sabato 28 febbraio 2015

Un brano dalle PASSEGGIATE nella MEMORIA...

Metto qui un brano dal mio ultimo libro di racconti paesologici:

PASSEGGIATE NELLA MEMORIA PROFONDA DI UN RAGAZZO DI PAESE.



Il libro è il quarto di una ipotetica "Quadrilogia di Coreno" dopo LE STAGIONI DELLA LATTAIA; STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI; CRONACHE DAL PICCOLO BORGO DELLA PIETRA MILLENARIA.


   





  Mio padre, che amava la caccia, ha sempre avuto un cane che lo accompagnasse nelle sue battute. Ricordo che un giorno, io ero poco più che un bambino, arrivò a casa con un bracchetto delizioso tra le braccia. Era tutto marrone, con le orecchie grandi penzoloni marroni, il corpo ciotto e le zampette lucide e marroni. Solo la punta della coda era bianca. Che bello, che bello. Facemmo tutti, stringendoci intorno a lui per toccarlo e accarezzarlo. Non c'è niente di più amabile dei cuccioli, di qualsiasi animale. Io da bambino li adoravo. Leggevo apposta una rivista per bambini che si chiamava "Il Giornalino". C'erano quasi solo cuccioli. Di cani, di gatti, di scoiattoli. Di tuti gli animali domestici e selvatici. Tutti bellissimi e adorabilissimi. Tanto la coda ai bracchi va sempre tagliata e da cuccioli, molto prima che diventino adulti. Disse mio padre con una punta di malvagità. Noi, presi dai festeggiamenti, non ce n'eravamo nemmeno accorti ma, al seguito di mio padre, era entrato in casa un suo amico, un signore che si chiama Franco C. . Armato di una piccola ascia. Arguimmo subito che l'operazione di cui mio padre parlava doveva avvenire lì e in quel momento. Cominciammo a fare baccano per impaurire il cucciolo. E l'idea fu buona perché il cucciolo scappò davvero. Solo che invece d'imboccare la porta sulle scale e mettersi in salvo, corse nella stanza da letto dei miei. Per mio padre, chiudere la porta, intrappolarlo in un angolo e catturarlo, fu un gioco da ragazzi. Lui e Franco portarono il cucciolo in soffitta. Si chiusero a chiave la porta alle spalle impedendoci di seguirli. Legarono stretto stretto uno spago sulla coda, a quattro o cinque centimetri dalla base e procedettero all'amputazione. Sentimmo solo il colpo sordo dell'ascia sul ceppo di legno che mio padre aveva già pronto. E il lungo guaito di dolore del piccolo cane. Quando rientrarono in casa, ai nostri occhi ci apparivano come due boia medievali, senza cappuccio e in abiti moderni. Li odiammo a morte, per quel gesto che ritenevamo violento e disumano.  Mio padre riportò il bracchetto nel bagno, dove lo ripose in una cesta di vimini che aveva preparato a terra. Ripose in mozzicone di coda recisa in una busta di plastica e buttò tutto nella spazzatura. La povera bestiola, col moncherino di coda fasciato, ancora tremava per la paura e guaiva per il dolore. Sembrava che piangesse. Franco tentò ancora una volta di spiegarci che il loro non era stato un gesto gratuito, ma che i cacciatori amano i cani, come e, forse, più di noi bambini. Il povero Franco abbozzò anche una spiegazione pseudo-scientifica, che però non convinse nessuno. Ai bracchi dev'essere tagliata la coda per impedire che si feriscano quando attraversano i rovi per recuperare la preda. Cominciammo ad accettare e a capire la cosa, quando il bracchetto smise di soffrire e cominciò ad abituarsi all'assenza della coda. Quando la ferita fu rimarginata la coda sembrava essere stata sempre corta. Dopo qualche tempo anche il bracchetto mostrò di aver dimenticato quanto era accaduto quel giorno in soffitta. Dopo di quello, papà ebbe altri cani, ma tutti di una razza diversa. Erano setter, con una coda lunga e pelosa. Ai setter la coda non va tagliata. Mi piace pensare che forse scelse quella razza per evitare che noi soffrissimo ancora inutilmente.

domenica 15 febbraio 2015

Zì Pashcaglinu e la cerqua.

metto qui un estratto dal mio libro: Passeggiate nella memoria profonda di un ragazzo di paese.



