domenica 23 novembre 2014

Metto qui un ampio brano della presentazione al mio libro 

LE STAGIONI DELLA LATTAIA



Presentazione

Vivo in un paese brutto. Brutto, perché maltenuto; brutto, perché cresciuto disordinatamente - senza armonia; brutto, perché disseminato di case senza facciata; brutto, perché zeppo di stabili fatiscenti coi muri crepati.
E’ un vero peccato! Perché di sicuro non è stato sempre così. Un difetto di senso estetico, poco meno che generale, l’ha reso brutto; il disinteresse, l’egoismo e la sciatteria, di chi lo ha amministrato per anni e della sua gente, hanno fatto il resto.
Io penso che alla sua nascita - mille anni fa - fosse molto diverso da com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore. E, a suo modo, doveva pure essere bello. Posso immaginare com’era - senza sforzo. Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono sul sofà con gli artigli ficcati nello schienale. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali. Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale. Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta. Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante.
D’accordo, quel paese era povero. Ma non lo nascondeva. Era essenziale e dimesso. Ma almeno aveva un bel colpo d’occhio omogeneo. Costituiva uno scenario prezioso, da preservare per la sua tipicità. E’ un vero peccato che sia stato rovinato, devastato dopo. E’ successo tutto negli ultimi cinquant'anni. E ci fosse stata almeno una buona ragione per mandarlo in malora; ci fosse stato almeno qualcosa da predare, qualcosa di cui arricchirsi dallo scempio. Sarebbe stato uno dei tanti sacchi scellerati, come ce ne sono stati molti nel secolo appena trascorso. Come, purtroppo, ce ne saranno tanti altri, in questo nuovo secolo.
Tutti causati dall’ignoranza, dalla negligenza, dall’incuria, dalla ottusità degli uomini. 



venerdì 21 novembre 2014

Vivere e morire in paese.

metto qui un ampio brano tratto dal mio secondo libro della trilogia paesologica di coreno:

STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI.



