martedì 30 dicembre 2014

Quando i paesi erano una grande famiglia.


In occasione della fine, ormai vicina, del 2014 e l'approssimarsi, a grandi passi, del Capodanno 2015, metto qui un paragrafo "BENAUGURANTE" tratto dal mio libro di racconti paesologici:


CRONACHE DAL PICCOLO BORGO 
DELLA PIETRA MILLENARIA 

Quando i paesi erano una grande famiglia.

Tra le tante, almeno due sono le condizioni sufficienti che si richiedono a un paese per continuare a funzionare - non dico bene, ma almeno decentemente - e, quindi, per sopravvivere: la Mutualità e la Cooperazione tra i paesani. Non sono ammesse eccezioni, né condizioni, specie se il paese è piccolo.  Piccolo come il  mio. Anzi, più il paese è piccolo, più la mobilitazione dev'essere generale; allora tutti devono contribuire: socialmente, economicamente, culturalmente. Tutti devono fare la loro parte. E anche di più. Altrimenti il sistema non funziona. E, il sistema non può funzionare altrimenti. Anticamente il paese era come una grande famiglia, pronta a fare fronte comune alle avversità e a combattere, paesani uniti tutti assieme, qualsiasi forma di invasione, qualsiasi forma di minaccia alla sua sussistenza, alla sua prosecuzione. Che fossero: la povertà, la miseria, i briganti, le angherie e i soprusi dei potenti, le guerre, le carestie, gli eventi atmosferici catastrofici, le epidemie o i terremoti disastrosi. Non importava. C'era mobilitazione generale perfino per il crollo di una macera che doveva essere tirata su in breve tempo: "gliu varu s'è spallathu!" Era il grido d'allarme che si levava tra i monti. O per un grosso animale caduto in un dirupo e da recuperare, vivo o morto. O, ancora per un covone di fieno stagionato andato improvvisamente a fuoco: allora si urlava e si portava acqua nei secchi: "gliu metale s'è appicciathu"!". Come dice pure il poeta Quirino, in una sua poesia paesologica: tutti accorrevano, come ad assistere un morto sul suo catafalco. Tutti accorrevano; tutti correvano in aiuto. Lui che per lavoro "aisa gli vari spallathi" o costruisce nuove "macere", il più classico, il più preistorico e il più nobile dei lavori paesologici, per ironia della sorte, cent'anni fa sarebbe stato disoccupato; oppure avrebbe avuto tanto lavoro, ma non retribuito, oppure retribuito malamente, magari solo da un parco pasto a fine giornata. Si faceva Pasqua per una zuppa di fagioli. Per non parlare, poi, dell'uso di tenere la chiave nella toppa, anche di notte: non c'era nessun rischio, non si correva nessun pericolo di essere derubati dai ladri: il poco che si aveva era considerato bene comunitario, era nel possesso del singolo, ma nella disponibilità comune; chi avrebbe potuto o voluto depredarlo? I sistemi-paese hanno funzionato, anche in periodi nei quali le condizioni economiche, sociali e culturali erano molto meno favorevoli e fiorenti di quelle attuali (crisi a parte), perché tra i cittadini c'era un patto non scritto di comportamento; una specie di regola non vergata, di consuetudine antica, di uso ancestrale, secondo il quale, in caso di necessità (che, poi, era la condizione abituale, quotidiana) ci si doveva aiutare vicendevolmente e cooperare per il benessere collettivo, per il bene della intera comunità, della comunità intera, nessuno escluso. specie i più deboli e disperati. Il bene supremo, da tutelare e da rispettare. Magari, anche mettendo da parte l'interesse personale. Il Bene Comune, insomma, non era solamente uno slogan elettorale. Tutti avevano aderito a questa condizione. Tutti avevano aderito ed erano fedeli a questo patto. Se non fosse stato così gli artigiani, gli operai, i commercianti, i (pochi) professionisti, non avrebbero potuto rendere floride le loro attività, tirare su le loro famiglie, contribuire economicamente alla crescita dell'intera comunità. Oggi, tranne rare eccezioni tra vicini, la Mutualità e la Cooperazione non sopravvivono quasi più, e il paese sta morendo. E nessuno si stringe più al suo capezzale. Nessuno più sta al capezzale del morto: nessuno più sa nemmeno chi è il morto da piangere. Anzi, nessuno sembra addirittura accorgersi che qualcuno è moribondo o morto. Ci sarà' pure un motivo se all'inizio del secolo scorso la popolazione era di 2500 abitanti e dopo un secolo. Oggi li vedi, tronfi e impettiti e sazi, mentre si aggirano per il loro paese che puzza di morte, i paesani. Sembra che tutti siano autosufficienti; tutti si bastano; tutti possono fare a meno di tutti gli altri. Ma, qualcuno ci aveva avvertiti: la solidarietà, la fratellanza e la modestia sono le ragione di vita dei deboli; la solitudine, l'ignoranza e la supponenza sono le debolezze dei forti.  Oggi c'è in giro troppa gente che confonde la modernità col progresso, la furbizia con l'intelligenza, il ritorno alla terra col ritorno alla clava, il potere con l'esercizio della cosa pubblica, l'apparire con l'essere, gli strumenti con il fine, et alia. Ma L'intelligenza e cosa diversa dalla furbizia. L'intelligenza è vivida; la furbizia è ...livida!


giovedì 25 dicembre 2014

Quest'anno il tradizionale incontro dei fans de IL GENIO DI UPPSALA (Saggio di Salvatore M.Ruggiero) e i cultori del buon cinema d'autore NON CI SARA'.

Quest'anno il tradizionale incontro dei fans de IL GENIO DI UPPSALA (Saggio di Salvatore M.Ruggiero) e i cultori del buon cinema d'autore NON CI SARA'.
EVIDENTEMENTE gli organizzatori del NATALE CORENESE (non so nemmeno chi siano) hanno ritenuto, né doveroso né utile, di contattare il sottoscritto per l'allestimento della SERATA INGMAR BERGMAN: PROIEZIONE di un film del Maestro+dibatitito+presentazione di un mio saggio.
S'interrompe così tristemente e senza motivi logici una bella tradizione triennale.
AI RESPONSABILI DI QUESTA MOSTRUOSITA' OTTUSA, DI QUESTA VIOLENZA ALLA CULTURA VERA, VANNO I MIEI AUGURI PIU' SENTITI E LA STIMA PIU' FERVIDA.
NON LAMENTO CHE NON SI SIA TROVATO SPAZIO PER ME: LAMENTO CHE NON ABBIANO TROVATO SPAZIO PER INGMAR ERNST BERGMAN E PER LA SUA ARTE.

FORSE, PER ME E PER LE MIE MODESTISSIME INIZIATIVE CULTURALI E' ARRIVATO IL MOMENTO DI ...EMIGRARE VERSO LIDI MIGLIORI!

P.S. VOGLIO SPERARE, COMUNQUE, CHE ALMENO LA SAGRA DELLE REGNE E LA CORSA DEGLI ASINI POSSANO CONTINUARE:
SE CESSASSERO ANCHE QUEGLI EVENTI, PER LA CULTURA CORENESE SAREBBE DAVVERO LA FINE!




martedì 23 dicembre 2014

Quando i paesi erano una grande famiglia.




Quando i paesi erano una grande famiglia.

