sabato 30 giugno 2012

Appunti sparsi dopo la visione del film di Ingmar Bergman: Nara Livet (Alle soglie della vita, 1958)


Appunti sparsi dopo la visione del film di Ingmar Bergman:
“Alle soglie della vita” (Nara livet, 1958).




Stina (Eva Dahlbeck):

"Io sono il simbolo della vita che continua. Desidero tanto questo bambino. Impazzirò se non si sbriga a crescere."


Sinossi:

Ricoverata dopo un aborto, Cecilia (Ingrid Thulin) conosce due partorienti, Stina ( Eva Dahlbeck) e Hjordis (Bibi Anderson).
La prima è una donna felice che attende con ansia il suo primogenito, la seconda invece è una ragazza madre che si sente abbandonata da tutti.
Nella notte Stina perderà il figlio e Hjordis si riappacificherà con la famiglia.


Finalmente, nell'autunno del 1957, per Ingmar Bergman arrivò il momento di dedicarsi alla ...nascita della vita.
Sebbene c'è da dire che, contrariamente a quanto troppo frettolosamente si è indotti a pensare, in Bergman vita e morte non sono mai momenti così radicalmente distinti e il momento della nascita non può essere considerato mai troppo lontano dal momento del trapasso.
Concetto splendidamente e drammaticamente ripreso all'interno del film.

“Alle soglie della vita” (Nara Livet) è, nella filmografia di Bergman, un film trascurato, dal pubblico e dalla critica, probabilmente oltre i suoi (pochi) demeriti, per l'unica colpa di essere giunto immediatamente dopo “Il settimo sigillo” (Det sjunde inseglet, 1956)  e “Il posto delle fragole” (Smulltronstallet, 1957) e prima de “La fontana della vergine” (1958) e “Il volto” (1958).
Stretto quindi in una morsa mortale d'interesse creata da capolavori leggendari, immortali e multipremiati.
Tuttavia, come più volte sottolineato, secondo l'autore di questa recensione non esiste nella filmografia di Bergman una sezione di film cd. “minori”, ma tutti i 50 film del Maestro (anche quelli meno reputati) hanno un loro ampio e singolare respiro, un loro profondo significato, un loro valore unico e irripetibile.

L'interesse per il tema della nascita della vita giunse a Bergman dalla lettura di alcuni racconti di Ulla Isakson (“La zia della morte”): egli ritenne che almeno un paio di essi avrebbero costituito un ottimo materiale per un film e su quel soggetto e con la collaborazione dell'autrice costruì una sceneggiatura ….”fluida, rapida e molto divertente”.

Come disse lo stesso autore, “Alle soglie della vita” è ...”la storia ben raccontata di tre donne in una stanza d'ospedale. Dove la stanza non è altro che un comodo reparto di ostetricia.”

Ingrid Thulin, tra le gestanti, perderà il bambino al terzo mese di gravidanza, con grande dispendio di sangue di ...vitello.

Oltre ad Ingrid Thulin, il personale attoriale bergmaniano è quasi al gran completo.
Ci sono, infatti, Eva Dahlbeck, Bibi Anderson, Max von Sydow, Erland Josephson ed Inga Landgrè.
Con i maschietti nervosi e spaesati ridotti quasi al ruolo di semplici comparse.
Ma, nonostante, l'interpretazione di tutte le attrici fosse eccezionale e tale da nobilitare il suo intero lavoro, Bergman ipercritico refertava nel suo libro-diario Immagini che:
“Il trucco era eccessivo; la parrucca di Eva era enorme; la fotografia (di Max Vilèn) a tratti misera; certi toni troppo letterari.”

Si sa che Bergman non amasse molto vedere i suoi lavori.
Vide questo suo film solo tre volte.
All'epoca delle riprese nell'autunno del '57.
Nella sua saletta cinematografica privata di Faro, dopo quasi 50 anni.
E, tra le due visioni, dopo un'intervista registrata, rilasciata a Lasse Bergstrom; riascoltandola si accorse che non aveva mai nominato il film, come se ne fosse dimenticato. E questo particolare motivo lo indusse a rivederlo.
Durante le riprese del film imperversava l'influenza asiatica. La troupe, in buona parte contagiata, lavorava con la febbre a 40° e con la mascherina di garza sulla bocca.

Molto spesso la troupe, per alleggerire l'animo e allentare l'eccessiva tensione, si trasferiva dietro le quinte dove erano custoditi i tubi del gas esilarante, che aveva un effetto simile a quello della droga ma di minore durata.

SMR

sabato 23 giugno 2012

Recensione del libro "Tre Diari" di Ingmar Bergman e Maria von Rosen.



Il libro-diario è molto bello, sebbene scritto con uno stile che risente delle tre "mani" diverse dei tre autori e non somigli affatto agli altri libri di cui Bergman è stato pure ottimo autore.
Qui lo stile, infatti, è volutamente più asciutto, quasi telegrafico, arido nella forma, niente affatto nei contenuti.
Mi risulta difficile fare una vera recensione letteraria dei "Tre diari", posso solo consigliare caldamente di leggerlo e con molta attenzione: da quelle righe fitte fitte escono, se le si sanno cavare, molte notizie estremamente utili alla conoscenza della biografia, dei rapporti familiari e interpersonali, dei sentimenti contrastanti, della carriera artistica, della psicologia del Maestro di Uppsala, della sua vita e delle scissioni più intime.
Pertanto mi limito a dire alcune cose, a fare alcune annotazioni, a raccontare alcune sensazioni che ho ricevuto da una prima famelica lettura (cui seguirà sicuramente un altra e un'altra ancora), mi paiono assai pertinenti e interessanti:
la prima è che pur muovendosi Bergman in territori e temi largamente, ma solo teoricamente, trattati nei suoi numerosi film:
la morte; l'aldilà; il trascendente; la fine drammatica della vita umana; il dolore fisico dell'uomo storico; etc. egli appaia inesorabilmente inadeguato a gestire praticamente l'emergenza pratica quotidiana;
la seconda è che sicuramente in una tale drammatica emergenza pratica quotidiana l'amore non basta, anzi, appaia quasi un ostacolo, alla sana gestione della malattia. Ci sarebbe bisogno, forse, di vera compassione e/ di maggiore altruismo, ma evidentemente anche un Genio può difettare di tali qualità;
la terza è che il vano tentativo di instaurare una routine quotidiana si scontra con la enormità, la gravità, la eccezionalità, la insesorabilità della malattia mortale;
la quarta è che sebbene le parole dei tre narratori significhino bene l'avvicinamento al "supremo momento" il "mistero" della vita e della morte non sarà mai svelato e nemmeno avvicinato.

SMR

giovedì 21 giugno 2012

Appunti di paesologia: Le Stagioni della lattaia (estratto dalla presentazione dell'Autore)

Presentazione dell'autore

Vivo in un paese brutto. Brutto perché maltenuto, perché cresciuto disordinatamente - senza armonia; brutto perché disseminato di case senza facciata; brutto perché zeppo di stabili fatiscenti coi muri crepati.
E’ un vero peccato! Perché di sicuro non è stato sempre così. Un difetto di senso estetico, poco meno che generale, l’ha reso brutto; il disinteresse, l’egoismo e la sciatteria, di chi lo ha amministrato per anni, e della sua gente, hanno fatto il resto.
Io penso che alla sua nascita - mille anni fa - fosse molto diverso da com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore. E, a suo modo, doveva pure essere bello.
Posso immaginare com’era - senza sforzo.
Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono con gli artigli ficcati negli schienali del sofà. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali.
Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale.
Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta.
Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro.
Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio, diventano grigie.
D’accordo, quel paese era povero. Ma non lo nascondeva. Era essenziale e dimesso. Ma almeno aveva un bel colpo d’occhio omogeneo. Costituiva uno scenario prezioso, da preservare per la sua tipicità. E’ un vero peccato che sia stato rovinato, devastato dopo.
E’ successo tutto negli ultimi quarant’anni.
E ci fosse stata almeno una buona ragione per mandarlo in malora; ci fosse stato almeno qualcosa da predare, qualcosa di cui arricchirsi dallo scempio. Sarebbe stato uno dei tanti sacchi scellerati, come ce ne sono stati molti nel secolo appena trascorso. Come, purtroppo, ce ne saranno tanti altri in questo nuovo secolo. Tutti causati dall’ignoranza, dalla negligenza, dall’incuria, dalla ottusità degli uomini. Prima che partisse la corsa allo sfruttamento industriale della pietra calcarea locale, l’unica vera risorsa era la terra: da coltivare, fertile e generosa, o sassosa e avara.
Allora i terreni da coltivare si spietravano a mano, sasso dopo sasso. E si coltivavano per sopravvivere.
Allora le uniche prosperità degli uomini erano gli animali e i figli. Poi è arrivata qualche lira ed ha guastato tutto. Ha rotto equilibri antichi, tenuti in piedi per secoli solo dalla miseria e dalla fame.
Ora, che una quantità insensata di cemento è stata versata a sproposito, brutalmente - come una bestemmia urlata in faccia ad un povero cristo - su tutto il paese, anche nel cuore del vecchio centro storico, prendendo il posto delle stradine e delle piazzette lastricate a pietra e dei muri a secco centenari, le case - se va bene - hanno gli esterni di quarzo plastico e gl’infissi d’alluminio anodizzato - perfino alcune di quelle costruite non proprio di recente.
E i tetti? Alcuni saranno pure nuovi e fatti a regola d’arte, ma sono tutti coperti con tegole correnti - e poi sono tutti diseguali.
Ora, che il danno è stato fatto - e, per conto mio, è irrimediabile - non basta rivestire la piazza centrale con lastroni di marmo buciardato a macchina, per il capriccio di farne il salotto buono.
E’ un’idea velleitaria. E passerà alla storia come l’estremo ma vano tentativo di salvarne l’aspetto arcaico; di conservarne l’essenza originaria, impiantando sul nuovo un elemento fintamente antico.

SMR



mercoledì 20 giugno 2012

Esercizi di paesologia: SORA (Fr).



Stamattina sono stato a Sora.
In piena Ciociaria o Alta Terra di Lavoro.
La città è famosa nel mondo anche per aver dato i natali a Vittorio De Sica.
Io praticamente non ho incontrato traccia di alcun vanto, tranne l'interessante videoteca dedicata al famoso attore e regista. Peraltro a quell'ora era chiusa.
 Sono lontanissimo dal fare turismo criminologico ma non posso fare a meno di notare che lungo la strada in leggera salita che sto precorrendo per raggiungere Sora, prima di arrivare al bivio di Arpino e dopo aver superato il bivio per Anitrella e Monte San Giovanni Campano, s'incontra il posto dove fu rinvenuto il cadavere di  Serena Mollicone, la ragazza assassinata barbaramente e di cui non si conosce ancora il nome dell'omicida. 
Qualche mano pietosa, a distanza di tanti anni, ha posto, ai piedi di un palo una foto della ragazza sorridente e porta ancora qualche fiore fresco in ricordo.
Oggi il caldo era davvero soffocante e non mi ha permesso le mie solite passeggiate curiose nel centro storico, tranne una velocissima capatina nella assolatissima Piazza Santa Restituta, dove vale la pena di visitare l'omonima, splendida cattedrale Romanica.
La città, molto attiva nel settore commercio e nell'artigianato, è posta sull'alto corso del fiume Liri, anche se sembra più bassa dei suoi 300 m.s.l.m.
Nel 1915 Sora fu gravemente danneggiata da un violento terremoto. 
Ma nell'architettura storica del centro resta ancora traccia massiccia ed evidente di alcuni bei palazzetti signorili che risalgono all'800.
Attraversata dal Fiume Liri, Sora è la conferma evidente di una mia vecchia ma radicata e, soprattutto provata, convinzione: le città che hanno un fiume nel loro centro storico sono più belle di quelle che non ce l'hanno. 
Infatti anche un fiume non troppo grande come il Liri presuppone necessariamente un bel lungofiume, e quello di Sora è molto bello e anche qualche bel ponte di attraversamento.
Da visitare, nel centro della cittadina, anche il Museo Civico.
Insomma, Sora val bene un'incursione turistica, magari non d'estate.