In un paese piccolo, piccolo come il mio, che non fa nemmeno 1700 abitanti, ogni anno muore almeno l'un per cento della popolazione: 15/17 persone, se va bene, cioè se ne muoiono pochi. Perché, se va male, nel senso che quell'anno ne moriranno molti, allora possono morire anche il doppio: cioè una buona trentina. Vivere in un paese piccolo come il mio è come vivere in tempo di guerra, come vivere durante la guerra, anzi in una guerra che si sta ancora combattendo, che si combatte ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Una guerra lunga e interminabile che, ogni quindici giorni, o quasi, annuncia un suo caduto; aggiorna il conteggio dei suoi morti; conta i suoi caduti totali. Se vivi in un paese piccolo, non sei affatto un cittadino sereno che fa una vita serena, tranquilla, come molti pensano che sia la vita in paese e come, alla fine, meriteresti pure di fare, avendo scelto di vivere in paese piccolo, brutto e dimenticato da Dio e dagli altri uomini. In una città è tutto diverso, penso; ma è diverso specialmente il rapporto con la morte, ne sono certo. Quello che stava seduto al tuo fianco quella mattina in metropolitana e con cui hai scambiato due chiacchiere sul tempo, è morto una settimana dopo, o lo stesso giorno, ma tu non lo sai e non lo verrai mai a sapere; non lo conoscevi e, quando è sceso, eri già pronto a non vederlo più, a non incontrarlo mai più. E non lo vedi più, nemmeno se resta in vita. Quindi è come se fosse morto. E se pure lo dovessi rivedere non lo riconosceresti ed è come se lo avessi visto per la prima volta. Quello che stava davanti a te in fila al supermercato, a cui hai tamponato il carrello, nemmeno lo conoscevi, magari uscendo è stato investito da un'auto o ha avuto un infarto o s'è buttato sotto un treno in corsa, ma tu non lo conoscevi e non lo sai che è morto. E non t'interessa di saperlo. Non ti informi. In un paese piccolo potrebbe non interessarti chi vive e chi muore, nemmeno se non frequentavi il defunto, ma invece ti interessa, deve interessarti per forza, non dipendesse dal semplice fatto che in modo o in un altro vieni a sapere che uno è morto e che fanno i funerali in piazza, e il paese è la piazza; quindi sai che è morto qualcuno, sai chi è morto e sai che lo conoscevi, per forza. La tua vita in paese, quindi pare tranquilla, ma non lo è. E' piena di preoccupazione: chi sarà il prossimo? Toccati! Potresti essere tu. La tua vita in paese assomiglia a quella di un soldato. Ricordate il soldato di Ungaretti? "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie." Ecco in paese si sta così, si vive così. Se, invece che in una città, vivi in paese piccolo, sei come una foglia sul ramo, e non solo d'autunno; sei come un soldato, per tutto l'anno. Anzi sei come un soldato appostato in trincea per tutto l'anno e ogni tanto ti arriva la notizia che è morto qualcuno: Giuseppe, e poi che è morto pure Paolo, e poi anche Carlo e qualche giorno dopo se n'è andato anche Lucio e che l'altra settimana, quel brutto male s'era portato Tommaso e che prima di loro, dall'inizio dell'anno, s'era portati Alessandro, Antonietta, Filippo e Maria e Luigia e .... Tutta gente che conoscevi: amici, conoscenti, parenti, affini, coetanei, vicini di casa, vecchi compagni di scuola o di giochi, insomma i tuoi compaesani ...i tuoi commilitoni. Poi dopo che ti hanno detto: lo sai chi è morto? E' morto Tizio; hai realizzato chi era; ti sei ricordato il suo volto; e ti ricordi pure che l'hai incontrato due giorni prima e magari ci avevi pure parlato, devi convincerti che non lo rivedrai più, mai più. Da quel momento in poi puoi solo sperare d'incontrarlo in Paradiso. Intanto, però, vai a far visita a casa, saluti i parenti, li baci li abbracci e gli stringi la mano, torni a casa; ti vai a preparare per andare al rito funebre e per accompagnarlo al cimitero, il giorno dopo. Se ti era amico lo fai con partecipazione e convinzione e commozione; se non era un amico, ma un semplice conoscente, ci vai lo stesso sennò non ti vedono e può sembrare un'offesa; se, peggio ancora, ti stava sul cazzo, vale la regola del parce sepulto: al funerale devi partecipare lo stesso; metti da parte le incomprensioni e le liti pregresse, le antipatie, e le quintalate di screzi e, in nome della carità cristiana che si deve almeno ai defunti, vai al cimitero, magari facendo anche una faccia triste, contrita, il più possibile adatta all'occasione ferale di cui non ti importa niente. Quel gesto penoso di accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio ormai pare sia rimasto l'unico momento in cui, nei piccoli paesi, si esalta ancora un  senso di umana partecipazione alla comunità, un sentimento d'amore, di compassione e di mutualità verso il tuo prossimo evangelico, che tra i vivi e i vivi non esiste più; si sostanzia ormai solo nei rapporti tra i vivi e i... morti. E si, perché la vita nei piccoli paesi non è più quella di prima. E non sto parlando di secoli fa. Sto parlando di soli trenta, quarant'anni fa. Non bisogna andare molto indietro per capire che quella vita non esiste più e con essa non esistono più certi valori, certi sentimenti, certe necessità, certi usi e abitudini che la rendevano peculiare, piacevole, o almeno più sopportabile e, comunque, migliore di quella attuale. Quarant'anni fa la morte di un vecchio era peggio della morte di un bambino, di un giovane o una persona di mezza età: la morte di un vecchio era una vera tragedia comunitaria; era la fine di una lunga storia di vita; era come veder abbattuta una vecchia quercia o un ulivo secolare; era come veder crollare un monumento antico o un palazzo nobiliare per un terremoto disastroso; come vedere distrutto un pezzo d'arte prezioso o un'insostituibile porzione della società. Perché i vecchi erano tenuti in altissima considerazione: per l'aiuto che avrebbero potuto ancora dare in consigli, per i loro ricordi, per la memoria dei fatti, delle storie antiche, dei posti, delle persone. E non solo dalla loro famiglia, ma dall'intera società. Oggi quando muore un vecchio sembra che ci siamo tolti un problema, un peso, un impiccio, un dente cariato. E, per giunta, non avremo più badanti per casa che parlano lingue strane: altro sollievo! "Tanto era vecchio!" si dice e di lui, ne la famiglia ne la società, rimpiangeranno niente. Nemmeno la pensione, intascata intera dalla ingombrante e indiscreta badante rumena. Oggi in paese non muoiono più tanti piccoli. Prima ne morivano di più: ed erano tragedie strazianti, che segavano le ginocchia alla comunità. Il morale dei paesani si risollevava a fatica solo dopo molte settimane. Nel cimitero del mio paese c'è una sezione dedicata alle bare bianche. Sono anni, forse decenni, che non muore più un bambino. Per fortuna. La medicina ha fatto enormi progressi. Le malattie infantili non sono più mortali (da noi) e possono essere diagnosticate precocemente, alcune tra le più gravi anche prima della nascita. La vita si è allungata, e i bambini, che sono sfuggiti alla morte precoce,  diventeranno adolescenti, poi giovani, poi adulti e forse vecchi. E quando saranno diventati grandi e avranno messo su famiglia si ammaleranno e moriranno più tardi, magari di cancro, di cuore o di diabete, ma potranno almeno dire di essere venuti al mondo e di aver vissuto qualche decennio. A pensarci bene una persona che vive fino a 80 anni, che può essere considerata una bella età ma non certo un'età veneranda, ha vissuto solo 960 mesi, circa 28.800 giorni, più o meno 700.000 ore. A pensarci bene mica poi così tanto! Ma, sapete una cosa? Vivere e morire in paese, non è poi così diverso che vivere e morire in qualsiasi altro posto del mondo. 