   Tra le tante, almeno due sono le condizioni sufficienti che si richiedono a un paese per continuare a funzionare - non dico bene, ma almeno decentemente - e, quindi, per sopravvivere: la Mutualità e la Cooperazione tra i paesani. Non sono ammesse eccezioni, né condizioni, specie se il paese è piccolo. Piccolo come il mio. Anzi, più il paese è piccolo, più la mobilitazione dev'essere generale; allora tutti devono contribuire: socialmente, economicamente, culturalmente.
Tutti devono fare la loro parte. E anche di più. Altrimenti il sistema non funziona. E, il sistema non può funzionare altrimenti. Anticamente il paese era come una grande famiglia, pronta a fare fronte comune alle avversità e a combattere, paesani uniti tutti assieme, qualsiasi forma di invasione, qualsiasi forma di minaccia alla sua sussistenza, alla sua prosecuzione. Che fossero: la povertà, la miseria, i briganti, le angherie e i soprusi dei potenti, le guerre, le carestie, gli eventi atmosferici catastrofici, le epidemie o i terremoti disastrosi. Non importava. C'era mobilitazione generale perfino per il crollo di una macera che doveva essere tirata su in breve tempo: "gliu varu s'è spallathu!" Era il grido d'allarme che si levava tra i monti. O per un grosso animale caduto in un dirupo e da recuperare, vivo o morto. O, ancora per un covone di fieno stagionato andato improvvisamente a fuoco: allora si urlava e si portava acqua nei secchi: "gliu metale s'è appicciathu"!". Come dice pure il poeta Quirino, in una sua poesia paesologica: tutti accorrevano, come ad assistere un morto sul suo catafalco. Tutti accorrevano; tutti correvano in aiuto. Lui che per lavoro "aisa gli vari spallathi" o costruisce nuove "macere", il più classico, il più preistorico e il più nobile dei lavori paesologici, per ironia della sorte, cent'anni fa sarebbe stato disoccupato; oppure avrebbe avuto tanto lavoro, ma non retribuito, oppure retribuito malamente, magari solo da un parco pasto a fine giornata. Si faceva Pasqua per una zuppa di fagioli. Per non parlare, poi, dell'uso di tenere la chiave nella toppa, anche di notte: non c'era nessun rischio, non si correva nessun pericolo di essere derubati dai ladri: il poco che si aveva era considerato bene comunitario, era nel possesso del singolo, ma nella disponibilità comune; chi avrebbe potuto o voluto depredarlo? I sistemi-paese hanno funzionato, anche in periodi nei quali le condizioni economiche, sociali e culturali erano molto meno favorevoli e fiorenti di quelle attuali (crisi a parte), perché tra i cittadini c'era un patto non scritto di comportamento; una specie di regola non vergata, di consuetudine antica, di uso ancestrale, secondo il quale, in caso di necessità (che, poi, era la condizione abituale, quotidiana) ci si doveva aiutare vicendevolmente e cooperare per il benessere collettivo, per il bene della intera comunità, della comunità intera, nessuno escluso. specie i più deboli e disperati. Il bene supremo, da tutelare e da rispettare. Magari, anche mettendo da parte l'interesse personale. Il Bene Comune, insomma, non era solamente uno slogan elettorale. Tutti avevano aderito a questa condizione. Tutti avevano aderito ed erano fedeli a questo patto. Se non fosse stato così gli artigiani, gli operai, i commercianti, i (pochi) professionisti, non avrebbero potuto rendere floride le loro attività, tirare su le loro famiglie, contribuire economicamente alla crescita dell'intera comunità. Oggi, tranne rare eccezioni tra vicini, la Mutualità
e la Cooperazione non sopravvivono quasi più, e il paese sta morendo. E nessuno si stringe più al suo capezzale. Nessuno più sta al capezzale del morto: nessuno più sa nemmeno chi è il morto da piangere. Anzi, nessuno sembra addirittura accorgersi che qualcuno è moribondo o morto. Ci sarà' pure un motivo se all'inizio del secolo scorso la popolazione era di 2500 abitanti e dopo un secolo. Oggi li vedi, tronfi e impettiti e sazi, mentre si aggirano per il loro paese che puzza di
morte, i paesani. Sembra che tutti siano autosufficienti; tutti si bastano; tutti possono fare a meno di tutti gli altri. Ma, qualcuno ci aveva avvertiti: la solidarietà, la fratellanza e la modestia sono le ragione di vita dei deboli; la solitudine, l'ignoranza e la supponenza sono le debolezze dei forti. Oggi c'è in giro troppa gente che confonde la modernità col progresso, la furbizia con l'intelligenza, il ritorno alla terra col ritorno alla clava, il potere con l'esercizio della cosa pubblica, l'apparire con l'essere, gli strumenti con il fine, et alia. Ma L'intelligenza e cosa diversa dalla furbizia. L'intelligenza è vivida; la furbizia è ...livida!

smr

venerdì 19 dicembre 2014

UNA PASSEGGIATA NELLA MEMORIA PROFONDA DI UN RAGAZZO DI PAESE.

Metto qui un brano dal mio prossimo libro in lavorazione:

UNA PASSEGGIATA NELLA MEMORIA PROFONDA DI UN RAGAZZO DI PAESE.





"...Dopo pranzo, come d'accordo, col mio amico, usciamo da casa. Abito fuori dal centro abitato, ma il paese è piccolo, facciamo qualche centinaio di metri dalla periferia verso il centro e siamo già sul viale. Abbiamo appena passato la casa dei miei nonni materni, in fondo al viale, un po’ prima del cimitero. Imbocchiamo il viale da sud, arriviamo subito al parco; è dove una volta c'era il campo sportivo.
 Vieni proseguiamo la nostra passeggiata. Tu hai molto da vedere. Io ho molto da raccontarti.
Andiamo in leggera salita, avanziamo lentamente sul marciapiede. Ci impegniamo a fare una specie di slalom fra gli alberi. Contiamo la lunga fila di tigli in fiore. In questa stagione i tigli in fiore emanano un odore inebriante. Penso ad alta voce.
Questo posto è cambiato molto negli anni..."

giovedì 18 dicembre 2014

C'è un vecchio gelso fronzuto proprio sotto casa mia. (Poesie)

La mia poesia ha spopolato su Fb grazie a qualche amico che ha invitato i sui amici a mettere "mi piace" sulla pagina del mio libro:

C'E' UN VECCHIO GELSO FRONZUTO PROPRIO SOTTO CASA MIA.

Allora metto qui un'altra poesia tratta dallo stesso libro,




Dove

Dove vanno a finire i vecchi amori consumati dal tempo e dalla noia?
Dove vanno a finire i sogni pazzi che al mattino non ricordi più?
Dove vanno a finire i miliardi di parole che non hai mai avuto il coraggio di dire?
Dove vanno a finire le vite che non hai avuto il coraggio di vivere? 
Dove vanno a finire gli aquiloni che sfuggono dalle mani dei bambini? 
Dove vanno a finire i sorrisi dei nostri giorni migliori?
Dove vanno a finire gli arcobaleni quando scompaiono dal cielo?
Dove vanno a finire i baci appena appoggiati sulle labbra?
Dove vanno a finire le fotografie che scattiamo con gli occhi?   
Dove vanno a finire gli amori quando gli amanti si lasciano?
Va tutto a finire dove vanno a finire i pensieri che un poeta 
non è mai riuscito a scrivere.
Va tutto a finire in un posto buio, dove nessuno mai lo troverà.
Nemmeno tu.