SMR

martedì 19 giugno 2012

Appunti sparsi dopo la visione del film: Monica e il desiderio.




A voler essere sintetici il film Monica e il desiderio, uno dei più noti di Ingmar Bergman
(anche per via del grande scandalo che seguì alla sua uscita), non certo uno dei più grandi, elabora:
...”la storia di una ragazza che seduce un uomo, fuggono, trascorrono insieme l'estate al limite della legalità e, giunto l'inverno, tornano in città, hanno dei problemi e si lasciano”.
(da Conversazione con Ingmar Bergman di Olivier Assayas e Stig Bjorkman).

I motivi per cui il film fece rumore, ebbe successo, sebbene a molti mesi dalla sua uscita, e resta una pietra miliare nel cinema di Ingmar Bergman sono sotanzialmente tre:
  1. Costituì il lanciò definitivo di una giovane attrice, appena diciannovenne, bellissima e sfrontata: Harriet Andersson, peraltro sconsigliata caldamente al Maestro da un anziano regista che aveva lavorato in precedenza con lei. Quando Bergman gli chiese se avesse potuto attribuirle la parte di Monica, quello rispose sarcastico: “Non credo. Se lo fa, sarà a suo rischio e pericolo”.
  2. Fu pesantemente mutilato dalla forbice della censura che pensò bene di eliminare alcune scene erotiche che avevano per protagonista la bellezza fisica e travolgente della Andersson.
  3. Da esso scaturisce una curiosa quanto proficua querelle di giudizi critici da parte di alcuni noti esponenti della Nuovelle vague francese, il più noto dei quali fu il critico dei Cahiers du cinema e regista a sua volta, Jean Luc Godard.

Sinossi

Monica e Harry, due giovani, in cerca di vita e d'amore, si conoscono in uno squallido caffè.
Decidono di fuggire e di girare il mondo vivendo alla giornata.
Si sotengono mangiando funghi selvatici colti nel bosco, frutta rubata dai frutteti e, perfino, (Monica) un trancio di arrosto sottratto al buffet di una villa.
Trascorrono le lunghe giornate estive facendo l'amore, oziando, parlando e bagnandosi in mare.
Monica lascia a briglie sciolte tutta la sua femminilità, fisicità, bellezza, voglia di vivere e di divertirsi.
Fino a quando non confessa ad Harry di essere in cinta.
Alla fine dell'estate tornano in città con l'intento di regolarizzare il loro rapporto.
Invece dopo un litigio violento nel quale Harry accusa Monica di adulterio (che lei non nega, confessando, anzi, di amare ancora una sua fiamma: Lelle) si lasciano.
Il film finisce con un flash-back nel quale Harry rivede i felici momenti estivi passati assiema a Monica.
E un motoscafo che lentamente si allontana sull'acqua.


Recensione

Non c'è dubbio che il film viva e si regga quasi esclusivamente sulla presenza in scena (pressochè ininterrotta) e sulla intensa performance interpretativa di Harriet Andersson.

Secondo Olivier Assayas, che raccolse in un libro la sua “Conversazione con Ingmar Bergman”, quella di Harriet Andersson in “Monica e il desiderio” è una delle più grandi performance d'attrice alle quali lo spettattore abbia mai assistito.

Ingmar Bergman aggiunse:
...Lei ha una storia d'amore con la macchina da presa. La macchina da presa la stimola e lei se ne sente estremamente stimolata. Una relazione molto strana....

Non c'è alcun dubbio che la sua recitazione originale, sfrontata, scandalosa, disibinita, da attrice consumata abbia lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema mondiale.

Sempre Olivier Assayas, scrive:
"Uno degli elementi straordinari del film è Harriet Andersson. Sicuramente una delle più grandi attrici mai esistite”.

La replica secca di Bergman: “E' vero”.

Lo stesso Bergman (che, per qualche periodo, era stato legato sentimentalmente all'attrice) afferma:
"...Se lei la vede in “Monica e il desiderio” e poi in “Sussurri e grida”... io credo che lei...insomma...che lei sia una delle più grandi attrici del mondo”.

E ancora Bergman, indugiando, stavolta, sulle indubbie qualità fisiche ed estetiche dell'attrice:
"Harriet era molto bella. Aveva diciannove anni. Abbiamo fatto il film. Quello è stato un periodo bellissimo”.

Ma non finisce quì.
Il Maestro spinge ben oltre la sua agiografia di Harriet Andersson.
Scrive, infatti, nel suo libro autobiagrafico Immagini:
"Harriet Andersson è uno dei geni della cinematografia. Se ne incontrano soltanto alcuni rari esemplari durante il cammino tortuoso attraverso la giungla di questo mestiere. Ecco un esempio. L'estate è finita. Harry non è in casa e Monica esce con Lelle. Al caffè lui fa suonare il juke-box. Nel fracasso dello swing la cinepresa si volta verso Harriet. Lei sposta lo sguardo dal suo partner direttamente sull'obiettivo. Così veniva stabilito, all'improvviso e per la prima volta nella storia del cinema, un impudico contato diretto con lo spettatore”.

E si giunge, così, al famosissimo sguardo in macchina di cui tanto si è parlato e scritto.
Il film, tuttavia, non fu accolto molto bene.
Almeno dalla critica.
Ebbe invece un discreto successo di pubblico.
Fu recensito in modo molto discordante dai critici dell'epoca.
Specie da quelli italiani, che non furono troppo clementi col regista svedese.

Giacinto Ciaccio lo liquidò scrivendo:
Un dramma insieme bislacco, discutibile e commovente”.

Mario Verdone lo definì: "Un film minore” niente di più che “un solo, efficace, studio di donna”.

Alfonso Moscato, ritenne eccessivo ....” il parallelismo tra la natura e l'animo della ragazza”.

L'accoglienza tiepida che ebbe in Italia, per fortuna non fu la stessa che ebbe in altri paesi.
E fu bilanciata, ad esempio, da quella ricevuta in Francia, specie dal regista-scrittore-critico Jean Luc Godard che, dopo una retrospettiva organizzata dalla Cineteca Francese, lo riabilitò, sostenendo su i “Cahiers du cinema” che, in quel film più di ogni altro, Ingmar Bergman si era imposto come il “cineasta dell'istante”
Aggiungendo enfatico nella sua entusiastica recensione:
"Ognuno dei suoi film nasce da una riflessione dei protagonisti sul presente, approfondisce tale riflessione attraverso una sorta di frantumazione della durata, un po alla maniera di Proust, ma con maggiore forza, come se Proust fosse stato moltiplicato da Joyce e Russeau insieme, e infine diventa una gigantesca e smisurata meditazione a partire da un'istantanea. Un film di Bergman è per così dire un 24° di secondo che si trasforma, si dilata per un'ora e mezza.
E' il mondo fra due battiti di palpebre, la tristezza fra due battiti di cuore, la gioia di vivere tra due battiti di ali”
Lo stesso Godard fu affascinato dalla sequenza in cui Harriet Andersson fissa ostinatamente la macchina da presa, 5 anni prima di Gelsomina (Giulietta Masina) in La strada:
Bisogna aver visto Monica almeno per gli straordinari momenti in cui Harriet Andersson, prima di riandare a letto con un tale che aveva piantato (Lelle, ndr), guarda fisso la macchina da presa con i suoi occhi ridenti pieni di smarrimento, prendendo lo spettatore a testimone del disprezzo che essa prova nei suoi confronti per il fatto di scegliere involontariamente l'inferno contro il cielo”.
E la definì: “l'inquadratura più triste di tutta la storia del cinema”.


Curiosità

Il film, ad alto contenuto erotico, creò non pochi problemi ad Ingmar Bergman, non solo negli altri paesi, ma addirittura per la distribuzione nell'avanzata e disinibita Svezia.
Anche nella versione originale svedese infatti fu tagliata l'inquadratura di Monica che si accarezza il seno voluttuosamente.
E, nonostante il film, uscito nel 1953, fosse stato distribuito nel resto d'Europa con qualche anno di ritardo e in Italia, addirittura, nel 1961, fu censurato pesantemente.
In particolarre la forbice della censura colpì:
    a) la scena del momento in cui Monica fugge completamente nuda verso il mare sotto gli occhi di Harry;
    b) l'inquadratura di Monica stesa a seno nudo sul motoscafo;
    c) la scena nella quale Harry la prende con la forza strappandole i
    vestiti di dosso.

Conclusioni


"Non ho mai fatto un film meno complicato di Monica e il desiderio. Tiravamo semplicemente avanti e si girava. Ci rallegravamo della nostra libertà. Il successo di pubblico fu considerevole”.
(Ingmar Bergman, dal suo libro autobiagrafico: Immagini)

Ed in chiusura di questa mia nota voglio anche aggiungere una considerazione personale sull'infelice titolo attribuito al film dalla distribuzione italiana.
Forse questo bel film del Maestro avrebbe meritato un titolo, in italiano, meno ...equivoco (come lapidariamente lo definì anche il critico Sergio Trasatti), più adatto a un film pornografico scandinavo girato in super8, che ad un film da comprendersi nella filmografia del regista più grande di sempre
Sarebbe bastato, probabilmente, tradurre anche troppo banalmente il bel titolo in svedese Sommaren med Monica nel più semplice ma più eloquente (in italiano): Un'estate con Monica.

P.S. Ma in fondo devo essere grato ai distributori italiani dell'epoca, anzi ringraziarli perchè col loro svarione hanno permesso che io potessi sfruttare quel bel titolo per il mio quarto libro (il terzo ispirato all'opera cinematografica di Ingmar Bergman).
Un saggio seguito da un racconto breve che si chiamerà appunto: Un'estate con Monika.


SMR

lunedì 18 giugno 2012

APPUNTI SPARSI DOPO LA VISIONE DEL FILM: IL SILENZIO.



"Il silenzio originariamente si chiamava Timoka. Avvenne per pura combinazione. Vidi la parola su un libro estone, senza sapere cosa significasse. pensavo che fosse un bel nome per una città straniera. La parola significa: appartenente al boia”.
(Ingmar Bergman, dal suo libro-diario Immagini)

SINOSSI
In uno scompartimento ferroviario viaggiano, di ritorno in patria, dopo un viaggio di villeggiatura all'estero, due sorelle: Ester ed Anna, e il figlio di questa (ovviamente nipote della prima).
Il caldo è soffocante e procura un malore ad Anna, già gravemente malata.
Si rende urgente la discesa dal treno alla prima stazione e una sosta in un albergo della città di Timoka, dove si parla una lingua incomprensibile, anche per Anna che è una traduttrice.
Lasciata Ester ed il figlio in albergo, Anna si reca in un locale dove in un angolo vede due persone che fanno sesso pubblicamente e in modo disibinito.
Ne è eccitata e si offre al barista.
Quando il figlio di Anna, Johan rivela ad Ester che ha visto la madre baciarsi col cameriere, Ester ha un crollo.
Anna decide di proseguire il viaggio, abbandonando la sorella alla malattia e, forse, alla morte.
Nelle mani di Johan appare una lettera della zia nella quale c'è scritto: “Per Johan”.
E il bambino vi legge la parola sconosciuta: “Hadjek”.
Che vuol dire anima, parola ricorrente nella filmografia di Bergman.

