo!" Stavolta lo dico io.
Mi alzo, guadagno la macchina, apro lo sportello, metto in moto e me ne vado.
Mentre scendo verso Latina Scalo attraverso campi coltivati a kiwi.
Scorgo sulla collina alla mia destra il profilo di Norma, l'antica Norba e, di fronte Sermoneta, col suo Castello Caietani imponente.
E penso alle meravigliose bellezze che mi circondano e che devo scoprire, tutte.

mercoledì 11 giugno 2014

La casa dove abitava Umberto Cortese



    "La casa che Umberto Cortese, il giovane napoletano venuto al paese qualche anno fa e morto tragicamente, aveva comprato a Coreno Ausonio per venire a viverci con la vecchia madre, aveva una storia, come tutte le case vecchie dei paesi vecchi. Maria U., l'attuale proprietaria, l'aveva ereditata dalla madre Angela Di Bello, molto tempo prima della sua morte. L'aveva fatta restaurare perfettamente per farne la sua casa, in occasione del matrimonio. Solo qualche tempo dopo si era messa in cooperativa. Allora, pur se a malincuore, aveva deciso di vendere la sua cara casa materna, dotata di tutti i comfort e col marmo per terra, per pagare una fetta consistente della sua nuova casa: quella dove tuttora vive con le figlie. La madre di Maria, Angela, aveva ereditato a sua volta la casa dal padre e della madre: Francesco Di Bello e Paola Branca. Avevo grande familiarità con loro e ogni tanto andavo anche a trovarli, perché i nonni di Maria U. erano anche gli zii di mio padre: Zì Franciscu era fratello carnale di nonna Anna Maria, la madre di mio padre. I due vecchi coniugi furono protagonisti di una storia che negli anni '70 commosse molto tutta la popolazione del paese. Se ne parlò per molti giorni e la memoria ancora sopravvive vivida. I due protagonisti erano due brave persone, molto amate da tutti. Morirono a un solo giorno di distanza l'uno dall'altra. Prima morì Zia Paolina, non ricordo bene, ma mi pare per un tumore allo stomaco; il giorno dopo morì Zì
Franciscu, di crepacuore. Lei gli aveva fatto l'atto di richiamo. Come si dice nel mio dialetto quando un coniuge morto chiama l'altro, con sé, in paradiso. E non aveva importanza che entrambi fossero anziani e molto ammalati: a tutti il fatto apparve pieno d'amore, e provocò un moto di commozione. Come se avessero deciso da sempre che se fosse andato via uno di loro due anche l'altro l'avrebbe subito raggiunto. Ed era anche stato rivoltato il principio espresso da molti filosofi e psichiatri nel corso di tutto il '900 secondo il quale: chi sopravvive alla persona amata alla fine reagisce, si adegua, si abitua alla sua assenza; intimamente è anche contento di essergli sopravvissuto, perché l'attaccamento alla vita contrasta adeguatamente la sua paura della morte. Chi sopravvisse, in quel caso, non fu contento di esserlo, ma preferì morire subito dopo, non sopportando il dolore immane che si era abbattuto su di lui, dopo la scomparsa della compagna. Il dolore disumano era stato più grande dell'egoismo umano. Ora la casa vuota 'n'fugniu iu rivu aspetta altre persone, altri abitanti che la ripopolino. Non vede l'ora di poter raccontare altre storie."

martedì 3 giugno 2014

Le more di gelso.


C'è un vecchio gelso fronzuto proprio sotto casa mia.
I sui frutti grassi arrivano prima dell'estate quasi all'improvviso; senza dire niente, e veloci come il fulmine.
E se ne vanno ancora più velocemente di come sono venuti.
Quasi non hai il tempo di coglierli e assaporarli. 
Neri, grossi, succosi,ti tingono le dita maturi al punto giusto. 
Ma marciscono veloci e cadono per terra, se non li prendi al tempo giusto.
Non hai fatto in tempo a gustarli, li cogli delicatamente dal picciolo bianco-verde, li porti alla bocca, uno dopo l'altro, come le ciliege.
Te ne rimane solo il gusto agrodolce sulla lingua e un ricordo lungo, struggente - solo dolce - con una voglia lunga nella testa e nel cuore.