lunedì 17 novembre 2014


Metto qui una parte della introduzione al mio saggio sul grande cinema di Ingmar Bergman:
"IL GENIO DI UPPSALA - Il grande cinema di Ingmar Ernst Bergman spiegato a chi lo ignora"




Presentazione

La ragione, direi anzi la necessità, che ha costituito la scaturigine primordiale di questo libro, deriva dalla volontà di sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni che da molto, troppo tempo accompagnano il cinema di Ingmar Bergman.
L'autore non ritiene accettabile, infatti, la posizione di rifiuto - quasi pregiudiziale - che molte persone (anche alcune di quelle che si auto- definiscono colte) assumono davanti alla pachidermica filmografia di Bergman, accampando come giustificazione, assai generica e frettolosa, la ragione secondo la quale i suoi film, sovente e tranne qualche rara eccezione, siano tristi, difficili da capire, noiosi, se non addirittura pericolosa causa di depressione psichica.
Ritengo, quindi, partendo dal semplice assunto che tutti noi finiamo per amare solo ciò che conosciamo, rifuggendo di conseguenza, da tutto ciò che ci è ignoto, sia importante divulgare, spiegandolo a chi lo ignora (appunto), il grande cinema di Bergman, e che la diffusione e la conoscenza siano un ottimo viatico alla piena e profonda comprensione delle tematiche in esso contenute.
Sicuro che - come mi piace dire - un mondo popolato da un gran numero di bergmaniani sarebbe certamente un mondo migliore di quello sul quale viviamo.

domenica 16 novembre 2014

Metto qui, a beneficio di chi volesse leggerlo, un brano dal mio libro: 
CRONACHE DAL PICCOLO BORGO DELLA PIETRA MILLENARIA.