Terzo film della cd. “Trilogia religiosa” (o “di Dio”, o “del silenzio di Dio”).
Dopo “Come in uno specchio” e “Luci d'inverno”.
Lo stesso Ingmar Bergman, che era solito suggerire l'analisi singolare dei suoi film, sembrò invece, accomunare questi tre nella classificazione che segue.
"Questi film trattano di una riduzione:
  1. Come in uno specchio: (rappresenta, ndr) una certezza conquistata;
  2. Luci d'inverno: (rapppresenta, ndr) una certezza messa a nudo;
  3. Il silenzio (che doveva chiamarsi “il silenzio di Dio”, ma il titolo fu considerato dallo stesso autore: ...“impossibile per un film”): (rappresenta, ndr) la copia in negativo. Perciò (i tre film, ndr) formano una trilogia”.

    Il Maestro si smenti alcuni anni dopo. Disse che l'idea della Trilogia era una "Schnapps-idee" ..."come dicono i Bavaresi". Aggiungendo in Conversazione con Inmgar Bergman di O.Assayas e Stig Bjorkman che quella era solo ....un'invenzione per compiacere certi giornalisti.


    Molteplici, come sempre quando ci si appresta ad analizzare un'opera del Maestro, gli spunti di riflessione offerti dal film.
Esso si presta, come al solito, trattandosi di un'opera tra le più complesse di Bergman, a diverse chiavi di lettura.
Quella che io personalmente prediligo è la chiave autobiografica.
Bergman, come accade spesso con (quasi tutte) le sue opere si appresta ad una vera seduta di auto-psico-analisi.
Le due protagoniste del film Anna ed Ester (interpretate rispettivamente da Gunnel Lindblom ed Ingrid Thulin) incarnano due diversi tipi di donna; due caratteri contrapposti che potrebbero essere contenuti in un'unica figura femminile.
Anna è la donna sensuale, corporale, fisica.
Ester è la donna lucida mentalmente ed intellettualmente, che domina i suoi istinti, ma è malata, sofferente, cagionevole.
I caratteri contrapposti delle due donne, sembrano confluire nella personalità del regista.
A loro volta incarnano il femminino del maestro: lucido ma sofferente; psicologicamente vivo ma fisicamente provato; intollerante dell'autorità ma eticamente saldo.

E, come al solito, trattandosi di un'opera di Bergman, il film fu accolto all'epoca della prima uscita da pareri alternanti e critiche contrastanti.
Chi gridò fin da subito al capolavoro, apprezzando ed elogiando lo stile potente, rigido, austero, rigoroso del racconto.
Chi gridò allo scandalo, per via di alcune scene molto audaci per gli standard dell'epoca.
Ed in effetti il film incontrò seri problemi sulla stada dell'ottenimento dei visti della commissione censura.
Chi lo accolse con delusione.
Perchè si aspettava che Bergman avesse fornito un passo avanti nella ricerca di Dio ma, invece, dovette ricredersi.
Avevo solo fornito un passo avanti nella incomunicabilità umana.
Chi lo stroncò additandone degli “eccessi espressivi” e stigmatizzandone gli “urli espressionisti”.
Come li definì, aperttamente, Mario Verdone.

In realtà Bergman sembra affermare, attraverso i dialoghi del film che chi si allontana da Dio, chi abbandona la fede, chi perde i suoi valori spirituali si abbandona al vizio, al peccato e all'egoismo.
Ma non si può certo affermare che faccia, né tantomeno che voglia farlo lungo, un discorso su Dio.
In effetti, Dio è citato, direttamente o indirettamente, solo tre volte.
  1. Quando Ester ricorda con un monologo la morte del padre. “Ora è l'eternità” le disse l'uomo guardandola negli occhi.
  2. Nella preghiera di Ester: “Mio Dio fate che arrivi a casa prima di morire”.
  3. Con la parola Hadjek (anima) che il bambino Johan legge sull'appunto datogli dalla zia Ester, prima che lui e la madre ripartano.
Ma che significa Timoka, cosa rappresenta?
Timoka è la metafora del Mondo.
Il suo mistero e la sua incomprensibilità.
E' la proiezione fisica di un posto popolato da una umanità avvilita, che non può o non vole comunicare, ed è avviato all'isolamento e alla guerra, come unica soluzione delle controversie.
Di qui i nemmeno tanto allusi riferimenti agli strumenti bellici.Di qui anche l'uso di una lingua incomprensibile.
Che prelude alla negazione del rapporto dialogico.
E, che, paradossalmente, non può essere capita nemmeno dalla donna, Anna, che professionalmente fa l'interprete.
E così ci troviamo davanti al solito, ricorrente paradosso di Bergman della professionalità irrisa e derisa.
Altro esempio, dopo quello, ben più esplicirto, riscontrato ne “Il volto”.Dove il dottor Vergerus (interpretato da Erland Josephson) viene irriso e deriso dal Mago Emanuel Vogler (interpretato da max von Sidow).

L'dea di una città misteriosa e sconosciuta, dove si parla una lingua incomprensibile deriva a Bergman da una raccolta di racconti dello scrittore Sigfried Siwertz, letti da bambino.
Si chiamava “Il circolo” del 1097; mentre il racconto ispiratore si titolava “La tenebrosa dea della vittoria”.
Ma anche Stoccolma, vista da Bergman con occhi da bambino contiene molti spunti curiosi sui quali si fonda l'immagine e la costruzione della città di Timoka.
Lo stesso Maestro racconta nel suo libro-diario Immagini quando da bambino passeggiava nel quartiere di Birger-Jarl, dove si aprivano sulla strada tanti curiosi negozietti nelle cui vetrine si divertiva a cogliere espliciti o nascosti riferimenti erotici: protesi; busti; pompette uterine e stampati vagamente pornografici.

Nel silenzio io e Sven (Nyquist, direttore della fotografia, ndr) avevamo deciso di essere spudoratamente impudichi. Là c'era una lussuria cinematografica che ricordo con gioia. Era semplicemente divertente, in modo pazzesco, fare Il silenzio. Inoltre le attrici erano dotate, disciplinate e quasi sempre di buon umore. Che il silenzio, in certo qual senso, sia diventato la loro disgrazia, questa è un'altra storia. Il film fece sì che i loro nomi divenissero internazionalmente noti. E l'estero, come al solito, si degnò di fraintendere la peculiarità del loro talento".
(I.Bergman dal suo libro-diario Immagini)

Curiosità
1) Lo stile dell'immagine in Il silenzio, in Come in uno specchio e in Luci d'inverno è austero, per non dire casto.
I movimenti di macchina pochi, corti, essenziali.
Tipici di un certo stile di cinema da camera bergmaniano.
Un agente di distribuzione americano un giorno domandò al Maestro, con voce disperata:
"Ingmar, why don't you move your camera anymore?

2) Un commento autentico del regista sul suo film a distanza di qualche tempo:
"Quando oggi rivedo Il silenzio, devo ammettere che in qualche parte risente di una certa letterarietà ... Per il resto non ho alcuna recriminazione da fare” (I. Bergman).

SMR

sabato 16 giugno 2012

Appunti sparsi dopo la visione del film : LA FONTANA DELLA VERGINE.




"Ma tu vedi, Dio! Tu vedi, vedi la morte di un innocente, vedi la mia vendetta e non l'hai impedito.
Io non ti capisco! Eppure adesso chiedo il tuo perdono. Non conosco altro mezzo per conciliarmi con queste mie mani, non conosco altro modo per vivere. Ti faccio voto, o Signore, qui, in penitenza del mio peccato, di edificare una chiesa con queste mie mani”.
(Tore - interpretato da Max von Sidow - dopo aver ammazzato i tre pastori che hanno violentato e ucciso sua figlia Karin - interpretata da Birgitta Petterson - davanti al suo corpo inanimato).

SINOSSI

Il Signore Tore ha due figlie.
Karin è bionda, bella e buona, zelante coi genitori coi servi e con gli estranei: e, forse, proprio questa sua qualità le costerà la vita.
Ingeri, in stato di gravidanza dopo una violenza sessuale, è buia, ombrosa e invidiosa di Karin, che detesta.
Quando Karin viene inviata a portare ceri alla Madonna che risiede nella sua chiesa di appartenenza, come solo una vergine può fare, Ingeri fa scivolare un rospo nel pane che servirà per la sua colazione.
Lungo il tragitto Karin, che ha litigato con la sorella e se ne è allontanata, proseguendo da sola, è fermata da alcuni pastori (in realtà sono dei malfattori) e si attarda a parlare con loro.
Innocente ed altruista, offre di condividere il suo pasto.
Proprio mentre prendono il pane per cibarsene, il rospo depositatovi da Ingeri salta fuori dalla pagnotta.
Questo fatto improvviso irrita non poco ed insieme eccita gli uomini.
Essi aggrediscono la ragazza, prima la stuprano a turno, poi la uccidono senza motivo con una bastonata sulla testa.
La spogliano della sua preziosa veste e lasciano il suo corpo esanime e nudo a terra.
Più tardi, quando sono, incosapevolmente, ospiti della casa padronale del Signore Tore, essi offrono di comprare la veste di Karin, sporca di sangue, proprio a sua madre.
La donna, ineffabile e razionale, li rinchiude per evitare che scappino e avverte il marito.
Dopo un elaborato rituale pagano di abluzione purificante, Tore uccide i pastori e, con essi, anche l'incolpevole bambino che li accompagna.
(Sembra, quasi, di assistere alla scena della drammatica vendetta di Ulisse contro i Proci, con la quale si chiude l'Odissea di Omero).
Poi si reca alla ricerca del cadavere della figlia e, giunto sul punto esatto in cui la sua Karin giace morta, giura di costruire una chiesa nello stesso posto.
Come per miracolo, in risposta divina al suo gesto, dal posto sgorga improvvisamente una polla d'acqua.

21° film di Bergman, certamente uno dei suoi migliori.
Il primo (il solo?) in cui l'intervento di Dio nell'azione è concreto: il divino si materializza con un miracolo.
Le scene, molto realistiche, dello stupro e della vendetta, all'epoca, furono censurate.
Splendido, come sempre, il bianco e nero di Sven Nykvist, direttore della fotografia.
Oscar nel 1960 per il miglior Film Straniero.

Ambientato in un livido medioevo, che lo accomuna a “Il settimo sigillo”
- riferimento più immediato nella filmografia di Bergman - ma dal quale subito si distanzia, perchè in esso la violenza è un fatto privato, mentre in quello era generale e generalizzata.
E anche perchè non ci si occupa, né ci si preoccupa, delle grandi problematiche (o piaghe) dell'umanità, ma dei piccoli-grandi drammi (fatti) privati.
In quello poi, Antonius Block (sempre interpretato da Max von Sidow) cerca spasmodicamente Dio; nel successivo si invoca Odino, il dio pagano, e si prega il Dio dei cristiani, contemporaneamente ma in un'altra parte della casa.
In questo ci si sottopone ad un rituale catartico pagano e si manda una vergine a portare i ceri alla Madonna che sta nella chiesa cristiana di appartenenza.
Insomma ne “La fontana della vergine” ci si trova nel bel mezzo di una continua tensione tra tradizione dell'antico e ventata della nuova religione; tra misticismo e pragmatismo; tra religione e paganesimo.
Nel film, poi, si da molto più peso alle immagini che non alle parole, ai dialoghi: come se Bergman volesse indurre lo spettatore, già durante la visione, ad una più diretta ed immediata meditazione.