"...Ma, prima che a tutti gli altri, Zì Pashcaglinu aveva pensato ai suoi maiali, badando a piantare una quercia. Un giorno era andato in montagna, dove diceva che c'erano le querce migliori. Il paese è pieno di querce, e tutte sembrano migliori: in pratica a me non pare che ci sia alcuna differenza tra quelle della campagna, della collina e della montagna. Lui, comunque, era andato da solo. Aveva cercato una bella quercia fronzuta, non tanto piccola, ma nemmeno troppo grande. Insomma, che potesse essere sradicata abbastanza agevolmente. Aveva girato per un po’ per i boschi, con uno sguardo assai attento e guardando bene in aria. Quando fu convinto di aver trovato l'alberello che faceva per il suo orto, con molta attenzione, per lasciare una buona quantità di radici vitali, l'aveva sradicata dal terreno con le sue mani, piegando il fusto, in avanti e indietro; facendolo girare; spingendolo e tirandolo. La scena che immagino, doveva essere più o meno come quella, molto famosa e drammatica, di cui fu protagonista il signor Tore, quando nel film di Ingmar Bergman La fontana della vergine sradica una giovane betulla.




Quando la ebbe spiantata da terra, se l'era caricata sulle sue spalle forti, bilanciando bene il fusto e la chioma, e l'aveva trasportata fino a casa. A passo svelto e senza fermarsi mai. Una volta arrivato a casa, l'aveva messa in una piccola botte che aveva preparato per bene, solo per quel lavoro. L'aveva riempita di terra e di concime naturale. Appena prima di partire aveva fatto un buco, grosso e profondo, al centro. Gli bastò appoggiare la piccola quercia al terreno e coprire per bene le radici. Qualche colpetto con le mani e un’innaffiata leggera, perché non marcisse, avrebbero finito il suo lavoro certosino. Dopo, avrebbe solo dovuto incrociare le dita e aspettare pazientemente che l’alberello attecchisse. Qualche mese era passato. E, solo quando fu certo che le radici si erano abbarbicate per bene alla terra, l'aveva estratto dalla mezza botte e l'aveva ripiantato nel terreno del suo orto. La quercia, fin da subito, dalla prima stagione aveva cominciato a dare frutti. Ghiande preziose con le quali zio Pasqualino alimentava i suoi maiali. Diceva a tutti che i suoi erano i migliori maiali del paese. Le migliori carni e il miglior lardo da sugna, provenivano dai suoi maiali. In realtà tutti i maiali del paese, le carni e il grasso da sugna erano migliori: tutti i maiali del paese venivano alimentati con ghiande di querce locali e con la classica broda che le donne preparavano aggiungendo semplicemente acqua calda al secchio dei pochi avanzi della cucina che avevano messo da parte dopo ogni pasto. Poi, uno via l'altro aveva piantato gli altri alberelli da frutto. Ma, quelli non li aveva sradicati in montagna. Era andato a comprarli. Una parte alla fiera boaria che dopo la guerra organizzavano in paese, nella valle di Luigi De Siena; un'altra parte alla fiera della Madonna del Piano, dove due volte l'anno si recava. Una volta d'inverno, il giorno di Santo Stefano, e una volta d'estate, a Ferragosto. Un po’ per acquistare quello che gli serviva per i suoi campi: attrezzi, semi, piantine; un po’ per devozione alla madonna. O, almeno, così diceva lui. Mio nonno alla religiosità di Zì Pashcaglinu e’ tuppu non credeva affatto e nemmeno alle sue svariate devozioni. Scherzando, ma nemmeno tanto, diceva sempre che se, per sua sventura, lo avesse incontrato in paradiso, dove era certo che sarebbe andato dopo la sua morte, fra cent'anni, lo avrebbe dovuto scaraventare di nuovo sulla terra. Sebbene non andasse mai in chiesa, mentre zio Pasqualino ci andava; sebbene non fosse praticante, mentre zio Pasqualino lo era, e stava sempre con il rosario in mano, sosteneva che era certamente meglio lui, come credente. E sosteneva pure che la sua non era altro che pura ipocrisia. E comunque, che, una volta in paradiso, non ci sarebbe stato posto sufficiente per entrambi. Il Padreterno, insomma, avrebbe dovuto preferire il suo ateismo alla religiosità falsa del coetaneo..."