Quando i paesi erano una grande famiglia.
Tra le tante, almeno due sono le condizioni sufficienti che si richiedono a un paese per continuare a funzionare - non dico bene, ma almeno decentemente - e, quindi, per sopravvivere: la Mutualità e la Cooperazione tra i paesani. Non sono ammesse eccezioni, né condizioni, specie se il paese è piccolo. Piccolo come il mio. Anzi, più il paese è piccolo, più la mobilitazione dev'essere generale; allora tutti devono contribuire: socialmente, economicamente, culturalmente. Tutti devono fare la loro parte. E anche di più. Altrimenti il sistema non funziona. E, il sistema non può funzionare altrimenti. Anticamente il paese era come una grande famiglia, pronta a fare fronte comune alle avversità e a combattere, paesani uniti tutti assieme, qualsiasi forma di invasione, qualsiasi forma di minaccia alla sua sussistenza, alla sua prosecuzione. Che fossero: la povertà, la miseria, i briganti, le angherie e i soprusi dei potenti, le guerre, le carestie, gli eventi atmosferici catastrofici, le epidemie o i terremoti disastrosi. Non importava. C'era mobilitazione generale perfino per il crollo di una macera che doveva essere tirata su in breve tempo: "gliu varu s'è spallathu!" Era il grido d'allarme che si levava tra i monti. O per un grosso animale caduto in un dirupo e da recuperare, vivo o morto. O, ancora per un covone di fieno stagionato andato improvvisamente a fuoco: allora si urlava e si portava acqua nei secchi: "gliu metale s'è appicciathu"!". Come dice pure il poeta Quirino, in una sua poesia paesologica: tutti accorrevano, come ad assistere un morto sul suo catafalco. Tutti accorrevano; tutti correvano in aiuto. Lui che per lavoro "aisa gli vari spallathi" o costruisce nuove "macere", il più classico, il più preistorico e il più nobile dei lavori paesologici, per ironia della sorte, cent'anni fa sarebbe stato disoccupato; oppure avrebbe avuto tanto lavoro, ma non retribuito, oppure retribuito malamente, magari solo da un parco pasto a fine giornata. Si faceva Pasqua per una zuppa di fagioli. Per non parlare, poi, dell'uso di tenere la chiave nella toppa, anche di notte: non c'era nessun rischio, non si correva nessun pericolo di essere derubati dai ladri: il poco che si aveva era considerato bene comunitario, era nel possesso del singolo, ma nella disponibilità comune; chi avrebbe potuto o voluto depredarlo? I sistemi-paese hanno funzionato, anche in periodi nei quali le condizioni economiche, sociali e culturali erano molto meno favorevoli e fiorenti di quelle attuali (crisi a parte), perché tra i cittadini c'era un patto non scritto di comportamento; una specie di regola non vergata, di consuetudine antica, di uso ancestrale, secondo il quale, in caso di necessità (che, poi, era la condizione abituale, quotidiana) ci si doveva aiutare vicendevolmente e cooperare per il benessere collettivo, per il bene della intera comunità, della comunità intera, nessuno escluso. specie i più deboli e disperati. Il bene supremo, da tutelare e da rispettare. Magari, anche mettendo da parte l'interesse personale. Il Bene Comune, insomma, non era solamente uno slogan elettorale. Tutti avevano aderito a questa condizione. Tutti avevano aderito ed erano fedeli a questo patto. Se non fosse stato così gli artigiani, gli operai, i commercianti, i (pochi) professionisti, non avrebbero potuto rendere floride le loro attività, tirare su le loro famiglie, contribuire economicamente alla crescita dell'intera comunità. Oggi, tranne rare eccezioni tra vicini, la Mutualità e la Cooperazione non sopravvivono quasi più, e il paese sta morendo. E nessuno si stringe più al suo capezzale. Nessuno più sta al capezzale del morto: nessuno più sa nemmeno chi è il morto da piangere. Anzi, nessuno sembra addirittura accorgersi che qualcuno è moribondo o morto. Ci sarà' pure un motivo se all'inizio del secolo scorso la popolazione era di 2500 abitanti e dopo un secolo. Oggi li vedi, tronfi e impettiti e sazi, mentre si aggirano per il loro paese che puzza di morte, i paesani. Sembra che tutti siano autosufficienti; tutti si bastano; tutti possono fare a meno di tutti gli altri. Ma, qualcuno ci aveva avvertiti: la solidarietà, la fratellanza e la modestia sono le ragione di vita dei deboli; la solitudine, l'ignoranza e la supponenza sono le debolezze dei forti. Oggi c'è in giro troppa gente che confonde la modernità col progresso, la furbizia con l'intelligenza, il ritorno alla terra col ritorno alla clava, il potere con l'esercizio della cosa pubblica, l'apparire con l'essere, gli strumenti con il fine, et alia. Ma L'intelligenza e cosa diversa dalla furbizia. L'intelligenza è vivida; la furbizia è ...livida! 