Mi assumo la piena responsabilità del problema religioso che ho creato ne “Il settimo sigillo”. 
Una vera pietà romantica resa in una luce speciale. Anche, con “La fontana della vergine”, la mia motivazione è stata estremamente mistica. Ma, il concetto di Dio che aveva iniziato, in me, molto tempo prima la sua ...bancarotta, è rimasto, nel film, poco più che un'accessorio. La cosa che mi interessava veramente era raccontare drammaticamente la storia orribile della ragazza e dei suoi stupratori, e la vendetta successiva di Tore. Il mio conflitto (in corso) con la religione era sulla via della sua completa definizione".

Il soggetto, tratto da una ballata, elaborata a sua volta da una leggenda medievale svedese (Tores dotter i Wänge), vede la firma eccellente di Ulla Isakson, una importante scrittrice svedese, nata a Stoccolma nel 1916 e morta nel 2000.
Autrice di romanzi, racconti e sceneggiature nei quali i temi principali sono le problematiche del sesso femminile, l'amore e i rapporti dell'individuo col divino.
Ella fu legata a doppio filo alla filmografia di Bergman da ben tre importanti collaborazioni:
“Alle soglie della vita” (1958); La fontana della vergine” (1959); “Il segno” (1982).

"Tore Dotter i Wange" ("figlia di Tore in Vange"), è la ballata medioevale svedese su cui il soggetto e, quindi, la sceneggiatura del film di Ingmar Bergman sono stati tratti.
Esiste davvero la chiesa edificata da Tore in memoria della figlia Karin assassinata dopo essere stata stuprata.
La posizione geografica di “The Vange” è nel Malmskogen in Östergötland, nel sud-ovest della Svezia.
Nel 19° secolo, Erik Gustaf Geijer, storico, scrittore e compositore svedese vissuto a cavallo tra il 18° e il 19° secolo, ha osservato che le persone nella zona circostante, ancora riferiscono numerose leggende sui tragici eventi tradotti dalla ballata.
Un manoscritto del 1673 dichiara addirittura l'esistenza della pozza di Vange (Vange Brunn), che apparve miracolosamente nel punto in cui la giovane vergine, protagonista della drammatica storia, fu uccisa.
Infine, si crede ancora che, nella foresta che sta nelle vicinanze, avvengano ogni sera intorno alla mezzanotte, le apparizioni del fantasma di Karin, la giovane vittima.

Molto interessante, per la esatta comprensione del messaggio cinematografico (una specie di interpretazione autentica) quello che lo stesso Bergman dice a proposito del suo lavoro:
"Un film che è stato uno dei miei lavori più oscuri: “La fontana della vergine”. Devo ammettere che contiene un paio di passaggi ad immediata accelerazione e di forte vitalità. L'idea di fare qualcosa al di fuori dalla vecchia folk-song 'Herr Tore di Venge's Daughters' era un forte richiamo per me. Così volli fare un “noir” medievale tratto da una brutale ballata in forma di semplice canzone folk. Ma parlandone con l'autrice del soggetto, Ulla Isaksson, ho cominciato a psicologizzare. Il primo errore è stato la volontà di introdurre un concetto “terapeutico”: la promessa solenne di costruire una chiesa con la quale espiare il tremendo peccato derivante dall'assassinio dei pastori. Artisticamente si è trattato di un escamotage assai poco interessante. Poi, l'introduzione di un concetto totalmente analizzante di Dio. La miscela di rappresentazione reale e di violenza, che ha una certa potenza artistica, ma è anche un ottimo esempio di come le migliori intenzioni possano far ottenere risultati del tutto contrastanti con le proprie motivazioni, e di come si possa trasformare un lavoro proprio nel momento in cui esso si sta sviluppando".

E, aggiunge il Maestro:
La fontana della vergine è un film turistico; una imitazione scadente di Kurosawa. A quel tempo la mia ammirazione per il cinema giapponese era al suo culmine. Ero quasi un samurai io stesso!" (Ingmar Bergman, nel suo libro: “Bergman su Bergman”)

E, infine, una breve ma interessante testimonianza sul film di Max von Sidow, contenuta in “Oggi Sidow”:
"Mi ricordo che c'era un accento fortemente intenzionale su un rapporto molto stretto tra il padre e la figlia, nel quale alla madre non era davvero permesso di entrare. Ella, tenuta fuori da quel rapporto, ne soffriva e nutriva anche una certa gelosia. La sequenza tra il racconto dello stupro e la macellazione dei rapinatori, serve quasi come un esempio da manuale di tecnica cinematografica di Ingmar Bergman, nella sua costruzione; nel montare della tensione scena dopo scena; nella quasi totale assenza di dialogo tra tutti i protagonisti”.

Come si diceva in precedenza “La fontana della vergine”, tra tutti i film di Bergman, è forse l'unico in cui, direttamente, si manifesta la presenza di Dio.
Anche se la teofania è mediata ed avviene attraverso un espediente didascalico e, tutto sommato, un po ingenuo.
Ed è anche quello in cui più accurata è la depurazione dai molteplici simbolismi cari al regista.
Ed è anche quello in cui più che in altri appare evidente la commistione tra paganesimo e cristianesimo; tra sacro e profano; tra religione e laicità; tra aspetto del profondo rispetto divino ed atteggiamento profondamente laico.
In Tore si riscontrano tutte queste caratteristiche.
Sulle larghe spalle di Tore il Maestro getta il suo pesante fardello.
Quando si prepara alla vendetta, tipico metodo medievale per ottenere giustizia privatamente; quando si sottopone ad un rituale pagano di abluzione che lo prepari al sacrificio dei rei; quando promette a Dio, rivolgendosi direttamente a lui, di edificare una chiesa sul posto esatto del sacrificio della figlia Karin.
Ma il film è percorso, anzi permeato, da una costante, continua, tensione religiosa, che si avverte, palesemente, in alcuni momenti, in alcune scene.
Una fra tutte, ad esempio, quando un frate-contadino si rivolge al più piccolo dei tre fratelli pastori:
"Vedi come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto: come avesse paura dell'ignoto. Eppure, se si librasse nell'aria, troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa: e così se ne sta qui, nascosto, tremolante e inquieto. Con gli uomini capita lo stesso: essi vagano inquieti come tante foglie al vento, per quel che sanno e per quello che non sanno”.

Infine, due curiosità:
1) la fonte dalla quale sgorga acqua pura e purificatrice, tornerà nei successivi film di Bergman, ad esempio nelle scene finali de “Il silenzio”;
2) il film d'esordio del regista dell'horror statunitense Wes Craven "L'ultima casa a sinistra" (1972) fu praticamente un remake del ben più noto film di Bergman, ed alla sceneggiatura collaborò, non a caso, Ulla Isakson.


Per quanto un giorno inizi lieto, finisce malamente prima del tramonto”.


SMR

venerdì 15 giugno 2012

Appunti sparsi dopo la visione del film LA VERGOGNA (Skammen - 1968))

La guerra e i suoi orrori visti dal Maestro  Ingmar Bergman.

“Quando rivedo LA VERGOGNA, trovo che è spezzato in due parti. La prima metà, dedicata alla guerra, è brutta. L'altra, sugli effetti della guerra, è bella. La prima metà è assai peggiore di quanto immaginassi, ma l'altra è migliore rispetto a come la ricordavo.”
E, in effetti ...”la parte migliore del film inizia quando la guerra finisce ed iniziano i dolori.”
(I.Bergman, dal suo libro-diario: “Immagini”)

Sinossi

Eva e Jan Rosenberg (interpretati da una sensazionale Liv Ullmann e da un Max von Sidow in stato di grazia), sono una coppia di artisti, musicisti, per l'esattezza.
Suonano entrambi il violino.
Non hanno figli.
Ma sognano di averne in futuro (specie lei).
Anzi, progettanno di avere un figlio, senza sapere, naturalmente, che da lì a poco la guerra arriverà anche sul loro eremo.
Si sono da tempo ritirati su un'isola deserta, dove sopravvivono coltivando verdure e ortaggi.
Senza lussi né confort ma, almeno, in piena tranquillità.
Nel mondo infuria la guerra.
Eva e Jan si troveranno presto alle prese, prima con il manifestarsi del conflitto sotto i loro occhi - morte, distruzione, assenza di senso - poi con le sue spiacevoli conseguenze.
La coppia sarà costretta ad attraversare esperienze terribili e umilianti ad opera, ora dell'uno ora dell'altro esercito.
Infatti poco dopo la loro vita verrà sconvolta dagli eventi bellici.
Il corpo di un paracadutista – già morto – atterra improvvisamente sull'isola, dove arriveranno altri militari che, sospettando i due di essere gli uccisori del loro sodale, li arrestano con l'accusa di collaborazionismo.
Il colonnello Jacobi, vecchio spasimante di Eva, aiuta la coppia in carcere e contemporaneamente insidia la donna, che alla fine cede al serrato corteggiamento del soldato.
Le affida perfino una somma di denaro in custodia.
Jan scopre casualmente i soldi che Jacobi (interpretato da Gunnar Bjornstrand) aveva affidato ad Eva; li sottrae; uccide a sangue freddo il rivale in amore e anche un altro soldato, capitato casualmente sull'isola.
Non ritenendosi più al sicuro, i due decidono di fuggire per mare.
Con i soldi sottratti al colonnello ucciso comprano un passaggio su un barcone in partenza, non si sa per dove.In mare aperto, il natante va alla deriva, in un mare pieno di cadaveri galleggianti.
Nella scena finale i cadeveri scompaiono ed Eva ricorda di aver sognato di avere una figlia.


Recensione

“La vergogna” (Skammen) non è un film di guerra (ovviamente), ma un film sulla guerra; anzi, sugli effetti della guerra sull'uomo e sui rapporti dell'uomo coi suoi simili.
Ed infatti, all'inizio, doveva chiamarsi, semplicemente, “La guerra”.
Ed è anche la risposta indiretta del Maestro al dibattito socio-politico sulla guerra (anche quella all'epoca più attuale: la guerra del Vietnam).
Ed è anche la scelta ufficiale di campo del regista: egli condanna definitivamente la guerra, sposa (ovviamente e definitivamente) un atteggiamento, completamente ed indiscutibilmente, pacifista.
Messo tra l'altro in discussione da un'accusa inaudita, alquanto generica e frettolosa, proveniente da una parte della stampa, di qualunquismo.
Il regista se ne sarebbe reso reo per alcune dichiarazioni espresse proprio nei confronti della guerra del Vietnam.
A tali critiche il Maestro rispose, semplicemente ma fermamente, dicendo di non essere interessato a sapere di chi fosse la responsabilità della guerra in Vietnam, nè di tutti gli altri innumerevoli focolai bellici sparsi per il mondo.
In effetti far uscire un film sulla guerra in pieno 1968 era impresa che poteva passare per la mente, e riuscire, solo all'individualista, solipsista Bergman.
Nonostante le polemiche il suo film e il suo messaggio sono molto più eloquenti e chiari oggi di quanto non debbano essere apparsi alla fine degli anni '60.
In più egli tenne sempre a precisare che si dichiarava, non solo contro la guerra, ma anche contro ogni forma di violenza e di sopraffazione dell'uomo sull'uomo.
E, in effetti, il caso de “La vergogna” non costituisce nemmeno la prima volta che Bergman prende, nei suoi film, posizione nei confronti della guerra.
Il tema della guerra, che era già stato solo accennato dal regista, in altri film precedenti, quì diventa centrale: rappresentato come la violenza contagiosa della Storia, démone senza volto né nome, che scatena la perfidia e la violenza latenti in ogni uomo.
A guardare bene, infatti, la polemica antibellica era già presente in molte sue opere precedenti:
- ne “Il settimo sigillo”, fa sbeffeggiare la guerra (nel caso specifico le Crociate) da Jons il sagace e facondo scudiero; ed anche il Cavaliere Antonius Block mostra di non esserne tanto entusiata;
- in “Persona” (benchè solamente nel Prologo) mostra le immagini dei bonzi che si danno fuoco per protesta contro l'invasione militare del loro paese;
- in “Luci d'inverno” la sua idea anti-bellica era presente come catastrofe annunciata nell'ossessione del contadino, prima impazzito, alfine suicida, per il rischio, giudicato incombente, della bomba atomica cinese;
- ne “Il silenzio” mostrava, quasi come monito di un mondo inquieto e nervoso, carovane di carri armati che percorrono la misteriosa e incomprensibile città di Timoka.