(smr) 



 SPERO CHE PIACCIA. :-)




lunedì 15 dicembre 2014

Il mio primo libro di poesie: "C'è un vecchio gelso fronzuto proprio sotto casa mia."

Pubblicato il mio primo libro di poesie.

Il titolo wetmulleriano è: "C'è un vecchio gelso fronzuto proprio sotto casa mia."


La foto utilizzata per illustrare la copertina è mia.




Anche il contenuto del libro, come la foto è ad alto tasso "paesologico".

La poesia “paesologica” è una forma di attenzione letteraria che cerca di mettere, e di tenere, insieme poesia, ecologia, natura e impegno civile per i nostri paesi.


smr

giovedì 11 dicembre 2014

Il costruttore di macere (muri a secco, senza malta).



                     STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI.

Un antico lavoro: il costruttore di macere (muri a secco senza malta).
 


   Di Siena Pietro: quando "nomen est omen". E mai come in questo caso è proprio vero che il nome è un presagio: perché Pietro, l'ultimo scalpellino corenese, forse il più bravo, ha associato, anzi, legato indissolubilmente la sua vita alla pietra che ha lavorato per una vita. Buona parte della sua esistenza, nei fatti, l'ha passata seduto per terra, a scalpellare i blocchetti di pietra per farne macere, i caratteristici muri a secco, costruiti solo con cubetti di pietra locale, smussati a colpi di mazzuola e scalpello, e messi uno sull'altro senza malta o altri collanti artificiali. E la sua opera gli è sopravvissuta. Lui, che non era certo un omaccione, tutt'altro - era corto, smilzo e nervoso, quasi pelle e ossa - con la passione, la necessità e l'esperienza aveva sviluppato una tecnica sopraffina: riusciva a individuare ad occhio il punto esatto dove abbattere il colpo di mazzuola per togliere l'eccesso di calcare e squadrare perfettamente il blocchetto che reggeva stretto tra le due ginocchia ossute. Dalla piattezza, dalla geometria e dall'angolo della pietra dipendevano, non solo l'estetica, ma anche la saldezza e la robustezza della macera. Se erano state fatte a regola d'arte, e quelle di Zi Petrucciu lo erano, le macere sarebbero state così resistenti da stare in piedi per i secoli e i millenni a venire. Se fossero state fatte - come qualche volta è accaduto - con imperizia, pressa e approssimazione sarebbero state destinate a crollare miseramente, accartocciandosi a terra, pietra su pietra alla prima pioggia violenta che le avesse flagellate. L'uso di delimitare le proprietà e di terrazzare il poco terreno scosceso per renderlo coltivabile è molto antico. Affonda le proprie radici molto indietro nei tempi, bel oltre i mille anni che distano dalla fondazione ufficiale di Coreno. Ci riporta indietro di millenni, direttamente ai miti pelasgici. La leggenda più accreditata, narra, infatti, che, quando il dio Saturno fu spodestato dal figlio Giove, scappò dall'Olimpo e fu costretto all'esilio in Ausonia (l'antica Italia), si nascose nel Lazio (dal latino: latere, appunto, nascondere). Accolto amichevolmente dal dio Giano, solidale con lui, avrebbe fondato le cinque città mitologiche saturnie. Tutte dai nomi inizianti per A: Arpino, Anagni, Alatri, Arce, Atina. In più da buon dio delle messi abbondanti insegnò l'agricoltura alle genti di quei luoghi. E quelle ancora oggi ne vivono. Infine generò il primo re del Lazio: Pico. Altro nome molto noto in Ciociaria: è anche il nome di un paese, il paese natale del grande scrittore Tommaso Landolfi. E, per fare un affronto al figlio, usurpatore di troni divini, avrebbe anche svelato agli antichi abitanti della Ciociaria Felix il segreto della costruzione delle mura ciclopiche o pelasgiche che sorgono solo in Ciociaria e nell'Alta Terra di Lavoro. "Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante." 
Ora che anche gli ultimissimi scalpellini - colleghi di Zì Petrucciu - che, alla fine della loro carriera, lavoravano per hobby e non per soldi, se ne sono andati tutti, quasi contemporaneamente, c'è un altro modo per fare i muri a secco: è stato brevettato di recente da una società marmifera, che tra i suoi innovativi prodotti annovera trionfalmente i cd. Quba Stones (detti anche ...gabbioni): pietre informi raccolte ed infilate in una gabbia di rete metallica sigillata maglia per maglia. Ma i Quba Stones sono tutta un'altra cosa, rispetto alle macere di Zì Petrucciu. La pietra è la stessa, e la funzione. Manca il suono ritmato della mazzuola che si abbatte sul masso, manca la fatica umana, manca la polvere da respirare e, soprattutto, manca la ...poesia che solo i vecchi artigiani sapevano infondere nel loro lavoro. Non so se Zi Petrucciu abbia appreso la sua arte di maceratore direttamente dal dio Saturno: quello che è certo è che se l'è portata dietro, con se, nell'Olimpo degli scalpellini. Se un paradiso degli scalpellini esiste davvero.


Scalpellini moderni


mercoledì 10 dicembre 2014

Tre necrologi e un pensiero


Metto qui un paragrafo dal mio libro 
CRONACHE DAL PICCOLO BORGO DELLA PIETRA MILLENARIA.



AL MIO PAESE 

Il 28 Febbraio del 2014 è morto Raimondo Lavalle, aveva 101 anni;

il 17 Maggio del 2014 è morta Giovanna Coreno, aveva 103 anni;

il 6 Giugno (il giorno del mio compleanno) 2014 è morto Raimondo Palmiero, aveva 100 anni.


Chi muore giovane, chi muore vecchio; dal che si deduce che non è importante quanto può essere stata lunga la vita; importante è come la si è riempita!
In ogni caso, solo uno scandalo grande come la vita si può chiudere con uno scandalo ancora più grande, la morte.


lunedì 8 dicembre 2014

FAMMERA, MONTAGNA INCANTATA.

FAMMERA, MONTAGNA INCANTATA.




Vecchia montagna incanta,
che incombe sulla valle,
col petto squarciato.
Come osservassi impassibile,
i nostri peccati di uomini.
Mentre lanci il tuo lungo sguardo
fino alla frontiera lontana della Terra di Lavoro.
Fino al Massico, che hai di fronte.
Tu non avrai mai stracci da far volare,
o da nascondere alla vista.
Ma ci nascondi il sole, ogni santo giorno,
mentre aspetti che la luna pallida si alzi.
Poi ci nascondi anche quella.
Più alta di te, solo la pigra bellezza
di un cielo screziato di grigio e d'arancio.
Poi aspetti di inalare dall'aria
il profumo dei mandorli in fiore
e l'inebriante odore dei tigli.
In basso, ai tuoi piedi,
l'umile piatta rumorosa vallata,
con tutti i verdi cangianti
e i suoi aspri frutti,
La domini altezzosa,
restando sempre in silenzio.
Terra di uomini dannati alla morte,
terra ignorante di contadini grulli.
Continua a distrarci dai dolori del mondo,
dall'umana pazzia e dalla maledizione
delle pietre urlanti, più nemiche che amiche,
sempre in segreto maligno fermento.
Continua a guardare, dritto dritto,
nella nostra calca pazza.
Nella valle che era di un fiume,
oggi è popolata solo da viaggiatori ansiosi,
e passeggeri di mare, di sabbia e di sale.
Cambia pure i tuoi colori,
col sole feroce o sotto la pioggia battente,
ma non mutare mai forma.
E non andare mai via dai nostri occhi.