lunedì 9 febbraio 2015

La Casa della Paesologia trova ...casa a Trevico (AV).

La Casa della Paesologia trova ...casa a Trevico (AV)

A pochi giorni dalla sua fondazione, sono già 150 gli iscritti alla Casa della Paesologia.

Presto anche Salvatore M. Ruggiero (scrittore) si iscriverà alla Casa della Paesologia
Per il momento non faccio certo mancare il mio personale contributo alla diffusione della Paesologia e della Casa della Paesologia.



giovedì 5 febbraio 2015

I professionisti dei funerali



Metto qui un brano tratto dal mio libro:

CRONACHE DAL PICCOLO BORGO 
DELLA PIETRA MILLENARIA 



s'intitola: 

I professionisti dei funerali


Al mio paese ci sono ...quelli che saltano da un funerale all'altro. 
Col sorriso sulle labbra. Gridano, piagnucolano, strepitano, ma poi ridono spesso. 
Si vede chiaro che non gliene frega niente del morto, né di chi rimane. 
Ma sono sempre i primi a prendere in mano l'aspersorio per l'acqua santa che il prete gli porge. 
Benedicono la bara, mentre in mente a loro pensano: "Meglio a te, che a me!" 
Stanno con un piede dentro e uno fuori la chiesa; pronti ad arraffarti sotto al naso la corona dei fiori da portare al cimitero, in corteo, davanti al feretro motorizzato. 
Lentamente, ineffabilmente, stancamente. 
Si scelgono anche quella coi fiori preferiti: chi prende le gerbere bianche; chi le calle; chi i garofani; pochi prendono i crisantemi. Portano male! 
Quando hanno notizia che è morto tal de tali, anche se in vita ci avevano scambiate si o no, in tutto, tre parole, si precipitano davanti al catafalco, la salma ancora è calda, a cibarsi del dolore - quello vero - l'unico: quello della vedova o della madre affranta. 
Si leccano avidamente quelle poche o tante lacrime che sgorgano dal dolore ancora non rimarginato; ferita quella, ancora aperta e viva. 
Poi vanno a casa e aspettano il prossimo morto e il prossimo funerale. 
Quasi con impazienza. 
Finché non toccherà a loro. 
Perché una cosa è certa, e loro fingono di non saperlo: prima o poi tocca a tutti.

smr

martedì 3 febbraio 2015

VIVERE E MORIRE IN PAESE

Metto qui un brano tratto da un mio libro:

STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI


In questo brano che, ammetto è un po lungo, si parla di morti e di funerali. Perciò chi non gradisse l'argomento può astenersi dal leggerlo. Chi, invece, volesse leggere qualche considerazione che, magari, condivide, sulla morte e sui funerali, ma non ha mai scritto (magari solo per mancanza di tempo), prosegua pure la lettura. La troverà interessante. Almeno lo spero. 
"In un paese piccolo, piccolo come il mio, che non fa nemmeno 1700 abitanti, ogni anno muore almeno l'un per cento della popolazione: 15/17 persone, se va bene, cioè se ne muoiono pochi. Perché, se va male, nel senso che quell'anno ne moriranno molti, allora possono morire anche il doppio: cioè una buona trentina. Vivere in un paese piccolo come il mio è come vivere in tempo di guerra, come vivere durante la guerra, anzi in una guerra che si sta ancora combattendo, che si combatte ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Una guerra lunga e interminabile che, ogni quindici giorni, o quasi, annuncia un suo caduto; aggiorna il conteggio dei suoi morti; conta i suoi caduti totali. Se vivi in un paese piccolo, non sei affatto un cittadino sereno che fa una vita serena, tranquilla, come molti pensano che sia la vita in paese e come, alla fine, meriteresti pure di fare, avendo scelto di vivere in paese piccolo, brutto e dimenticato da Dio e dagli altri uomini. In una città è tutto diverso, penso; ma è diverso specialmente il rapporto con la morte, ne sono certo. Quello che stava seduto al tuo fianco quella mattina in metropolitana e con cui hai scambiato due chiacchiere sul tempo, è morto una settimana dopo, o lo stesso giorno, ma tu non lo sai e non lo verrai mai a sapere; non lo conoscevi e, quando è sceso, eri già pronto a non vederlo più, a non incontrarlo mai più. E non lo vedi più, nemmeno se resta in vita. Quindi è come se fosse morto. E se pure lo dovessi rivedere non lo riconosceresti ed è come se lo avessi visto per la prima volta. Quello che stava davanti a te in fila al supermercato, a cui hai tamponato il carrello, nemmeno lo conoscevi, magari uscendo è stato investito da un'auto o ha avuto un infarto o s'è buttato sotto un treno in corsa, ma tu non lo conoscevi e non lo sai che è morto. E non t'interessa di saperlo. Non ti informi. In un paese piccolo potrebbe non interessarti chi vive e chi muore, nemmeno se non frequentavi il defunto, ma invece ti interessa, deve interessarti per forza, non dipendesse dal semplice fatto che in modo o in un altro vieni a sapere che uno è morto e che fanno i funerali in piazza, e il paese è la piazza; quindi sai che è morto qualcuno, sai chi è morto e sai che lo conoscevi, per forza. La tua vita in paese, quindi pare tranquilla, ma non lo è. E' piena di preoccupazione: chi sarà il prossimo? Toccati! Potresti essere tu. La tua vita in paese assomiglia a quella di un soldato. Ricordate il soldato di Ungaretti? "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie." Ecco in paese si sta così, si vive così. Se, invece che in una città, vivi in paese piccolo, sei come una foglia sul ramo, e non solo d'autunno; sei come un soldato, per tutto l'anno. Anzi sei come un soldato appostato in trincea per tutto l'anno e ogni tanto ti arriva la notizia che è morto qualcuno: Giuseppe, e poi che è morto pure Paolo, e poi anche Carlo e qualche giorno dopo se n'è andato anche Lucio e che l'altra settimana, quel brutto male s'era portato Tommaso e che prima di loro, dall'inizio dell'anno, s'era portati Alessandro, Antonietta, Filippo e Maria e Luigia e .... Tutta gente che conoscevi: amici, conoscenti, parenti, affini, coetanei, vicini di casa, vecchi compagni di scuola o di giochi, insomma i tuoi compaesani ...i tuoi commilitoni. Poi dopo che ti hanno detto: lo sai chi è morto? E' morto Tizio; hai realizzato chi era; ti sei ricordato il suo volto; e ti ricordi pure che l'hai incontrato due giorni prima e magari ci avevi pure parlato, devi convincerti che non lo rivedrai più, mai più. Da quel momento in poi puoi solo sperare