“La vergogna” è anche un film sull'atteggiamento dell'arte, anzi degli artisti, nei confronti della guerra.
L'arte, in questo caso la musica, viene vista come strumento per innalzarsi e per raggiungere il livello più alto, quello delle vette eccelse concesse solo al creatore.

Ma “La vergogna” è anche un film (indirettamente) sulla religione e su Dio (sebbene non si parli mai apertamente di Dio; ma si parli apertamente dell'uomo e delle sue paure e dei suoi problemi e dei suoi sogni).
Anzi, se ci si passa il paradosso, si può dire che è un film del silenzio dell'uomo sulla religione e su Dio, come risposta al silenzio della religione e di Dio sull'uomo.


Conclusioni


“Questo film - dice lo stesso Bergman - tratta di persone che non hanno nessuna fede, nessuna convinzione politica e che non possono proporre niente. Sono degli ingenui. Non cercano di capire qualcosa né di prendere posizione."Semplice in modo quasi disarmante ma magistrale e perfetta ricostruzione di un guerra "normale", che alla fine fa almeno impostare ai sopravvissuti un piccolo passo verso il loro futuro e il futuro del mondo. Il film mostra tutta la "inevitabilità" di un sogno comune.E, ancora una volta, come aveva già fatto in altri film precedenti, Bergman ricorre all'escamotage del sogno, per descrivere lo stato d'animo della protagonista e mandare in circolo un grande messaggio di vita e di speranza:"Ho fatto un sogno. Percorrevo una bellissima strada, da un lato c'erano delle case tutte bianche con arcate, colonne, portici, mentre dall'altro lato c'era un vastissimo parco e sotto gli alberi, lungo tutta la strada, scorreva dell'acqua verde cupo. Sono arrivata a un alto muro: era completamente ricoperto di rose. Poi all'improvviso un aeroplano ha incendiato le rose. Io non avevo alcuna paura. Era tutto così splendido. Stavo lì a guardare nell'acqua e vi vedevo quelle rose bruciare. Io avevo una bambina in braccio, era nostra figlia. Si stringeva contro di me e sentivo che la sua bocca mi sfiorava la guancia e per tutto il tempo sapevo che dovevo ricordare qualcosa che qualcuno aveva detto e che io avevo dimenticato."

Liv Ullmann è superba nell'impegnativo ruolo centrale - che richiese un completo coinvolgimento emotivo, sia col marito (Max von Sydow) che col suo amante (Gunnar Björnstrand).
Max von Sidow, è credibile e addirittura detestabile, sia nel ruolo di assassino di uomini che di potenziale ...assassino di polli. E anche quando sviene, quasi pavidamente.

Il film fornisce anche un grande apologo sulla pericolosità delle armi e sulla loro capacità di trasformare in killer a sangue freddo anche una persona che potenzialmente non sarebbe capace di uccidere con le sue stesse mani nemmeno un mite ed indifeso animale da cortile.
Da antologia la scena nella quale von Sidow non riuscendo ad ammazzare una gallina tenta addirittura di sparare al volatile pennuto.

Uno dei più grandi film di Bergman.
Ma anche uno dei meno conosciuti e meno reputati.Infine, sul significato recondito del film, l'interpretazione autentica, stringata, asciutta ma eloquente, fornita dallo stesso Bergman, qualche anno dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche.
Contenente, fra l'altro, anche un chiaro riferimento “politico” alla Primavera di Praga.

"Il film non è sulla enorme brutalità della guerra, ma solo sulla sua meschinità. E 'esattamente come quello che è successo per i Cechi. Hanno difeso i loro diritti, e ora, lentamente, essi vengono sottoposti a una tattica di abbrutimento che li logora. "La vergogna" non riguarda le bombe. Si tratta di una progressiva infiltrazione di paura ... Ma "La vergogna" non è abbastanza preciso. La mia idea originale era quella di mostrare solo un giorno prima cha la guerra scoppiasse. Ma poi ho scritto altre cose e tutto è andato storto, non so perché. Non ho visto di recente "La vergogna", ed ho un po di paura a farlo. Quando si fa un quadro del genere, devi essere, necessariamente, molto duro con te stesso. E' una questione morale."



mercoledì 13 giugno 2012

APPUNTI SPARSI DOPO LA VISIONE DEL FILM: COME IN UNO SPECCHIO.


Il titolo fu suggerito a Bergman dalla lettura degli Atti degli Apostoli e, più precisamente, della lettura della Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo (XIII, 12):
“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia.
Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.”

SINOSSI

Un tranquillo week-end di umana paura, potremmo definirlo.

Poco più di ventiquattro ore di una breve ...vacanza da incubo dei quattro membri di una benestante famiglia svedese, su un'isoletta ventosa del Mar Baltico.
Potrebbe essere Faro.

PERSONAGGI e INTERPRETI:

la schizofrenica Karin (una stratosferica, Harriet Andersson);

il padre (affermato scrittore, appena rientrato dalla Svizzera) di Karin, David (Gunnar Bjornstrand);

il marito medico di Karin, Martin (Max von Sidow);

il fratello minore studente Fredrik, detto Minus (Lars Passgard).

Peraltro tutti ottimi.

Ritmato dalla Suite n. 2 in re minore per violoncello (E.B. Bengtsson) di J.S. Bach, è un quartetto di figure che inaugura “il cinema da camera” di I. Bergman.

In pratica ricollegando questo singolare esempio, insieme gli altri due successivi, del cinema di Bergman al movimento della cd. Kammerspielfilm, sorto nel 1921 come reazione al primo espressionismo per iniziativa del scenarista Karl Mayer e del regista Lupu-Pick.

Ed apre anche la cd. “trilogia di Dio” o dell'”assenza di Dio” o “religiosa”.
Proseguita, appunto, con “Luci d'inverno” e “Il silenzio”.

Per stessa personale ammissione di Bergman che, aveva sempre invitato a vedere e a giudicare i suoi film singolarmante, si tratta di fatto di una trilogia.
Ed egli stesso, infatti, accomunò i tre i film nella seguente classificazione:
“Questi tre film trattano di una riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata; Luci d'inverno: certezza messa a nudo; Il silenzio (silenzio di Dio) la copia in negativo. Perciò formano una trilogia.”

Salvo poi auto-smentirsi nel suo libro-diario Immagini:

“Queste cose le scrissi nel 1963. Oggi penso che l'idea della trilogia non abbia né capo né coda. Era una “Schnaps-Idee come dicono i bavaresi.”

RECENSIONE


I perni del film, anzi, le pietre angolari sono sostanzialmente e formalmente due.

1) Da una parte c'è Karin, unico personaggio femminile (sappiamo come nei confronti dei suoi personaggi femminili Bergman appare sempre quanto meno comprensivo, se non addirittura indulgente), ma anche personaggio monolitico, enigmatico, difficile da comprendere appieno, profondo e fragile, armato solo del suo corpo e della sua lucida pazzia; alla spasmodica ricerca della guarigione e di Dio (che crede di vedere addirittura in un ragno nero che cerca di possederla);

alla ricerca di un vero rapporto col padre scrittore, freddo e austero, che la fa caso letterario, sfruttando la sua malattia e facendola oggetto dei suoi lavori;

alla ricerca di un rapporto solido e, finalmente, credibile col marito medico, pure dolce ed affettuoso;

alla ricerca di un vero rapporto tra sorella e fratello con Minus, che non sia solo famigliare e familiare, o solo sentimentale, ma sia addirittura fisico, quindi ai limiti dell'incestuoso.


“Harriet Andersson interpreta Karin con perfetta musicalità, entrando ed uscendo liberamente e continuamente dalle sue prescritte realtà. La sua interpreatzione ha toni puri ed è piena di genialità. Fu lei a rendere il prodotto sopoportabile...”

(I.Bergman dal suo libro-diario Immagini)


Dall'altra parte i tre personaggi maschili: come al solito poco trasparenti, poco chiari (o lo sono fin troppo?), poco leali, in una parola poco positivi.Ovviamente, ognuno visto attraverso i suoi problematici rapporti con Karin. Rispettivamente: moglie, figlia, sorella.

A testimonianza ulteriore di una presunta misantropia di Bergman, molte volte invocata da alcuni critici.


I temi trattati da Bergman sono quelli classici della sua filmografia:

la ricerca di Dio; la malattia mentale; l'unità famigliare; il fine dell'arte; il (tentativo di) raggiungimento dell'infinito e della trascendenza; il senso del dolore; la (difficile) gestione dei rapporti interfamigliari e interpersonali.


Ci piace riportare, traendole direttamente dalla sceneggiatura, alcune eloquenti frasi pronunciate dai protagonisti nel corso del film.

1) Il racconto di un sogno della schizofrenica Karin:

“Mi trovo in un ambiente enorme. Tutto è illuminato e tranquillo. Diverse persone vanno avanti e indietro e quando mi rivolgono la parola le capisco. Tutto è splendido e io sono serena. Alcuni volti irradiano attorno una luce quasi abbagliante. Tutti aspettano lui che deve arrivare, ma senza nessuna ansia. E dicono che io devo essere presente quando tutto ciò avverrà... A volte provo un'ansia irrefrenabile, un desiderio violento del momento in cui la porta si aprirà e tutti si volgeranno verso di lui che si fa avanti... Credo che sia Dio, che sia Dio stesso che debba apparirci... Dio scende dalla montagna attraverso il bosco tenebroso mentre intorno le fiere guardano nel silenzio. Dev'essere la realtà. Io non sogno e quello che dico è vero. A volte mi trovo in questo mondo e a volte nell'altro senza che io possa impedirlo.”


2) Karin che si rivolge al fratello Minus:

“Siamo così indifesi a volte. Come bambini che si sono perduti in luoghi deserti. Le civette gridano e fissano con i loro occhi gialli. Senti un fruscio sommesso e un cauto mormorio attorno a te e un ansimare leggero di umidi musi e poi le zanne dei lupi.”


3) Un incubo della schizofrenica Karin:

“Ho avuto paura. La porta si è dischiusa, ma il Dio che è entrato era solo un ragno. Si è avvicinato a me e io l'ho visto in faccia: un viso ripugnante e gelido. Si è lanciato su di me, voleva possedermi ma io mi sono difesa. Vedevo continuamente i suoi occhi così freddi e calmi. Non è riuscito a penetrare in me, così ha strisciato sul mio petto e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio.”


4) Minus che, nel finale del film si rivolge felice e speranzoso alla sorella Karin:

“Papà ha parlato con me!”


I CRITICI SUL FILM


Molto interessante quello che, all'epoca, scrissero sul film due tra i maggiori critici cinematografici italiani.