(SMR)

domenica 7 dicembre 2014

Una poesia in forma di rondine (a primavera?)

Un poème sous la forme d'une colombe-français (Au printemps?)

Une etrange ete
        Les filles vêtues de voiles,
        des armes à ceindre vos reins,
        marche obstinée, hérissée de seins
        et les cheveux ébouriffés;
        sur le terrain de la pluie dessine des
        chemins étranges; le vent tourbillonne les
        feuilles et les hauts croquis de la fontaine
        au fond du parc.


 traduzione:


Una poesia in forma di rondine francese (a Primavera?)
 
Una strana estate
         Le ragazze vestite di veli,
         le braccia a cingersi i fianchi,
         passeggiano ostinate, coi seni irti
         e i capelli scomposti;
         per terra la pioggia disegna strani percorsi;
         il vento mulina le foglie e gli alti schizzi

         del fontanone in fondo al parco.


(smr)

sabato 6 dicembre 2014

I professionisti dei funerali

 Metto qui un paragrafo del mio libro:

CRONACHE DAL PICCOLO BORGO DELLA PIETRA MILLENARIA




"Al mio paese ci sono ...quelli che saltano da un funerale all'altro. Col sorriso sulle labbra. Gridano, piagnucolano, strepitano, ma poi ridono spesso. Si vede chiaro che non gliene frega niente del morto, né di chi rimane. Ma sono sempre i primi a prendere in mano l'aspersorio per l'acqua santa che il prete gli porge. Benedicono la bara, mentre in mente a loro pensano: "Meglio a te, che a me!" Stanno con un piede dentro e uno fuori la chiesa; pronti ad arraffarti sotto al naso la corona dei fiori da portare al cimitero, in corteo, davanti al feretro motorizzato. Lentamente, ineffabilmente, stancamente. Si scelgono anche quella coi fiori preferiti: chi prende le gerbere bianche; chi le calle; chi i garofani; pochi prendono i crisantemi. portano male! Quando hanno notizia che è morto tal de tali, anche se in vita ci avevano scambiate si o no, in tutto, tre parole, si precipitano davanti al catafalco, la salma ancora è calda, a cibarsi del dolore - quello vero - l'unico: quello della vedova o della madre affranta. Si leccano avidamente quelle poche o tante lacrime che sgorgano dal dolore ancora non rimarginato; ferita quella, ancora aperta e viva. Poi vanno a casa e aspettano il prossimo morto e il prossimo funerale. Quasi con impazienza. Finché non toccherà a loro. Perché una cosa è certa, e loro fingono di non saperlo: prima o poi tocca a tutti."

A Natale compra e regala un bel libro di un autore (ancora) sconosciuto al grande pubblico.

Natale, si sa, è tempo di strenne, regali e cadeuax.
Molti corrono in libreria a comprare libri.
E fanno bene.
Ma molti comprano soprattutto libri di autori conosciuti.
I cd "famosi".
I "soliti noti": Camilleri, Vespa, Allende, Baricco e Mazzantini.
PENNIVENDOLI.
Che novità!
E, soprattutto, che sforzo di ricerca, di meditazione e di originalità.
Specie quelli che navigano sul web e che frequentano Fb sapranno che c'è in Italia un sottobosco di scrittori, poeti, narratori, spesso autopubblicati (che non è una brutta parola, come qualcuno pensa), che "civettano" con la letteratura e che aspettano solo di essere scoperti.
La loro prosa è gradevole, corretta e, soprattutto, onesta.
Meriterebbero, insomma, che qualcuno offrisse loro finalmente una "chance".
E allora diamogliela, questa "chance", per una volta.
Compriamo un libro di un autore "sconosciuto"; potrebbe piacerci, potrebbe stupirci.
E se poi non ci piace avremo solo un pò impoverito il nostro borsellino.
Ma, se ci piacerà, avremo arricchito il nostro spirito, la nostra mente e la nostra anima.
E avremo fatto la felicità di un povero scrittore.
Poi, fra dieci o quindici Natali, quando gli sconosciuti saranno diventati anche loro famosi, non compreremo più i loro libri.

P.S. Dimenticavo! Tra quei "sconosciuti" ci sarei anch'io, modestamente. :-)


https://www.facebook.com/LeOpereDiSalvatoreMRuggiero


http://www.amazon.it/s/ref=nb_sb_noss_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&url=search-alias%3Dstripbooks&field-keywords=salvatore%20m.%20ruggiero&sprefix=salvat%2Cstripbooks


http://www.amazon.it/Grande-Cinema-Ingmar-Bergman-Spiegato/dp/1470921553/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1417859965&sr=1-1&keywords=salvatore+m.+ruggiero

giovedì 4 dicembre 2014

In prossimità del Natale, metto qui un brano del mio libro
STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI.



Ogni anno, i primi di Dicembre, mio padre prendeva me e mia
sorella Anna e ci portava in montagna, un pomeriggio di un giorno
feriale, subito dopo pranzo. Facevamo una lunga passeggiata nei
boschi, in salita, alla ricerca di un bel ginepro da usare come albero
di Natale. Era diventata una tradizione; una bella tradizione; la nostra
bella tradizione natalizia. Dovevamo cercare nella rada macchia
mediterranea delle nostre montagne un ginepro abbastanza dritto e
pieno, con la classica forma a goccia, non più alto di un paio di metri,
facilmente trasportabile. Più o meno come quello della foto. E non
era facile trovarlo perché il ginepro, dalle nostre parti, raramente
diventa un albero vero; spesso resta un arbusto informe o assume la
forma tonda di un cespuglio basso. Qualche volta, infatti, non lo
avevamo trovato con quelle caratteristiche precise. Ma non
desistevamo: mio padre aveva affinato una buona tecnica e riusciva
ad assemblarne ad occhio anche due tre pezzi presi da due tre piante
diverse. Quindi tagliava i rami da alberelli diversi e, una volta tornati
a casa, li legava stretti stretti fra loro col filo di ferro e gli dava la
forma di un vero albero di Natale. La chioma di aghi verdi, fitta fitta,
non permetteva a nessuno di vedere il trucchetto: le palline e gli altri
addobbi avrebbero fatto il resto. Una volta individuata la pianta o le
piante che facevano al nostro bisogno, dovevamo abbattere il ginepro
dalla base del tronco, ma non ci sentivamo in colpa: un vero spirito
ecologista, negli anni '60, non era ancora diffuso dalle nostre parti.
Portavamo sempre con noi una sega, un'accetta e una corda: con le
prime due facevamo un lavoro pulito a tagliarlo quasi da terra e ad
aggiustare il tronco, con la corda lo legavamo, trascinandolo
sull'erba, per portarlo fino alla strada. Da lì mio padre l'avrebbe
portato a spalla fino a casa. La vera festa era quando l'albero eletto
arrivava finalmente nel salone di casa. Dove ci aspettavano gli altri
fratelli e sorelle più piccole. Dopo aver posizionato per bene
l'alberello su una base di marmo, di quelle che reggono gli
ombrelloni dei bar in estate, lo portavamo nell'angolo vicino alla  alla
49finestra che dava su Viale della Libertà e cominciavamo ad
addobbarlo con palline, festoni, lucette. Per ultimo mio padre che
ovviamente era il più alto posizionava il puntale dorato. Solo a quel
punto la sua frase d'obbligo. Rivolto a tutti noi, che assistevamo in
silenzio al rito conclusivo, con una espressione tra il serio e il faceto,
come solo lui sapeva fare così bene: "Ricordate bambini! La vita è
come l'albero di Natale - diceva - c'è sempre qualcuno che rompe le
palline." Poi chiudeva il suo breve discorso d'inaugurazione con la
classica raccomandazione d'obbligo: "Voi però cercate di evitare di
farlo... almeno per quest'anno." Ingmar Bergman racconta nelle sue
memorie: "...sono profondamente fissato alla mia infanzia. Alcune
impressioni sono estremamente vivaci: la luce, l'odore, tutto... E'
tutto come in un film. Da pochi frammenti di un film, che ho
impostato ed è in esecuzione, posso ricostruire tutto nei minimi
dettagli. L'unica cosa che non posso ricrearne sono gli odori." Aveva
ragione: gli odori dell'infanzia non si possono ricreare; puoi solo
augurarti di (ri)sentirli, anche solo per caso. A me basta risentire
l'odore penetrante del ginepro e della sua resina per rituffarmi nei
miei ricordi d'infanzia degli anni '60: quell'odore acre, che avrebbe
impregnato la casa per quasi un mese, era il primo segnale invisibile
ma certo che di lì a poco, a casa nostra ci sarebbe stata una grande
festa. La più bella festa dell'anno.