d'incontrarlo in Paradiso. Intanto, però, vai a far visita a casa, saluti i parenti, li baci li abbracci e gli stringi la mano, torni a casa; ti vai a preparare per andare al rito funebre e per accompagnarlo al cimitero, il giorno dopo. Se ti era amico lo fai con partecipazione e convinzione e commozione; se non era un amico, ma un semplice conoscente, ci vai lo stesso sennò non ti vedono e può sembrare un'offesa; se, peggio ancora, ti stava sul cazzo, vale la regola del parce sepulto: al funerale devi partecipare lo stesso; metti da parte le incomprensioni e le liti pregresse, le antipatie, e le quintalate di screzi e, in nome della carità cristiana che si deve almeno ai defunti, vai al cimitero, magari facendo anche una faccia triste, contrita, il più possibile adatta all'occasione ferale di cui non ti importa niente. Quel gesto penoso di accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio ormai pare sia rimasto l'unico momento in cui, nei piccoli paesi, si esalta ancora un senso di umana partecipazione alla comunità, un sentimento d'amore, di compassione e di mutualità verso il tuo prossimo evangelico, che tra i vivi e i vivi non esiste più; si sostanzia ormai solo nei rapporti tra i vivi e i... morti. E si, perché la vita nei piccoli paesi non è più quella di prima. E non sto parlando di secoli fa. Sto parlando di soli trenta, quarant'anni fa. Non bisogna andare molto indietro per capire che quella vita non esiste più e con essa non esistono più certi valori, certi sentimenti, certe necessità, certi usi e abitudini che la rendevano peculiare, piacevole, o almeno più sopportabile e, comunque, migliore di quella attuale. Quarant'anni fa la morte di un vecchio era peggio della morte di un bambino, di un giovane o una persona di mezza età: la morte di un vecchio era una vera tragedia comunitaria; era la fine di una lunga storia di vita; era come veder abbattuta una vecchia quercia o un ulivo secolare; era come veder crollare un monumento antico o un palazzo nobiliare per un terremoto disastroso; come vedere distrutto un pezzo d'arte prezioso o un'insostituibile porzione della società. Perché i vecchi erano tenuti in altissima considerazione: per l'aiuto che avrebbero potuto ancora dare in consigli, per i loro ricordi, per la memoria dei fatti, delle storie antiche, dei posti, delle persone. E non solo dalla loro famiglia, ma dall'intera società. Oggi quando muore un vecchio sembra che ci siamo tolti un problema, un peso, un impiccio, un dente cariato. E, per giunta, non avremo più badanti per casa che parlano lingue strane: altro sollievo! "Tanto era vecchio!" si dice e di lui, ne la famiglia ne la società, rimpiangeranno niente. Nemmeno la pensione, intascata intera dalla ingombrante e indiscreta badante rumena. Oggi in paese non muoiono più tanti piccoli. Prima ne morivano di più: ed erano tragedie strazianti, che segavano le ginocchia alla comunità. Il morale dei paesani si risollevava a fatica solo dopo molte settimane. Nel cimitero del mio paese c'è una sezione dedicata alle bare bianche. Sono anni, forse decenni, che non muore più un bambino. Per fortuna. La medicina ha fatto enormi progressi. Le malattie infantili non sono più mortali (da noi) e possono essere diagnosticate precocemente, alcune tra le più gravi anche prima della nascita. La vita si è allungata, e i bambini, che sono sfuggiti alla morte precoce, diventeranno adolescenti, poi giovani, poi adulti e forse vecchi. E quando saranno diventati grandi e avranno messo su famiglia si ammaleranno e moriranno più tardi, magari di cancro, di cuore o di diabete, ma potranno almeno dire di essere venuti al mondo e di aver vissuto qualche decennio. A pensarci bene una persona che vive fino a 80 anni, che può essere considerata una bella età ma non certo un'età veneranda, ha vissuto solo 960 mesi, circa 28.800 giorni, più o meno 700.000 ore. A pensarci bene mica poi così tanto! Ma, sapete una cosa? Vivere e morire in paese, non è poi così diverso che vivere e morire in qualsiasi altro posto del mondo."