Guglielmo Biraghi:

“Il grande regista svedese ha ormai nelle sue immagini un tale grado di concentrazione espressiva che non gli è più necessario, per descrivere fenomeni o sensazioni paranormali, ricorrere ogni tanto al surrealismo o all'epressionismo, come per esempio ne Il volto e Il posto delle fragole”

Gian Luigi Rondi:

“Pur essendo spesso vicino al trattato di Teologia e di filosofia rivela un tale senso vivo del cinema e una tale matura sapienza figurativa da lasciare lo spettatore abbacinato:anche se, spesso, intimidito. Con uno stile che qua e là può sembrare indulgente verso taluni risvolti letterari, con immagini nere e grigie alla Dreyer, riesce con pochi essenzilissimi accenni a creare un clima drammatico teso a volte fino al parossismo, sfiorando argomenti anche scabrosissimi (quali, ad esempio, l'incesto) con perfettissima purezza.”


CONCLUSIONI


“È un inventario prima della svendita. ... la mia intenzione era di descrivere un caso di isterismo religioso” (Ingmar Bergman nel suo libro-diario Immagini


Uno dei film più angosciosi e sconvolgenti sulla follia.


Ancora una volta co-artefice del capolavoro bergmaniano Sven Nyquist e la sua meravigliosa fotografia in bianco&nero, ma a ...colori.


Oscar 1962 per il miglior film straniero.


lunedì 11 giugno 2012

Appunti sparsi dopo la visione del film di Ingmar Bergman: PERSONA.


"Credo che Persona sia profondamente legato alla mia attività di Direttore del Dramaten. L'esperienza era una fiamma ossidrica che determinava una specie di rapida maturazione. Essa concretizzava, in modo brutale e ovvio, il mio rapporto con la professione”.
(Ingmar Bergman, a proposito della genesi del film, dal suo libro-diario: “Immagini”).

1 - La genesi.

Così, nei primi mesi del 1965 nasce “Persona”.
Ingmar Bergman aveva 42 anni nel 1962, quando fu nominato direttore del Dramatiska Teatern, il luogo culto del teatro svedese, il luogo che aveva reso famoso il teatro di August Strindberg, e che sarà retto dal Maestro per quasi 50 anni.

Il film è la storia, volutamente scarna ed essenziale, dei rapporti che due donne sono costrette a vivere quando una di loro subisce un attacco di afasia e l'altra le viene affiancata per fornirle assitenza paramedica e compagnia, durante la convalescenza.
Sebbene non si possa parlare propriamente di convalescenza bensì di un periodo di ritiro dalle scene e di riposo, in quanto all'attrice non è stata diagnosticata alcuna malattia e, di conseguenza, alcuna cura per nessuna malattia conclamata.
La prima delle due è un'attrice, affermata e famosa, che nel corso della rappresentazione di un dramma - si tratta della Elettra di Sofocle - viene colpita in scena, sul palcoscenico del teatro dove recita, da uno strano malore: le manca d'improvviso la parola.
Si chiama Elisabeth Vogler ed è interpretata da Liv Ulman.
L'altra è una giovane infermiera venticinquenne che, nella prima scena “regolare” del film, è convocata nello studio della direttrice della clinica che le affida il compito di seguire ed assistere l'attrice "malata".
I ci troviamo, sostanzialmente, davanti a due paradossi: un'attrice afasica e una infernmiera che non deve curare nussun malato.
Nel corso del film, per un momento, si rivoluzionano i rapporti, i ruoli si capovolgono: Alma legge una lettera che avrebbe dovuto solo postare.
E' stata scritta da Elisabeth ed è indirizzata alla direttrice della clinica, in essa l'attrice rivela alla dottoressa che le piace ...studiarla (le piace studiare Alma, ndr).
Ma, in un gioco di identità portato alle estreme conseguenze, le due donne si avvicinano fisicamente, al punto da compenetrarsi, fino quasi a fondersi.
E fino al punto da trarre in inganno non solo lo spettatore ma, addirittura, il marito dell'attrice, che recatosi a trovare la moglie, tenta un approccio con l'infermiera Alma scambiandola per Elisabeth.

Grandissima prova di abilità tecnica da parte del regista e del suo direttore delle luci. Scrive Bergman nel suo libro Immagini:
"Io e Sven Nyquist decidemmo di lasciare la metà del volto nel buio completo ...insomma, non avrebbe dovuto esserci neppure una sfumatura di luce. Questo era inoltre un passo naturale a combinare, proprio nella fase del monologo, i mezzi volti illuminati in modo che si fondessero in un volto unico. La maggior parte delle persone ha, chi più e chi meno un lato migliore del volto. Le immagini dei volti di Liv (Elisabeth Vogler, ndr) e di Bibi (Alma, ndr) illuminati per metà, che poi noi unimmo insieme, dimostrarono il lato peggiore di ciascuna di loro”.

Non si è parlato a caso, in precedenza, di una ...prima scena regolare del film.
Perchè, in effetti, il film si inizia in modo, diciamo così ...irregolare.
Principia, infatti, con un lungo prologo, della durata di 6 minuti.
Che poi verrà riproposto fedelmente a metà del film e ancora una volta alla fine.
Con esso il Maestro intende ammonirci che stiamo per assistere ad una messinscena, ad una illusione, ad una finzione cinematografica, appunto.
Prima dei titoli di testa un flusso di immagini e suoni sconnessi investe lo spettatore: una pellicola; un arco voltaico; il ronzio della proiezione; una luce abbagliante; code; start; fotogrammi isolati; un pene in erezione (che pochi in Italia hanno mai visto, perchè censurato nella versione che circolò nel nostro paese); immagini capovolte.
Mano a mano che la proiezione prosegue, le immagini acquistano significato.
Sembrano, e potrebbero esserlo, tutte immagini prese da spezzoni di altri film già girati dallo stesso Bergman o da altri registi: fotogrammi di una comica di Melies; un orribile ragno; un agnello sacrificale che viene sgozzato; una mano inchiodata alla croce; rumori di passi e di gocce d'acqua; un obitorio con una serie di cadaveri stesi sul marmo; squilli di telefono che provocano l'improvviso, improbabile risveglio del cadavere di una donna; un bambino che si sveglia, si agita, tende una mano davanti a se, accarezza il volto di una donna, si alternano i volti delle due attrici del film: Liv Ulman e di Bibi Anderson.
Finalmente partono i titoli di testa.
E altri rapidi flash si alternano:
il bambino; la madre; un bonzo che si da fuoco; un paesaggio marino.

Fin dalla sua uscita il film fu recepito come altamente sperimentale nelle tecniche cinematografiche che Bergman utilizzò per trasmettere il senso di incomunicabilità tipico della sua poetica.
Sperimentale anche e soprattutto nello studio della luce e della fotografia, diretta magistralmente da Sven Nyquist e sperimentale anche per la tecnica di montaggio, nuovo e, per certi versi, rivoluzionario, a cura di Ulla Righe.
Effettivamente è riscontrabile nell'analisi della cinematografia di Bergman quanto “Persona” rappresenti un'altra nuova soluzione al problema della rappresentazione dei drammi interiori umani e sociali, nel caso specifico una soluzione asettica, fredda, talvolta allucinata e comunque inedita all'interno del panorama artistico del cineasta svedese.

2 – La recensione di Alberto Moravia.

L'opera di Bergman fu recensita anche dallo scrittore romano Alberto Moravia che ne esaltò la profondità interpretativa su vari livelli, individuando e codificando quattro diverse chiavi di lettura:
a) psicologica , riguarderebbe la storia di un rapporto omosessuale non corrisposto, tra una personalità debole che ama (l'infermiera Alma) e una personalità forte che, invece, non ama (l'attrice Elisabeth Vogler);
b) ideologico simbolica, ideata secondo un'ottica specificatamente moraviana, si presta alla rappresentazione di una civiltà occidentale alienata e in crisi di valori e d'identità che, a seconda dell'individuo preso in considerazione, recita una parte insensata oppure, addirittura, recita ....tacendo;
c) filosofica, Moravia si ispira a Kierkegaard (vedi nota dedicata) per quanto riguarda il discorso sul senso di responsabilità etica, sul senso di colpa , sull'angoscia e sulla disperazione ontologiche;
d) sociologica, Bergman, regista di estrazione borghese, analizza impietosamente le conseguenze sociali delle caste e delle classi che si intersecano, attraverso i vari personaggi, senza peraltro ricercarne le cause incidentali.

Moravia non mancò comunque di criticare il film per alcuni aspetti particolari.
Secondo lo scrittore romano, che accusò apertamente Bergman di manierismo, l'accentuata freddezza quasi documentaristica del film derivava dal fatto che tutte le chiavi di lettura coesistono tra loro in maniera chiara e distinta: in tal modo la poesia dai molteplici risvolti che Bergman cerca di trasmettere perde di istintività ed immediatezza ed ambiguità, per divenire pura applicazione di maniera.
Proprio da questa osservazione nasceva la sua idea che il film desse i suoi maggiori risultati nelle rare sequenze non parlate, nelle quali Bergman sembrava restituire un significato misterioso e profondo al dramma interiore dei personaggi.

Oltre alla scenografia anche il cast del film è ridotto all'osso: gli attori sono solo cinque.
La scena è quasi sempre occupata dalle due protagoniste femminili contemporaneamente.
- La giovane infermiera venticinquenne Alma, è interpretata da Bibi Anderson;
- Elisabeth Vogler, l'attrice colpita dalla misteriosa afasia, è interpretata da Liv Ulman;
- la dottoressa che, nelle scene iniziali del film, convoca Alma nel suo studio è interpretata da Margaretha Krook;
- il signor Vogler, marito di Elisabeth, è interpretato da Gunnar Biornstrand;
. il ragazzo del prologo è interpretato da Jorgen Lindstrom (lo stesso bambino che Bergman utilizza ne Il silenzio, nel ruolo del figlio di Anna.

3 - "La più forte” di Strindberg; “Persona” di Bergman.
Analogie tra due drammi borghesi.

Ma, chi ama profondamente e, altrettanto profondamente, conosce il cinema di Ingmar Bergman ed, in modo particolare il suo film: “Persona”, non potrà non scorgere le forti somiglianze con un dramma di Strindberg, datato 1889: “La più forte”.
Si può, addirittura, dire, e molti critici lo hanno fatto apertis verbis, che Il Bergman di “Persona” incontra lo Strindberg de “La più forte”, al "punto da rilevare facilmente come Il film di Bergman (successivo) abbia molti punti in comune con il dramma borghese di Strindberg (precedente).
E si può anche aggiungere che il problema della "incomunicabilità" e del "silenzio" di Strindberg incrocino la loro strada con le corrispettive problematiche elaborate nel cinema di Bergman.
Quando Ingmar Bergman spiegò il soggetto di “Persona”, lo riassunse in questi termini: “E' un film su una persona che parla e su una che non parla, e si confrontano le mani e si mescolano l'una con l'altra”.
Kenne Fant, che era allora Presidente dello Svenska Filminstitutet, con una notevole dose di comicità involontaria, rispose: "...non dovrebbe essere un film molto costoso!".
Il film, in buona sostanza, è la ricerca delle caratteristiche che legano una coppia di donne (protagoniste anche della "piece" strindberghiana), di cui una è silenziosa e la seconda è alla continua ricerca della verità nell'altra.
Persona” è una pellicola, molto sottile e complessa, oltre che su quelli già accennati, anche sul tema dell'identità di genere e sui ruoli che sono assegnati alla donna dalla società.
Non è dertamente una coincidenza che una delle due donne sia un attrice, colta in un eterno attimo di smarrimento proprio mentre interpreta il ruolo di Elettra.
La più forte” è basata su questo semplice principio: una donna parla e una ascolta, o meglio, risponde con espressioni non verbali.
La domanda retorica su quale delle due donne di "Persona" sia la .....più forte è in realtà destinata a restare senza risposta.
Ma si sa bene che Bergman si interroga, si pone delle domande, ma non a tutte le domande da delle risposte; non a tutte risponde.
Non per tutti i quesiti ha o, meglio, da una risposta.
Non a tutti i problemi offre una soluzione.
C'è però qualcosa di più profondo, un sottotesto impalpabile e inafferrabile, una sorta di enciclopedia di poche parole sul significato di genere dell'essere donna.
Quella che la donna silenziosa e la donna preda di una specie di impeto moralizzatore sembrano suggerire sono gli estremi di un pendolo.
Da una parte la rinuncia di sé in favore di un ruolo che può dare una facile felicità domestica; dall'altra il vuoto della ribellione alla maschera, che può dare la libertà del volo ma anche il precipizio di una caduta rovinosa.
Due estremi che però sono intercambiabili, che sembrano opposti solo perché speculari.