Lo sposalizio della volpe.


Nell'episodio "Raggi di sole nella pioggia" del film celeberrimo "SOGNI" di Akira Kurosawa, una donna raccomanda a un bambino di non uscire di casa: sta piovendo mentre splende il sole e, come narra un'antica leggenda, è il momento in cui i demoni-volpe (le kitsune) preferiscono celebrare i loro matrimoni. 
Se le volpi lo scoprissero a spiarle si arrabbierebbero molto. 
Il bambino, disobbedendo agli ordini della donna, esce di casa e si addentra nel bosco, dove assiste alla processione delle volpi. 
Quando torna a casa la donna dice al bambino che una volpe arrabbiata le ha portato un pugnale tantō, con il quale il bambino dovrà uccidersi per aver assistito alla cerimonia. 
La donna ordina al bambino di andare dalle volpi a chiedere scusa ma difficilmente sarà perdonato. 
Il piccolo s'incammina con il pugnale in mano, verso la base dell'arcobaleno, in cerca della casa delle volpi.

Ho scoperto una incredibile analogia tra il grande cinema del Maestro giapponese e le credenze del mio paese. Anche da noi a Coreno Ausonio (FR) quando piove col sole e si vede l'arcobaleno si dice: "SE STA A SPOSA LA VORBE!"
Ma nessuno ci costringeva a suicidarci. :-)


https://www.youtube.com/watch?v=UGyrdfXVOlA

IL BAGOLARO



Metto qui il raccontino dedicato al Bagolaro, contenuto nel mio libro
''STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI''.

Ottobre, al mio paese, è da sempre anche il mese del bagolaro
maturo. Un piccolo, trascurabile frutto tondo che, da quando nasce a
quando è maturo, diventa di tutti i colori: bianco, giallo, verde, rosso,
marrone, infine (quasi) nero. 50 sfumature di colori, tutti naturali e
bellissimi, altro che ...di grigio! Ha poca polpa (peccato!) e un
ossicino al centro, ma è dolcissimo. Sa di un misto di carrube,
giuggiole e liquirizia. Qualcuno dei miei piccoli amici con cui facevo
le scorribande lo schiacciava tra due pietre e lo mangiava con tutto
l'osso, praticamente disintegrato dalla sassata. Oggi i bagolari non li
cerca più nessuno, nemmeno gli uccelli. Gli addetti della forestale li
piantano come alberi ornamentali e per fare fresco sui marciapiedi:
hanno una grande chioma verde e possono raggiungere i 15 metri di
altezza. E mio figlio, quando l'altro giorno insieme ci siamo passati
accanto passeggiando, non era minimamente interessato a conoscere
i miei piccoli, trascurabili aneddoti sul bagolaro e sulla mia
fanciullezza. Ahimè!



domenica 23 novembre 2014

Metto qui un ampio brano della presentazione al mio libro 

LE STAGIONI DELLA LATTAIA



Presentazione

Vivo in un paese brutto. Brutto, perché maltenuto; brutto, perché cresciuto disordinatamente - senza armonia; brutto, perché disseminato di case senza facciata; brutto, perché zeppo di stabili fatiscenti coi muri crepati.
E’ un vero peccato! Perché di sicuro non è stato sempre così. Un difetto di senso estetico, poco meno che generale, l’ha reso brutto; il disinteresse, l’egoismo e la sciatteria, di chi lo ha amministrato per anni e della sua gente, hanno fatto il resto.
Io penso che alla sua nascita - mille anni fa - fosse molto diverso da com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore. E, a suo modo, doveva pure essere bello. Posso immaginare com’era - senza sforzo. Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono sul sofà con gli artigli ficcati nello schienale. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali. Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale. Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta. Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante.
D’accordo, quel paese era povero. Ma non lo nascondeva. Era essenziale e dimesso. Ma almeno aveva un bel colpo d’occhio omogeneo. Costituiva uno scenario prezioso, da preservare per la sua tipicità. E’ un vero peccato che sia stato rovinato, devastato dopo. E’ successo tutto negli ultimi cinquant'anni. E ci fosse stata almeno una buona ragione per mandarlo in malora; ci fosse stato almeno qualcosa da predare, qualcosa di cui arricchirsi dallo scempio. Sarebbe stato uno dei tanti sacchi scellerati, come ce ne sono stati molti nel secolo appena trascorso. Come, purtroppo, ce ne saranno tanti altri, in questo nuovo secolo.
Tutti causati dall’ignoranza, dalla negligenza, dall’incuria, dalla ottusità degli uomini. 



venerdì 21 novembre 2014

Vivere e morire in paese.

metto qui un ampio brano tratto dal mio secondo libro della trilogia paesologica di coreno:

STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI.