lunedì 2 febbraio 2015

In memoria di Cardillo Domenico, detto Mimmo.

In memoria di Cardillo Domenico, detto Mimmo metto qui un piccolo ricordo personale; un piccolo ma accorato brano estratto dal mio libro:

PASSEGGIATE NELLA MEMORIA PROFONDA DI UN RAGAZZO DI PAESE.

Mi ero ricordato di averlo scritto e ne parlavo appunto, durante le ultime vacanze di Natale, con la sorella Angela, una domenica pomeriggio, quando mi diede un passaggio a casa con la sua macchina. Stava andando a casa sua a trovarlo e la fine non era lontana. Mi ha ringraziato per la citazione, ha sorriso e alla fine della conversazione una lacrima le è scappata lungo la guancia, mentre continuava a sorridere....


"...Sono sempre stato un tipo pacifico e non mi sono mai battuto con nessuno dei miei compagni di gioco. L'unico piccolo problema l'avevo avuto, ma solo quella volta, con Mimmo. Fu per una questione di biglie o di figurine. Eravamo in piazza, dove ci riunivamo sempre, di fronte al bar del padre, nei pressi della fontana tonda, dove parcheggiava la corriera. Litigammo, all’inizio solo a parole, poi ci spingemmo ed io, alla fine, lo chiamai figlio di puttana. Lui, che stava di fronte a me, rispose colpendomi con un sonoro schiaffo. Incassai, senza replicare, per evitare la rissa e feci anche tesoro della lezione che m’impartì. Ero stato davvero uno stupido. Avevo dimenticato un particolare che non dovevo trascurare. La madre di Mimmo era morta. Lo aveva lasciato quando lui era ancora piccolo. E' il trauma peggiore per un bambino; se ne esce difficilmente, specialmente a quell'età. Lui, infatti, non era uscito. Non ne uscì mai."

Ciao Mimmo, sit tibi terra levis. 
Non so esattamente quanti avessi ma non erano... Nè tanti, né pochi. E, comunque non troppi più dei miei. 
Ma, tanto, lo so... ci hai solo preceduto.

domenica 1 febbraio 2015

Quando i paesi erano una grande famiglia.

 Metto qui un brano estratto dal mio libro:
 CRONACHE DAL PICCOLO BORGO DELLA PIETRA MILLENARIA