Il critico Tullio Kezich, ha sottolineato, a suo tempo, che: "Persona, è svolto come un teorema che a un certo punto si trasforma nell'operazione senza anestesia che il chirurgo svolge in presenza del pubblico".
Sempre secondo Kezich: "Bergman riduce all'osso le scenografie e gli artifici per indirizzare lo spettatore verso i personaggi, come un diabolico dominatore".
Proprio in questo aspetto trova adempimento l'intenzione sperimentalistica della pellicola, oscillando tra la nevrosi attiva e passiva dell'afasia e le soluzioni registiche brutalmente subliminali e psicoanalitiche.
Il film è grande cinema, capolavoro cinematografico, ma pur sempre cinema.
E' lo stesso Bergman a suggerirci di vederlo come tale, come finzione,,
come riproduzione della vita, proprio all'inizio del film, e ce lo ricorda a metà della visione e, ancora, alla fine della proiezione, quando la pellicola sembra prendere fuoco e autodistruggersi.
Lo fa proponendo una serie di immagini che rappresentano proprio il cinematografo: i carboni dell'arco voltaico di un proiettore; la pellicola che scorre; una sequenza del cinema muto; le mani di un bambino; il sacrificio di un agnello; la mano di Cristo inchiodata alla croce; la neve sporca; un bambino che cerca di aggrapparsi invano a un'immagine di donna irraggiungibile.
E ci avverte anche di leggere il film in diversi modi, fornendoci, per l'uso, diverse chiavi di lettura (tecnica-estetica; religiosa-spiritualistica; psicologica-psicanalitica) delle quali, però, l'una non esclude l'altra.
Ma, tutte insieme, fondendosi l'una nell'altra, in maniera propedeutica, in una sola complessa ed articolata lettura critica, si completano e si perfezionano.

Liliana Cavani, una dei maggiori registi di cultura cattolica, disse, all'epoca della prima uscita del film: "Ho visto poche opere cinematografiche così nette. Il film è il risultato di un paziente lavoro di approfondimento e di rifinitura. E' uno di quei film che indicano ai registi vie nuove per tentare nuove possibilità di espressione".
Il prologo, poi, allinea diversi espliciti riferimenti ad opere precedenti di Bergman.
Ne ricordiamo almeno due, i più marchiani.
Prigione, con la comica alla Melies;
Il silenzio: con lo stesso bambino, che è uno dei tre protagonisti del film, interpretato da Jorgen Lindstrom; e lo stesso libro di Lermontov: “Un eroe dei nostri tempi”.

4 – Tre curiosità.

Infine, tre curiosità:
  1. Il titolo del film deriva dal latino “dramatis persona”, terminologia usata comunemente per definire la maschera indossata dall'attore (e quindi dal personaggio) nel teatro romano. Esopo: “Personam tragicam, forte vulpes viderat” (“una volpe aveva visto, per caso, una maschera tragica”). Si tratta di un chiaro riferimento alla professione della protagonista del film, l'attrice Elisabeth Vogler interpretata da Liv Ullman.
  2. L'attrice afasica si chiama Elisabeth Vogler. Vogler come il cognome del protagonista de "Il Volto", Albert Emanuel Vogler, l'illusionista, stranamente anch'egli chiuso in un enigmatico mutismo per buona parte di quel film.
  3. L'infermiera si chiama Alma, (anima) come l'Alma de "L'ora del Lupo", moglie del pittore Joan, interpretata da Liv Ullman.



Influenza del teatro di August Strindberg sulla cinematografia di Ingmar Bergman.

PARTE PRIMA.

Presentazione.

 Sebbene il suo eclettismo e la sua versatilità gli abbiano consenstito di spaziare, con grande disinvoltura e rara efficacia, tra i diversi generi artistici (prosa, teatro, fiolosofia, poesia e, perfino, pittura) August Strindberg è, universalmente considerato, il “padre del teatro moderno” ed è autore di un’opera drammaturgica considerevole.

Sebbene, per la sua unicità ed originalità, non possa essere considerato l'iniziatore di un filone, di un genere nè, tantomeno, di una scuola, Ingmar Bergman può essere, a ben ragione, definito il “padre del cinema moderno” ed anch'egli è autore di una produzione (filmica) considerevole.

Si può anche aggiungere che Strindberg ha aperto la via al “modernismo letterario” nel suo paese, la Svezia. E che la Svezia è lo stesso paese di nascita di Ingmar Ernest Bergman.
Sono questi i primi, evidenti e incontestabili, punti di contatto che si stabiliscono tra i due grandi personaggi della cultura scandinava del '900.

L’uomo August Strindberg è altrettanto affascinante della sua opera; così come sono affascinanti Ingmar Bergman e il suo cinema.
Tuttavia, entrambi sono molto difficili da definire, ed entrambi lungo tutta la loro vita, anagrafica e artistica, tentarono di essere appassionatamente sinceri con sé stessi - più che con gli altri - a partire dalla pretesa di essere "sinceri" anche nelle loro proprie, profonde,  umane, per certi versi sconcertanti, contraddizioni.
Ingmar Bergman, in modo particolare non fu immune da contraddizioni profonde, che riverberano i propri effetti, positivi o negativi, sulla sua intera attività cinematografica.

Non doveva essere facile per un uomo eccezionale vivere e lavorare nella piccola Svezia della metà del XIX secolo.
Così come non doveva esserlo per Bergman negli anni '40, dall'inizio stentato della sua carriera fino a quando non fu definitivamente acclamato come il personaggio svedese vivente più popolare al mondo.


Strindberg, nato nel 1849, nervoso e instabile, è il figlio spirituale di altri due grandi scandinavi: Soren Kirckegaard ed Henrik Ibsen.
E anche Bergman ha studiato a fondo le lezioni del drammaturgo e del filosofo e ne ha appreso perfettamente il loro ricco, fondante insegnamento.

Strindberg Inizia, nella prima giovinezza, gli studi di medicina, cui rinuncia per ragioni materiali; prova diversi lavori, fino ad impiegarsi come bibliotecario aggiunto alla Biblioteca Reale di Stoccolma.
Questi suoi inizi stentati, sono ben riassunti da una prima pièce dal titolo eloquente, “Il libero pensatore”, del (1869).

Anche Bergman avrà grossi problemi, economici e di inserimento nel mondo del cinema, il solo mondo che ama.
Lui stesso, dopo alcune altre collaborazioni minori come soggettista e sceneggiatore, arriva a dichiarare candidamente, ma anche molto amaramente: “Nel 1944 arrivò la mia grande occasione. Il Direttore di Svensk Filmindustri mi sottopose il manoscritto di una commedia di un autore danese con la proposta di ricavarne un film. In 14 notti scrissi una sceneggiatura. Se me lo avessero chiesto avrei sicuramente tratto un film anche dall'elenco del telefono."
(da: “La lanterna Magica”, Autobiografia).

Strindberg giovanissimo - non ha che vent’anni - affronta ll primo grande impegno con una pièce riscritta tre volte, dal 1872 al 1876, ora in versi ora in prosa, “Maestro Olof” (Mäster Olof) dove, partendo da un pretesto storico, dà libero corso alla sua sete d’assoluto ed al suo culto intransigente della vocazione. Strindberg ha trovato quasi di colpo la sua formula: trasformare il teatro nella proiezione sulla scena del suo universo interiore. Ma trova anche il suo tema dominante e centrale: se la vita non è, e non può essere, quella che sogniamo; allora, quale esistenza varrebbe la pena vivere?
Praticamente, da questo momento in poi, passerà trentacinque anni a stigmatizzare tutto: lo Stato, la Chiesa, la buona società, la Donna, il perbenismo borghese e, finanche, Dio. Diventerà una specie di inquisitore, di partigiano, di rivoltoso, di disturbatore, di artista provocatore, di agit prop, di cui qualsiasi vera letteratura (meglio drammaturgia) ha bisogno, e in particolare quella scandinava che, intorno al 1870, dopo anni di chiusura culturale, sta finalmente scoprendo le proprie vie di “apertura” all’Occidente.

E' esattamente lo stesso ruolo che Bergman ricopre 70 anni dopo, nel cinema svedese.
Il Genio di Uppsala fa del suo cinema un modo per parlare della vita e della morte; per discutere del destino dell'uomo e della sua solitudine, dei sentimenti, delle angosce e delle sue paure ancestrali; un modo per sondarne, scandagliarne e vivisezionarne impietosamente la psicologia, proprio come farebbe uno “speleologo” della psicanalisi; metterne a nudo i limiti ontologici e le lacune umane; interrogarsi sull'esistenza, sul silenzio e la fuggevolezza di Dio; indagare sulla (in)costistenza e fondatezza della religione e, forse, anche sulla sua inutilità, visto che non da risposte esaustive e definitive.
Eloquente, in tal senso, lo stesso Bergman quando fa dire ad uno dei suoi personaggi più famosi (il cavaliere Antonius Block, ne “Il settimo Sigillo”) quello che anche lui parrebbe voler dire: "Perchè non è possibile cogliere Dio con i propri sensi. Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incompresnsibili miracoli? Perchè dovrei avere fede nella fede degli altri? Perchè non posso uccidere Dio in me stesso?".


Anche Strindberg, che, decenni prima, aveva posto le nostre angosce e le nostre insufficienze al centro del suo teatro, ha saputo dire, meglio di altri, lo smarrimento, lo spaesamento dell’uomo di oggi.
Rifiutando sempre e sdegnosamente gli aiuti che avrebbero potuto provenirgli da un’etica borghese stabile e da un altrettanto borghese perbenismo o anche da una religione condivisa dai più, ha voluto essere vero, scandalosamente e inesorabilmente vero, indigesto e puntuto, ruvido e corrosivo, spingendosi, a volte, fino ai limiti dell' insopportabile e, spesso, travalicandoli.
Esattamente lo stesso ha fatto Ingmar Bergman per il tramite del suo cinema.

Il “teatro psichico” di Strindberg; il “cinema psichico” di Bergman.