In un paese piccolo, piccolo come il mio, che non fa nemmeno 1700 abitanti, ogni anno muore almeno l'un per cento della popolazione: 15/17 persone, se va bene, cioè se ne muoiono pochi. Perché, se va male, nel senso che quell'anno ne moriranno molti, allora possono morire anche il doppio: cioè una buona trentina. Vivere in un paese piccolo come il mio è come vivere in tempo di guerra, come vivere durante la guerra, anzi in una guerra che si sta ancora combattendo, che si combatte ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Una guerra lunga e interminabile che, ogni quindici giorni, o quasi, annuncia un suo caduto; aggiorna il conteggio dei suoi morti; conta i suoi caduti totali. Se vivi in un paese piccolo, non sei affatto un cittadino sereno che fa una vita serena, tranquilla, come molti pensano che sia la vita in paese e come, alla fine, meriteresti pure di fare, avendo scelto di vivere in paese piccolo, brutto e dimenticato da Dio e dagli altri uomini. In una città è tutto diverso, penso; ma è diverso specialmente il rapporto con la morte, ne sono certo. Quello che stava seduto al tuo fianco quella mattina in metropolitana e con cui hai scambiato due chiacchiere sul tempo, è morto una settimana dopo, o lo stesso giorno, ma tu non lo sai e non lo verrai mai a sapere; non lo conoscevi e, quando è sceso, eri già pronto a non vederlo più, a non incontrarlo mai più. E non lo vedi più, nemmeno se resta in vita. Quindi è come se fosse morto. E se pure lo dovessi rivedere non lo riconosceresti ed è come se lo avessi visto per la prima volta. Quello che stava davanti a te in fila al supermercato, a cui hai tamponato il carrello, nemmeno lo conoscevi, magari uscendo è stato investito da un'auto o ha avuto un infarto o s'è buttato sotto un treno in corsa, ma tu non lo conoscevi e non lo sai che è morto. E non t'interessa di saperlo. Non ti informi. In un paese piccolo potrebbe non interessarti chi vive e chi muore, nemmeno se non frequentavi il defunto, ma invece ti interessa, deve interessarti per forza, non dipendesse dal semplice fatto che in modo o in un altro vieni a sapere che uno è morto e che fanno i funerali in piazza, e il paese è la piazza; quindi sai che è morto qualcuno, sai chi è morto e sai che lo conoscevi, per forza. La tua vita in paese, quindi pare tranquilla, ma non lo è. E' piena di preoccupazione: chi sarà il prossimo? Toccati! Potresti essere tu. La tua vita in paese assomiglia a quella di un soldato. Ricordate il soldato di Ungaretti? "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie." Ecco in paese si sta così, si vive così. Se, invece che in una città, vivi in paese piccolo, sei come una foglia sul ramo, e non solo d'autunno; sei come un soldato, per tutto l'anno. Anzi sei come un soldato appostato in trincea per tutto l'anno e ogni tanto ti arriva la notizia che è morto qualcuno: Giuseppe, e poi che è morto pure Paolo, e poi anche Carlo e qualche giorno dopo se n'è andato anche Lucio e che l'altra settimana, quel brutto male s'era portato Tommaso e che prima di loro, dall'inizio dell'anno, s'era portati Alessandro, Antonietta, Filippo e Maria e Luigia e .... Tutta gente che conoscevi: amici, conoscenti, parenti, affini, coetanei, vicini di casa, vecchi compagni di scuola o di giochi, insomma i tuoi compaesani ...i tuoi commilitoni. Poi dopo che ti hanno detto: lo sai chi è morto? E' morto Tizio; hai realizzato chi era; ti sei ricordato il suo volto; e ti ricordi pure che l'hai incontrato due giorni prima e magari ci avevi pure parlato, devi convincerti che non lo rivedrai più, mai più. Da quel momento in poi puoi solo sperare d'incontrarlo in Paradiso. Intanto, però, vai a far visita a casa, saluti i parenti, li baci li abbracci e gli stringi la mano, torni a casa; ti vai a preparare per andare al rito funebre e per accompagnarlo al cimitero, il giorno dopo. Se ti era amico lo fai con partecipazione e convinzione e commozione; se non era un amico, ma un semplice conoscente, ci vai lo stesso sennò non ti vedono e può sembrare un'offesa; se, peggio ancora, ti stava sul cazzo, vale la regola del parce sepulto: al funerale devi partecipare lo stesso; metti da parte le incomprensioni e le liti pregresse, le antipatie, e le quintalate di screzi e, in nome della carità cristiana che si deve almeno ai defunti, vai al cimitero, magari facendo anche una faccia triste, contrita, il più possibile adatta all'occasione ferale di cui non ti importa niente. Quel gesto penoso di accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio ormai pare sia rimasto l'unico momento in cui, nei piccoli paesi, si esalta ancora un  senso di umana partecipazione alla comunità, un sentimento d'amore, di compassione e di mutualità verso il tuo prossimo evangelico, che tra i vivi e i vivi non esiste più; si sostanzia ormai solo nei rapporti tra i vivi e i... morti. E si, perché la vita nei piccoli paesi non è più quella di prima. E non sto parlando di secoli fa. Sto parlando di soli trenta, quarant'anni fa. Non bisogna andare molto indietro per capire che quella vita non esiste più e con essa non esistono più certi valori, certi sentimenti, certe necessità, certi usi e abitudini che la rendevano peculiare, piacevole, o almeno più sopportabile e, comunque, migliore di quella attuale. Quarant'anni fa la morte di un vecchio era peggio della morte di un bambino, di un giovane o una persona di mezza età: la morte di un vecchio era una vera tragedia comunitaria; era la fine di una lunga storia di vita; era come veder abbattuta una vecchia quercia o un ulivo secolare; era come veder crollare un monumento antico o un palazzo nobiliare per un terremoto disastroso; come vedere distrutto un pezzo d'arte prezioso o un'insostituibile porzione della società. Perché i vecchi erano tenuti in altissima considerazione: per l'aiuto che avrebbero potuto ancora dare in consigli, per i loro ricordi, per la memoria dei fatti, delle storie antiche, dei posti, delle persone. E non solo dalla loro famiglia, ma dall'intera società. Oggi quando muore un vecchio sembra che ci siamo tolti un problema, un peso, un impiccio, un dente cariato. E, per giunta, non avremo più badanti per casa che parlano lingue strane: altro sollievo! "Tanto era vecchio!" si dice e di lui, ne la famiglia ne la società, rimpiangeranno niente. Nemmeno la pensione, intascata intera dalla ingombrante e indiscreta badante rumena. Oggi in paese non muoiono più tanti piccoli. Prima ne morivano di più: ed erano tragedie strazianti, che segavano le ginocchia alla comunità. Il morale dei paesani si risollevava a fatica solo dopo molte settimane. Nel cimitero del mio paese c'è una sezione dedicata alle bare bianche. Sono anni, forse decenni, che non muore più un bambino. Per fortuna. La medicina ha fatto enormi progressi. Le malattie infantili non sono più mortali (da noi) e possono essere diagnosticate precocemente, alcune tra le più gravi anche prima della nascita. La vita si è allungata, e i bambini, che sono sfuggiti alla morte precoce,  diventeranno adolescenti, poi giovani, poi adulti e forse vecchi. E quando saranno diventati grandi e avranno messo su famiglia si ammaleranno e moriranno più tardi, magari di cancro, di cuore o di diabete, ma potranno almeno dire di essere venuti al mondo e di aver vissuto qualche decennio. A pensarci bene una persona che vive fino a 80 anni, che può essere considerata una bella età ma non certo un'età veneranda, ha vissuto solo 960 mesi, circa 28.800 giorni, più o meno 700.000 ore. A pensarci bene mica poi così tanto! Ma, sapete una cosa? Vivere e morire in paese, non è poi così diverso che vivere e morire in qualsiasi altro posto del mondo. 

lunedì 17 novembre 2014


Metto qui una parte della introduzione al mio saggio sul grande cinema di Ingmar Bergman:
"IL GENIO DI UPPSALA - Il grande cinema di Ingmar Ernst Bergman spiegato a chi lo ignora"