sabato 15 novembre 2014

Vivere e morire in paese

Metto qui uno stralcio dal mio libro STORIE DAL PAESE DEI CICLAMINI, che e' tanto piaciuto a Tonino Ruggiero dell'Associazione Penelope (e anche a me)



"In un paese piccolo, piccolo come il mio, che non fa nemmeno 1700 abitanti, ogni anno muore almeno l'un per cento della popolazione: 15/17 persone, se va bene, cioè se ne muoiono pochi. Perché, se va male, nel senso che quell'anno ne moriranno molti, allora possono morire anche il doppio: cioè una buona trentina. Vivere in un paese piccolo come il mio è come vivere in tempo di guerra, come vivere durante la guerra, anzi in una guerra che si sta ancora combattendo, che si combatte ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Una guerra lunga e interminabile che, ogni quindici giorni, o quasi, annuncia un suo caduto; aggiorna il conteggio dei suoi morti; conta i suoi caduti totali. Se vivi in un paese piccolo, non sei affatto un cittadino sereno che fa una vita serena, tranquilla, come molti pensano che sia la vita in paese e come, alla fine, meriteresti pure di fare, avendo scelto di vivere in paese piccolo, brutto e dimenticato da Dio e dagli altri uomini. In una città è tutto diverso, penso; ma è diverso specialmente il rapporto con la morte, ne sono certo. Quello che stava seduto al tuo fianco quella mattina in metropolitana e con cui hai scambiato due chiacchiere sul tempo, è morto una settimana dopo, o lo stesso giorno, ma tu non lo sai e non lo verrai mai a sapere; non lo conoscevi e, quando è sceso, eri già pronto a non vederlo più, a non incontrarlo mai più. E non lo vedi più, nemmeno se resta in vita. Quindi è come se fosse morto. E se pure lo dovessi rivedere non lo riconosceresti ed è come se lo avessi visto per la prima volta. Quello che stava davanti a te in fila al supermercato, a cui hai tamponato il carrello, nemmeno lo conoscevi, magari uscendo è stato investito da un'auto o ha avuto un infarto o s'è buttato sotto un treno in corsa, ma tu non lo conoscevi e non lo sai che è morto. E non t'interessa di saperlo. Non ti informi. In un paese piccolo potrebbe non interessarti chi vive e chi muore, nemmeno se non frequentavi il defunto, ma invece ti interessa, deve interessarti per forza, non dipendesse dal semplice fatto che in modo o in un altro vieni a sapere che uno è morto e che fanno i funerali in piazza, e il paese è la piazza; quindi sai che è morto qualcuno, sai chi è morto e sai che lo conoscevi, per forza. La tua vita in paese, quindi pare tranquilla, ma non lo è. E' piena di preoccupazione: chi sarà il prossimo? Toccati! Potresti essere tu. La tua vita in paese assomiglia a quella di un soldato. Ricordate il soldato di Ungaretti? "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie." Ecco in paese si sta così, si vive così. Se, invece che in una città, vivi in paese piccolo, sei come una foglia sul ramo, e non solo d'autunno; sei come un soldato, per tutto l'anno. Anzi sei come un soldato appostato in trincea per tutto l'anno e ogni tanto ti arriva la notizia che è morto qualcuno: Giuseppe, e poi che è morto pure Paolo, e poi anche Carlo e qualche giorno dopo se n'è andato anche Lucio e che l'altra settimana, quel brutto male s'era portato Tommaso e che prima di loro, dall'inizio dell'anno, s'era portati Alessandro, Antonietta, Filippo e Maria e Luigia e .... Tutta gente che conoscevi: amici, conoscenti, parenti, affini, coetanei, vicini di casa, vecchi compagni di scuola o di giochi, insomma i tuoi compaesani ...i tuoi commilitoni. Poi dopo che ti hanno detto: lo sai chi è morto? E' morto Tizio; hai realizzato chi era; ti sei ricordato il suo volto; e ti ricordi pure che l'hai incontrato due giorni prima e magari ci avevi pure parlato, devi convincerti che non lo rivedrai più, mai più. Da quel momento in poi puoi solo sperare d'incontrarlo in Paradiso. Intanto, però, vai a far visita a casa, saluti i parenti, li baci li abbracci