Strindberg, scrittore, poeta, pitore, drammaturgo e filosofo, alla fine opta per il teatro (“electa una via ......”) strumento ritenuto il più idoneo a mostrare l’inevitabile urto di una personalità contro le altre, contro la massa, e insieme di tratteggiare il divenire enigmatico, casuale e caotico di ogni destino.
E giunge, per lui, il momento della serie di capolavori di teatro “simbolico” nei quali alcune immagini  altamente simboliche generano la progressione inesorabile dell’azione.
Si è spesso parlato, da parte della critica, a proposito di questi drammi di “teatro psichico” .
Si tratta per l’autore di dimostrare che gli spiriti intellettuali superiori sono necessariamente incompresi dalla massa; che la vita è una lotta senza sconti, tesa a schiacciare tutto ciò che esce dal comune sentire - Strindberg chiama questo combattimento la “lotta dei cervelli” (hjärnornas kamp) - dove la donna è infinitamente più forte dell’uomo e la “maggioranza compatta” vince sempre sull’individuo isolato, in particolare arrivando, inesorabile, a praticare impunemente i cd. "omicidio psichico" (själamord), che consiste nel privare un individuo della sua stessa credibilità sociale introducendo subdolamente un dubbio fondamentale nel suo spirito.
E anche Bergman, come Strindberg, è autore di personaggi autodiretti, che raramente appartengono alla maggioranza, raramente si appiattiscono sull'idem sentire, anzi quasi sempre raccontano la loro solitudine, la lorto angoscia di solisti, di voci fuori dal coro, di individui soli, solitari e solipsisti.
Essi si pongono in diretto dinamismo dialogico con il proprio io, con la loro psiche, con la loro religiosità e, infine, con Dio.
Forse Bergman li fa agire in modo, quasi, autobiografico.
Eloquente, in tal senso, la sua stessa affermazione: “Viviamo così lontano da Dio che forse non ci sente quando chiediamo aiuto. Perciò dobbiamo aiutarci tra noi e darci l'un l'altro quel perdono che un Dio remoto ci nega”.

Mistica ed alchimia.

Quasi di colpo, l'ispirazione di Strindberg, lanciatosi nel frattempo, in tenebrose esperienze alchemiche compie una brusca virata: intraprende una ricerca di tipo mistico, occultista e alchemica, alla ricerca di quelloche lui stesso definisce il "Grande Segreto".
Se ne vedono i primi esiti nel romanzo insolito "A bordo del vasto mare" (scritto nel 1890).
Anche Bergman affronta il tema dell'occultismo in un suo celeberrimo film: “Il Volto” (“Ansiktet”), del 1958. Tutto giocato sulla contrapposizione, anzi, sullo scontro dialogicoe, quasi, fisico tra i due protagonisti: da una parte, il dottor Vergerus, (interpretato da Gunnar Bjornstrand), medico, scenziato rigorosamente scientista e positivista, disincantato e incredulo; dall'altra, Albert Emanuel Vogler, (interpretato da Max von Sidow), illusionista e ipnotista, mesmerista convinto, cultore di magia, mistero e di tutto ciò che è soprannaturale. In un confronto serrato e senza esclusione di colpi, tra visibile e invisibile; tra ragione e soprannaturale; tra vita e morte; tra volto e maschera; tra essere e apparire.

(Segue Parte Seconda)

SMR

sabato 9 giugno 2012

L'influenza del pensiero filosofico di Soren Kierkegaard sul cinema di Ingmar Bergman.


Nel corso di più di cinquant'anni di attività la critica ha discusso dell’influenza del filosofo danese Søreen Kierkegaard sul grande maestro del cinema Ingmar Bergman. 
Oggi il poderoso dibattito resta ancora aperto a nuove e più esaustive considerazioni. 
Anch'io ho voluto provare a dare il mio modesto, personale contributo e a tracciarne alcune schematiche linee tematiche.

1) La ricerca della verità
Durante tutto il Novecento emerge in tutta la sua urgenza la tematica dell’assenza del fondamento, di un principio creatore che stabilisca valori e parametri universali cui far riferimento. La caduta dei simboli e la finitezza dei linguaggi, che non possiedono più la forza espressiva necessaria a rappresentare la società e gli individui che la compongono hanno generato una sorta di afasia globale. È in questa situazione generale che maturano le filosofie esistenzialiste. La questione dell’assenza del fondamento pervade il cinema di I. Bergman, in particolar modo nel periodo dei primi anni ’60, e permea profondamente la cosiddetta ‘Trilogia del Silenzio di Dio’
Indagatore dell’anima, Bergman, attraverso la macchina da presa percorre il paesaggio impervio del volto umano. Nordeuropeo di nascita e di cultura, egli respira un‘aria fredda e desolata che affonda le sue radici nello stesso pensiero del grande filosofo danese. Come quest’ultimo, ma attraverso il linguaggio cinematografico, Bergman ha ricercato la verità.
Secondo Kiekegaard la ragione da sola non può bastare a comprendere una verità che non è mai “assoluta”. La tesi kiergaardiana è una dialettica ‘qualitativa’ e ‘soggettiva’. In altri termini, Kierkegaard pone al centro del suo pensiero l’individuo. Pertanto il filosofo, il teologo e lo studioso in generale non possono teorizzare né arrivare a tracciare alcun sistema oggettivo per qualificare la verità assoluta.
Nessuna speculazione filosofica, né alcun metodo d’indagine, né sintesi storica per Kierkegaard possono cogliere l’esistenza dell’individuo. L’unica categoria presa in esame è ricondotta a quella del singolo. Il solo criterio possibile è la scelta; la decisione (in opposizione alla categoria hegeliana della necessità).
Così anche in Bergman, l’identità soggetto-oggetto si è dissolta e con essa la ragione hegeliana, comportando una profonda scissione fra interno ed esterno, fra l'Io e il Mondo e con ciò la conseguente caduta di una ragione esibita a verità assoluta.
Nel suo definitivo approdo all’ateismo religioso, anche i suoi personaggi vivono in un “incognito totalmente impenetrabile ad altri uomini, imperscrutabile a ogni forza umana”. Così come afferma Minus: “..ognuno chiuso nella sua cella” (“Come in uno specchio”).

2) I tre stadi del singolo nel cinema di Bergman
Per Kierkegaard non si perviene a Dio attraverso il Cristianesimo come religione storicamente rivelata. Si giunge a Dio, alla fede, all’Assoluto, solo tramite il proprio percorso individuale, intimo e sofferto. In una parola: solipsisitico.
Decisive in tal senso sono le scelte di vita che si presentano all’uomo, teorizzate nei tre stadi kirkegaardiani dell’esistenza: estetico, etico e religioso.

3) Vita Etica e vita Estetica
Alcuni personaggi bergmaniani osservano la superficialità della loro esistenza, rilevano la vanità del tutto, amano il piacere immediato e si collocano proprio nel salto della vita che va dallo stadio estetico allo stadio etico. Si trovano in questo trapasso, nel bel mezzo del salto ma non lo compiono. Uno dei protagonisti di “Come in uno specchio”, David, ne è l’emblema. Ed infatti non ha il coraggio necessario per compiere il cambiamento, continuando ad osservare il fallimento della propria vita. David resta vittima della disperazione, la avverte, ma non sa attuare alcun movimento in sé. La vita etica è uno stadio più consapevole rispetto a quello estetico. L’uomo prende finalmente coscienza di sé e dei suoi rapporti col mondo e la società. L’uomo etico vive autenticamente i rapporti umani e sociali; al contrario dell’esteta, non fugge le responsabilità, sceglie se stesso e i rapporti interpersonali. Esemplificativi di questa fase non sono forse il cavaliere crociato Antonius Block di "Il Settimo Sigillo" e Tomas, il pastore in crisi di "Luci d'Inverno"?
In sintesi, in questo stadio dell’esistenza si accettano la continuità della propria vita e l'esame consuntivo della vita stessa. Quest’ultima consente di riaffermare il passato accogliendo le responsabilità (vedi il concetto di responsabilità kirkegaardiano) di amare la stessa persona, i medesimi amici e professione. Ne consegue l’inserimento dell’individuo nella società, ancora di più, l’accettazione da parte dell’uomo di una legge riconosciuta universalmente, quella della vita, civile e sociale.

4) Bergman e Dio.
Bergman, come Kierkegaard, crede in una verità religiosa soggettiva, frutto della libertà di scelta tra l’essere e il suo poter essere. Tuttavia, personaggi come Karin, Tomas, Ester, protagonisti della trilogia religiosa o del silenzio di Dio bergmaniana, pur essendo coscienti delle proprie potenzialità e vedendo ciascuno il fondo del proprio essere, non sanno compiere la scelta definitiva e rinunciano all’unica possibilità possibile, il salto nella fede, in Dio, sprofondando nella disperazione.

5) La malattia mortale.
Per Kierkegaard è la disperazione: l’impossibilità di scegliere se stessi fino in fondo. Ma la vera malattia mortale è la mancanza di direzione, di scelta, il non credere. Personaggio esemplificativo in tal senso è la Agnes, malata, sofferente, agonizzante e morente di “Sussurri e Grida”.
Anche nel finale di “Luci d’inverno”, Marta, in modo meno drammatico ma ugualmente grave, unica spettatrice della messa celebrata da Tomas in una chiesa vuota, pur avvertendo la propria disperazione, non riesce a credere. “Ah se potessi credere in una qualunque cosa; se solo potessimo credere!”

6) L’abbandono di Dio
Altro tema essenziale per una maggiore comprensione della trilogia bergmaniana è l’abbandono di Dio. Se dio ha abbandonato gli uomini, come afferma Tomas, in “Luci d’inverno”, allora l’uomo non possiede più alcuna certezza cui appigliarsi e dalla quale determinare i propri valori, nessuna morale sociale né una condotta. In definitiva l’uomo non ha più una Legge, un peso regolatore che gli permetta di articolare la sua vita. L’uomo è abbandonato da Dio e l’esistenzialismo asserisce: ...”l’uomo è gettato nel mondo”. In ab-sentia di Dio la fede per Bergman è scegliere se stessi: “....così non ho altro fine se non me stesso. È una specie di verità. È una verità mia personale, o una verità a tre quarti, o una verità inesistente se non per il fatto che essa ha valore per me”. Il cineasta svedese, sondato il cammino dell’uomo, approda ne “Il silenzio” all’unica rivelazione possibile, quella dell’anima: “alma”, che in greco significa “anima”, è anche il nome di una delle protagoniste più intense di un suo celebre film (“Persona”); “anima” c’è scritto sul biglietto che Ester, come eredità, lascia al nipote, l’unica parola che è riuscita a comprendere della misteriosa lingua della fantomatica città di Timoka. Per Bergman l’uomo deve spingersi sino negli abissi reconditi di se stesso, deve affrontare i suoi demoni, se li accetterà e imparerà a conoscere, a convivere con essi, allora potrà incontrare l’Altro, se riuscirà a denudarsi di fronte a se stesso forse poi potrà mettersi di fronte a Dio, poco importa se vi perverrà: “ Tu devi celebrare la tua messa, se è per Dio si vedrà”.


7) Conclusioni.
Il Maestro ha, dunque, appreso la lezione kierkegaardiana, ma come il filosofo, non è riuscito ad incarnare le proprie idee; a fare di se stesso un esempio etico vivente. E' solo un portavoce, attraverso le sue opere, di un’anima che riflette, sente la vita fino nel profondo. Bergman perviene ad una concezione di esistenzialismo, che sfocia nello “umanismo”; è “l’essere con” teorizzato da Heidegger. Vale a dire che forse l’unico trascendente possibile è nella relazione con l’altro, poiché nello sguardo altrui siamo nudi, svelati. Non si può vivere da soli, afferma il Genio. E, forse, è proprio questo che percepiscono i personaggi di Bergman nella terra di confine di Farő (“Come in uno specchio”); nella chiesa vuota di Tomas (“Luci d'Inverno”), nella città fantasma Timoka, dove si parla una lingua incomprensibile e la solitudine attanaglia tutti i protagonisti (“Il Silenzio”); nella casa piena di angoscia, urla, morte e silenzi delle quattro donne dolenti (“Sussurri e Grida”).

SMR