Presentazione

La ragione, direi anzi la necessità, che ha costituito la scaturigine primordiale di questo libro, deriva dalla volontà di sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni che da molto, troppo tempo accompagnano il cinema di Ingmar Bergman.
L'autore non ritiene accettabile, infatti, la posizione di rifiuto - quasi pregiudiziale - che molte persone (anche alcune di quelle che si auto- definiscono colte) assumono davanti alla pachidermica filmografia di Bergman, accampando come giustificazione, assai generica e frettolosa, la ragione secondo la quale i suoi film, sovente e tranne qualche rara eccezione, siano tristi, difficili da capire, noiosi, se non addirittura pericolosa causa di depressione psichica.
Ritengo, quindi, partendo dal semplice assunto che tutti noi finiamo per amare solo ciò che conosciamo, rifuggendo di conseguenza, da tutto ciò che ci è ignoto, sia importante divulgare, spiegandolo a chi lo ignora (appunto), il grande cinema di Bergman, e che la diffusione e la conoscenza siano un ottimo viatico alla piena e profonda comprensione delle tematiche in esso contenute.
Sicuro che - come mi piace dire - un mondo popolato da un gran numero di bergmaniani sarebbe certamente un mondo migliore di quello sul quale viviamo.

domenica 16 novembre 2014

Metto qui, a beneficio di chi volesse leggerlo, un brano dal mio libro: 
CRONACHE DAL PICCOLO BORGO DELLA PIETRA MILLENARIA.





Quando i paesi erano una grande famiglia.
Tra le tante, almeno due sono le condizioni sufficienti che si richiedono a un paese per continuare a funzionare - non dico bene, ma almeno decentemente - e, quindi, per sopravvivere: la Mutualità e la Cooperazione tra i paesani. Non sono ammesse eccezioni, né condizioni, specie se il paese è piccolo. Piccolo come il mio. Anzi, più il paese è piccolo, più la mobilitazione dev'essere generale; allora tutti devono contribuire: socialmente, economicamente, culturalmente. Tutti devono fare la loro parte. E anche di più. Altrimenti il sistema non funziona. E, il sistema non può funzionare altrimenti. Anticamente il paese era come una grande famiglia, pronta a fare fronte comune alle avversità e a combattere, paesani uniti tutti assieme, qualsiasi forma di invasione, qualsiasi forma di minaccia alla sua sussistenza, alla sua prosecuzione. Che fossero: la povertà, la miseria, i briganti, le angherie e i soprusi dei potenti, le guerre, le carestie, gli eventi atmosferici catastrofici, le epidemie o i terremoti disastrosi. Non importava. C'era mobilitazione generale perfino per il crollo di una macera che doveva essere tirata su in breve tempo: "gliu varu s'è spallathu!" Era il grido d'allarme che si levava tra i monti. O per un grosso animale caduto in un dirupo e da recuperare, vivo o morto. O, ancora per un covone di fieno stagionato andato improvvisamente a fuoco: allora si urlava e si portava acqua nei secchi: "gliu metale s'è appicciathu"!". Come dice pure il poeta Quirino, in una sua poesia paesologica: tutti accorrevano, come ad assistere un morto sul suo catafalco. Tutti accorrevano; tutti correvano in aiuto. Lui che per lavoro "aisa gli vari spallathi" o costruisce nuove "macere", il più classico, il più preistorico e il più nobile dei lavori paesologici, per ironia della sorte, cent'anni fa sarebbe stato disoccupato; oppure avrebbe avuto tanto lavoro, ma non retribuito, oppure retribuito malamente, magari solo da un parco pasto a fine giornata. Si faceva Pasqua per una zuppa di fagioli. Per non parlare, poi, dell'uso di tenere la chiave nella toppa, anche di notte: non c'era nessun rischio, non si correva nessun pericolo di essere derubati dai ladri: il poco che si aveva era considerato bene comunitario, era nel possesso del singolo, ma nella disponibilità comune; chi avrebbe potuto o voluto depredarlo? I sistemi-paese hanno funzionato, anche in periodi nei quali le condizioni economiche, sociali e culturali erano molto meno favorevoli e fiorenti di quelle attuali (crisi a parte), perché tra i cittadini c'era un patto non scritto di comportamento; una specie di regola non vergata, di consuetudine antica, di uso ancestrale, secondo il quale, in caso di necessità (che, poi, era la condizione abituale, quotidiana) ci si doveva aiutare vicendevolmente e cooperare per il benessere collettivo, per il bene della intera comunità, della comunità intera, nessuno escluso. specie i più deboli e disperati. Il bene supremo, da tutelare e da rispettare. Magari, anche mettendo da parte l'interesse personale. Il Bene Comune, insomma, non era solamente uno slogan elettorale. Tutti avevano aderito a questa condizione. Tutti avevano aderito ed erano fedeli a questo patto. Se non fosse stato così gli artigiani, gli operai, i commercianti, i (pochi) professionisti, non avrebbero potuto rendere floride le loro attività, tirare su le loro famiglie, contribuire economicamente alla crescita dell'intera comunità. Oggi, tranne rare eccezioni tra vicini, la Mutualità e la Cooperazione non sopravvivono quasi più, e il paese sta morendo. E nessuno si stringe più al suo capezzale. Nessuno più sta al capezzale del morto: nessuno più sa nemmeno chi è il morto da piangere. Anzi, nessuno sembra addirittura accorgersi che qualcuno è moribondo o morto. Ci sarà' pure un motivo se all'inizio del secolo scorso la popolazione era di 2500 abitanti e dopo un secolo. Oggi li vedi, tronfi e impettiti e sazi, mentre si aggirano per il loro paese che puzza di morte, i paesani. Sembra che tutti siano autosufficienti; tutti si bastano; tutti possono fare a meno di tutti gli altri. Ma, qualcuno ci aveva avvertiti: la solidarietà, la fratellanza e la modestia sono le ragione di vita dei deboli; la solitudine, l'ignoranza e la supponenza sono le debolezze dei forti. Oggi c'è in giro troppa gente che confonde la modernità col progresso, la furbizia con l'intelligenza, il ritorno alla terra col ritorno alla clava, il potere con l'esercizio della cosa pubblica, l'apparire con l'essere, gli strumenti con il fine, et alia. Ma L'intelligenza e cosa diversa dalla furbizia. L'intelligenza è vivida; la furbizia è ...livida! 

sabato 15 novembre 2014

Vivere e morire in paese

Metto qui uno stralcio dal mio libro STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI, che e' tanto piaciuto a Tonino Ruggiero dell'Associazione Penelope (e anche a me)