e gli stringi la mano, torni a casa; ti vai a preparare per andare al rito funebre e per accompagnarlo al cimitero, il giorno dopo. Se ti era amico lo fai con partecipazione e convinzione e commozione; se non era un amico, ma un semplice conoscente, ci vai lo stesso sennò non ti vedono e può sembrare un'offesa; se, peggio ancora, ti stava sul cazzo, vale la regola del parce sepulto: al funerale devi partecipare lo stesso; metti da parte le incomprensioni e le liti pregresse, le antipatie, e le quintalate di screzi e, in nome della carità cristiana che si deve almeno ai defunti, vai al cimitero, magari facendo anche una faccia triste, contrita, il più possibile adatta all'occasione ferale di cui non ti importa niente. Quel gesto penoso di accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio ormai pare sia rimasto l'unico momento in cui, nei piccoli paesi, si esalta ancora un senso di umana partecipazione alla comunità, un sentimento d'amore, di compassione e di mutualità verso il tuo prossimo evangelico, che tra i vivi e i vivi non esiste più; si sostanzia ormai solo nei rapporti tra i vivi e i... morti. E si, perché la vita nei piccoli paesi non è più quella di prima. E non sto parlando di secoli fa. Sto parlando di soli trenta, quarant'anni fa. Non bisogna andare molto indietro per capire che quella vita non esiste più e con essa non esistono più certi valori, certi sentimenti, certe necessità, certi usi e abitudini che la rendevano peculiare, piacevole, o almeno più sopportabile e, comunque, migliore di quella attuale. Quarant'anni fa la morte di un vecchio era peggio della morte di un bambino, di un giovane o una persona di mezza età: la morte di un vecchio era una vera tragedia comunitaria; era la fine di una lunga storia di vita; era come veder abbattuta una vecchia quercia o un ulivo secolare; era come veder crollare un monumento antico o un palazzo nobiliare per un terremoto disastroso; come vedere distrutto un pezzo d'arte prezioso o un'insostituibile porzione della società. Perché i vecchi erano tenuti in altissima considerazione: per l'aiuto che avrebbero potuto ancora dare in consigli, per i loro ricordi, per la memoria dei fatti, delle storie antiche, dei posti, delle persone. E non solo dalla loro famiglia, ma dall'intera società. Oggi quando muore un vecchio sembra che ci siamo tolti un problema, un peso, un impiccio, un dente cariato. E, per giunta, non avremo più badanti per casa che parlano lingue strane: altro sollievo! "Tanto era vecchio!" si dice e di lui, ne la famiglia ne la società, rimpiangeranno niente. Nemmeno la pensione, intascata intera dalla ingombrante e indiscreta badante rumena. Oggi in paese non muoiono più tanti piccoli. Prima ne morivano di più: ed erano tragedie strazianti, che segavano le ginocchia alla comunità. Il morale dei paesani si risollevava a fatica solo dopo molte settimane. Nel cimitero del mio paese c'è una sezione dedicata alle bare bianche. Sono anni, forse decenni, che non muore più un bambino. Per fortuna. La medicina ha fatto enormi progressi. Le malattie infantili non sono più mortali (da noi) e possono essere diagnosticate precocemente, alcune tra le più gravi anche prima della nascita. La vita si è allungata, e i bambini, che sono sfuggiti alla morte precoce, diventeranno adolescenti, poi giovani, poi adulti e forse vecchi. E quando saranno diventati grandi e avranno messo su famiglia si ammaleranno e moriranno più tardi, magari di cancro, di cuore o di diabete, ma potranno almeno dire di essere venuti al mondo e di aver vissuto qualche decennio. A pensarci bene una persona che vive fino a 80 anni, che può essere considerata una bella età ma non certo un'età veneranda, ha vissuto solo 960 mesi, circa 28.800 giorni, più o meno 700.000 ore. A pensarci bene mica poi così tanto! Ma, sapete una cosa? Vivere e morire in paese, non è poi così diverso che vivere e morire in qualsiasi altro posto del mondo."