Quando i paesi erano una grande famiglia.
Tra le tante, almeno due sono le condizioni sufficienti che si richiedono a un paese per continuare a funzionare - non dico bene, ma almeno decentemente - e, quindi, per sopravvivere: la Mutualità e la Cooperazione tra i paesani. Non sono ammesse eccezioni, né condizioni, specie se il paese è piccolo. Piccolo come il mio. Anzi, più il paese è piccolo, più la mobilitazione dev'essere generale; allora tutti devono contribuire: socialmente, economicamente, culturalmente. Tutti devono fare la loro parte. E anche di più. Altrimenti il sistema non funziona. E, il sistema non può funzionare altrimenti. Anticamente il paese era come una grande famiglia, pronta a fare fronte comune alle avversità e a combattere, paesani uniti tutti assieme, qualsiasi forma di invasione, qualsiasi forma di minaccia alla sua sussistenza, alla sua prosecuzione. Che fossero: la povertà, la miseria, i briganti, le angherie e i soprusi dei potenti, le guerre, le carestie, gli eventi atmosferici catastrofici, le epidemie o i terremoti disastrosi. Non importava. C'era mobilitazione generale perfino per il crollo di una macera che doveva essere tirata su in breve tempo: "gliu varu s'è spallathu!" Era il grido d'allarme che si levava tra i monti. O per un grosso animale caduto in un dirupo e da recuperare, vivo o morto. O, ancora per un covone di fieno stagionato andato improvvisamente a fuoco: allora si urlava e si portava acqua nei secchi: "gliu metale s'è appicciathu"!". Come dice pure il poeta Quirino, in una sua poesia paesologica: tutti accorrevano, come ad assistere un morto sul suo catafalco. Tutti accorrevano; tutti correvano in aiuto. Lui che per lavoro "aisa gli vari spallathi" o costruisce nuove "macere", il più classico, il più preistorico e il più nobile dei lavori paesologici, per ironia della sorte, cent'anni fa sarebbe stato disoccupato; oppure avrebbe avuto tanto lavoro, ma non retribuito, oppure retribuito malamente, magari solo da un parco pasto a fine giornata. Si faceva Pasqua per una zuppa di fagioli. Per non parlare, poi, dell'uso di tenere la chiave nella toppa, anche di notte: non c'era nessun rischio, non si correva nessun pericolo di essere derubati dai ladri: il poco che si aveva era considerato bene comunitario, era nel possesso del singolo, ma nella disponibilità comune; chi avrebbe potuto o voluto depredarlo? I sistemi-paese hanno funzionato, anche in periodi nei quali le condizioni economiche, sociali e culturali erano molto meno favorevoli e fiorenti di quelle attuali (crisi a parte), perché tra i cittadini c'era un patto non scritto di comportamento; una specie di regola non vergata, di consuetudine antica, di uso ancestrale, secondo il quale, in caso di necessità (che, poi, era la condizione abituale, quotidiana) ci si doveva aiutare vicendevolmente e cooperare per il benessere collettivo, per il bene della intera comunità, della comunità intera, nessuno escluso. specie i più deboli e disperati. Il bene supremo, da tutelare e da rispettare. Magari, anche mettendo da parte l'interesse personale. Il Bene Comune, insomma, non era solamente uno slogan elettorale. Tutti avevano aderito a questa condizione. Tutti avevano aderito ed erano fedeli a questo patto. Se non fosse stato così gli artigiani, gli operai, i commercianti, i (pochi) professionisti, non avrebbero potuto rendere floride le loro attività, tirare su le loro famiglie, contribuire economicamente alla crescita dell'intera comunità. Oggi, tranne rare eccezioni tra vicini, la Mutualità e la Cooperazione non sopravvivono quasi più, e il paese sta morendo. E nessuno si stringe più al suo capezzale. Nessuno più sta al capezzale del morto: nessuno più sa nemmeno chi è il morto da piangere. Anzi, nessuno sembra addirittura accorgersi che qualcuno è moribondo o morto. Ci sarà' pure un motivo se all'inizio del secolo scorso la popolazione era di 2500 abitanti e dopo un secolo. Oggi li vedi, tronfi e impettiti e sazi, mentre si aggirano per il loro paese che puzza di morte, i paesani. Sembra che tutti siano autosufficienti; tutti si bastano; tutti possono fare a meno di tutti gli altri. Ma, qualcuno ci aveva avvertiti: la solidarietà, la fratellanza e la modestia sono le ragione di vita dei deboli; la solitudine, l'ignoranza e la supponenza sono le debolezze dei forti. Oggi c'è in giro troppa gente che confonde la modernità col progresso, la furbizia con l'intelligenza, il ritorno alla terra col ritorno alla clava, il potere con l'esercizio della cosa pubblica, l'apparire con l'essere, gli strumenti con il fine, et alia. Ma L'intelligenza e cosa diversa dalla furbizia. L'intelligenza è vivida; la furbizia è ...livida!

FOTOGRAFIE PAESOLOGICHE




Presento agli amici il mio primo album fotografico.

Si tratta di una selezione minima ma rappresentativa delle tantissime fotografie "paesologiche" scattate dall'autore nel corso delle sue innumerevoli spedizioni nei paesi più belli della provincia di Frosinone e di Latina, alla scoperta di curiosità, usi, costumi, architetture, vestigia, antichità e bellezze nascoste.
Corredate dalle didascalie originali scritte dall'autore.