"In un paese piccolo, piccolo come il mio, che non fa nemmeno 1700 abitanti, ogni anno muore almeno l'un per cento della popolazione: 15/17 persone, se va bene, cioè se ne muoiono pochi. Perché, se va male, nel senso che quell'anno ne moriranno molti, allora possono morire anche il doppio: cioè una buona trentina. Vivere in un paese piccolo come il mio è come vivere in tempo di guerra, come vivere durante la guerra, anzi in una guerra che si sta ancora combattendo, che si combatte ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Una guerra lunga e interminabile che, ogni quindici giorni, o quasi, annuncia un suo caduto; aggiorna il conteggio dei suoi morti; conta i suoi caduti totali. Se vivi in un paese piccolo, non sei affatto un cittadino sereno che fa una vita serena, tranquilla, come molti pensano che sia la vita in paese e come, alla fine, meriteresti pure di fare, avendo scelto di vivere in paese piccolo, brutto e dimenticato da Dio e dagli altri uomini. In una città è tutto diverso, penso; ma è diverso specialmente il rapporto con la morte, ne sono certo. Quello che stava seduto al tuo fianco quella mattina in metropolitana e con cui hai scambiato due chiacchiere sul tempo, è morto una settimana dopo, o lo stesso giorno, ma tu non lo sai e non lo verrai mai a sapere; non lo conoscevi e, quando è sceso, eri già pronto a non vederlo più, a non incontrarlo mai più. E non lo vedi più, nemmeno se resta in vita. Quindi è come se fosse morto. E se pure lo dovessi rivedere non lo riconosceresti ed è come se lo avessi visto per la prima volta. Quello che stava davanti a te in fila al supermercato, a cui hai tamponato il carrello, nemmeno lo conoscevi, magari uscendo è stato investito da un'auto o ha avuto un infarto o s'è buttato sotto un treno in corsa, ma tu non lo conoscevi e non lo sai che è morto. E non t'interessa di saperlo. Non ti informi. In un paese piccolo potrebbe non interessarti chi vive e chi muore, nemmeno se non frequentavi il defunto, ma invece ti interessa, deve interessarti per forza, non dipendesse dal semplice fatto che in modo o in un altro vieni a sapere che uno è morto e che fanno i funerali in piazza, e il paese è la piazza; quindi sai che è morto qualcuno, sai chi è morto e sai che lo conoscevi, per forza. La tua vita in paese, quindi pare tranquilla, ma non lo è. E' piena di preoccupazione: chi sarà il prossimo? Toccati! Potresti essere tu. La tua vita in paese assomiglia a quella di un soldato. Ricordate il soldato di Ungaretti? "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie." Ecco in paese si sta così, si vive così. Se, invece che in una città, vivi in paese piccolo, sei come una foglia sul ramo, e non solo d'autunno; sei come un soldato, per tutto l'anno. Anzi sei come un soldato appostato in trincea per tutto l'anno e ogni tanto ti arriva la notizia che è morto qualcuno: Giuseppe, e poi che è morto pure Paolo, e poi anche Carlo e qualche giorno dopo se n'è andato anche Lucio e che l'altra settimana, quel brutto male s'era portato Tommaso e che prima di loro, dall'inizio dell'anno, s'era portati Alessandro, Antonietta, Filippo e Maria e Luigia e .... Tutta gente che conoscevi: amici, conoscenti, parenti, affini, coetanei, vicini di casa, vecchi compagni di scuola o di giochi, insomma i tuoi compaesani ...i tuoi commilitoni. Poi dopo che ti hanno detto: lo sai chi è morto? E' morto Tizio; hai realizzato chi era; ti sei ricordato il suo volto; e ti ricordi pure che l'hai incontrato due giorni prima e magari ci avevi pure parlato, devi convincerti che non lo rivedrai più, mai più. Da quel momento in poi puoi solo sperare d'incontrarlo in Paradiso. Intanto, però, vai a far visita a casa, saluti i parenti, li baci li abbracci e gli stringi la mano, torni a casa; ti vai a preparare per andare al rito funebre e per accompagnarlo al cimitero, il giorno dopo. Se ti era amico lo fai con partecipazione e convinzione e commozione; se non era un amico, ma un semplice conoscente, ci vai lo stesso sennò non ti vedono e può sembrare un'offesa; se, peggio ancora, ti stava sul cazzo, vale la regola del parce sepulto: al funerale devi partecipare lo stesso; metti da parte le incomprensioni e le liti pregresse, le antipatie, e le quintalate di screzi e, in nome della carità cristiana che si deve almeno ai defunti, vai al cimitero, magari facendo anche una faccia triste, contrita, il più possibile adatta all'occasione ferale di cui non ti importa niente. Quel gesto penoso di accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio ormai pare sia rimasto l'unico momento in cui, nei piccoli paesi, si esalta ancora un senso di umana partecipazione alla comunità, un sentimento d'amore, di compassione e di mutualità verso il tuo prossimo evangelico, che tra i vivi e i vivi non esiste più; si sostanzia ormai solo nei rapporti tra i vivi e i... morti. E si, perché la vita nei piccoli paesi non è più quella di prima. E non sto parlando di secoli fa. Sto parlando di soli trenta, quarant'anni fa. Non bisogna andare molto indietro per capire che quella vita non esiste più e con essa non esistono più certi valori, certi sentimenti, certe necessità, certi usi e abitudini che la rendevano peculiare, piacevole, o almeno più sopportabile e, comunque, migliore di quella attuale. Quarant'anni fa la morte di un vecchio era peggio della morte di un bambino, di un giovane o una persona di mezza età: la morte di un vecchio era una vera tragedia comunitaria; era la fine di una lunga storia di vita; era come veder abbattuta una vecchia quercia o un ulivo secolare; era come veder crollare un monumento antico o un palazzo nobiliare per un terremoto disastroso; come vedere distrutto un pezzo d'arte prezioso o un'insostituibile porzione della società. Perché i vecchi erano tenuti in altissima considerazione: per l'aiuto che avrebbero potuto ancora dare in consigli, per i loro ricordi, per la memoria dei fatti, delle storie antiche, dei posti, delle persone. E non solo dalla loro famiglia, ma dall'intera società. Oggi quando muore un vecchio sembra che ci siamo tolti un problema, un peso, un impiccio, un dente cariato. E, per giunta, non avremo più badanti per casa che parlano lingue strane: altro sollievo! "Tanto era vecchio!" si dice e di lui, ne la famiglia ne la società, rimpiangeranno niente. Nemmeno la pensione, intascata intera dalla ingombrante e indiscreta badante rumena. Oggi in paese non muoiono più tanti piccoli. Prima ne morivano di più: ed erano tragedie strazianti, che segavano le ginocchia alla comunità. Il morale dei paesani si risollevava a fatica solo dopo molte settimane. Nel cimitero del mio paese c'è una sezione dedicata alle bare bianche. Sono anni, forse decenni, che non muore più un bambino. Per fortuna. La medicina ha fatto enormi progressi. Le malattie infantili non sono più mortali (da noi) e possono essere diagnosticate precocemente, alcune tra le più gravi anche prima della nascita. La vita si è allungata, e i bambini, che sono sfuggiti alla morte precoce, diventeranno adolescenti, poi giovani, poi adulti e forse vecchi. E quando saranno diventati grandi e avranno messo su famiglia si ammaleranno e moriranno più tardi, magari di cancro, di cuore o di diabete, ma potranno almeno dire di essere venuti al mondo e di aver vissuto qualche decennio. A pensarci bene una persona che vive fino a 80 anni, che può essere considerata una bella età ma non certo un'età veneranda, ha vissuto solo 960 mesi, circa 28.800 giorni, più o meno 700.000 ore. A pensarci bene mica poi così tanto! Ma, sapete una cosa? Vivere e morire in paese, non è poi così diverso che vivere e morire in qualsiasi altro posto del mondo."