martedì 11 novembre 2014

La presentazione del mio ultimo saggio bergmaniano:

"LA FIGURA DEL PADRE NEL GRANDE CINEMA DI INGMAR BERGMAN"

Presentazione

Ingmar Bergman, per sua stessa ammissione, ha usato il suo cinema, la sua arte, i suoi film anche come normalissimo, prosaico strumento per raggiungere una fama globale imperitura e per assicurarsi, prima l'agiatezza economica, poi una vera ricchezza, che spesso gli sono mancate: si pensi, ad esempio, al suo disastroso inizio di carriera. Ed ha usato - anche di questo particolare veniamo a conoscenza per sua stessa ammissione - i film come vere e proprie sedute di auto-psicanalisi. Ha lavorato nel cinema trasmettendo agli attori - attraverso le sue sceneggiature e le sue riprese - le sue proprie angosce, le sue proprie paure, le sue proprie psicosi. Perché essi, interpretando i suoi personaggi, le trasmettessero allo spettatore. A noi.
Non ha mai fatto mistero di avere accumulato nel corso della sua infanzia problematiche psicologiche, derivanti dagli strani e complessi rapporti intrattenuti, suo malgrado, con la madre ma anche e soprattutto, col padre. A proposito di tale sofferto rapporto famigliare, egli stesso ammise: “Immagino che i più forti impulsi a girare Il posto delle fragole siano derivati proprio dal dissidio coi miei genitori. Io mi ritraevo nella figura di mio padre, cercando spiegazioni alle amare controversie con mia madre. Credevo di capire di essere stato un bambino non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi... fisica e psichica. Il diario di mia madre ha in seguito confermato questa mia impressione: mia madre era profondamente ambivalente nei suoi sentimenti verso il suo disgraziato, morente bambino1.”
Ingmar Bergman non ha mai evitato di parlare dei suoi personali problemi, magari preferendo trincerarsi dietro a più opportuni silenzi, oppure dietro al comodo paravento di strategiche omissioni o anche dietro a una artificiosa mancanza di chiarezza.
Ha lui stesso messo i suoi estimatori a parte dei piccoli o grandi segreti personali spesso sconvenienti e poco affascinanti, se non addirittura imbarazzanti.
Insomma, pur attribuendosi una buona dose di genialità artistica ed ammettendo l'indiscussa ed indiscutibile grandezza di alcune delle sue opere, non ha mai rifiutato il suo ruolo di uomo storico, pieno di difetti; di essere umano con luci e ombre; di persona in fondo normale, potenzialmente geniale, ma anche debole e fallibile.
Lui stesso ne ha parlato apertamente e scritto altrettanto chiaramente nelle sue varie autobiografie.
A modestissimo avviso dell'autore di questo saggio, anche in questo suo anticonvenzionale, originale ed estroso atteggiamento va ricercata una parte cospicua della sua grandezza.

E' noto, anche ai cultori più superficiali del cinema del grande maestro svedese, che il padre Erik, severo pastore protestante, impartì ai figli una rigida formazione, basata su una cieca obbedienza ai genitori, una perfetta conoscenza dei testi biblici e dei principi della religione protestante, un senso di responsabilità luterano e - direi - kierkegaardiano, una solida cultura religiosa generale e una educazione spartana. In questo breve scritto si tenterà di esaminare la valenza che Ingmar Bergman attribuisce al ruolo del padre ed anche di come abbiano profondamente influito sulla sua filmografia i conflittuali rapporti con esso, attraverso la rapida analisi di cinque degli oltre cinquanta film che costituiscono la eccezionale produzione del maestro svedese. 



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venerdì 7 novembre 2014

IL FUTURO E' SEMPRE PEGGIO DEL PASSATO!

IL FUTURO E' SEMPRE PEGGIO DEL PASSATO! ECCO LE PROVE.

(DAL MIO LIBRO: CRONACHE DAL PICCOLO BORGO DELLA PIETRA MILLENARIA)



Due gravi fatti di cronaca

A testimonianza indiscutibile che il mio paese, a meno che non ci si riferisca ad atti di guerra, dai suoi albori, intorno all'anno 1000, fino ad oggi, è stato popolato solo da gente mansueta, calma e pacifica, che detesta la violenza, sul suo territorio, nella sua lunga storia non si sono mai registrati gravi fatti di sangue. Parlo ovviamente di omicidi o sequestri di persona o di altri reati ugualmente gravi. Il reato più grave mai realizzato tra privati cittadini potrebbe essere il tentato omicidio, probabilmente derubricato in minacce gravi o violenza personale. Solo durante il risorgimento e nella seconda guerra mondiale pare che qualche soldato francese, nel primo caso, tedesco nel secondo, che occupava il paese o che ci passava per trasferirsi al sud, sia scomparso improvvisamente. Qualcuno dice addirittura che un intero plotone di soldati francesi sia stato buttato dai locali in una dolina poi completamente interrata. Non so nemmeno se i reati considerati minori siano stati mai perseguiti e le pene scontate, ammesso che si siano tenuti regolari processi e le relative pene mai erogate e scontate. In realtà un cittadino di Coreno, per la precisione un prete che stava celebrando matrimonio, ma che risultò del tutto estraneo ai fatti, fu coinvolto in un grave fatto di sangue, un duplice o triplice omicidio. Ma la strage avvenne molto indietro nel tempo, dopo le due guerre; e fuori da Coreno, esattamente a Spigno Saturnia. Così, a dopo la seconda guerra mondiale, in piena ricostruzione, vanno collocati gli altri unici due episodi degni di essere menzionati in questo mio breve racconto. Uno ebbe per protagonisti un operaio e un capocantiere o direttore dei lavori o responsabile delle assunzioni. Un giovane ragioniere di buona famiglia e ben ammogliato, molto noto in paese, che all'epoca muoveva i primi passi nella professione di consulente del lavoro che, in seguito, lo avrebbe arricchito. E avrebbe arricchito anche il figlio, permettendo allo stesso anche una discreta carriera politica e amministrativa che lo avrebbe portato, prima, alla prestigiosa carica di vice sindaco, per tre mandati consecutivi; dopo, di sindaco, per due mandati consecutivi. Per farla breve l'aspirante operaio, che non era stato preso a lavorare in uno dei tanti cantieri che spuntavano come funghi a quei tempi in paese, una sera si era appostato in località Fossato, sulla strada che congiunge Coreno Ausonio ad Ausonia, aspettando che il suddetto, ignaro ragioniere arrivasse con la sua auto. Fermò l'auto in mezzo alla strada e come quello scese lo afferrò per il bavero della giacca e lo strapazzò per bene, spingendolo contemporaneamente verso il parapetto, dal quale lo sporse subito giù, reggendolo solo per le ginocchia e facendolo ondeggiare un bel po' nel vuoto. Non si sa cosa abbia fatto desistere l'uomo dal portare l'insano gesto alle estreme conseguenze, sta di fatto che, come sembra anche dalla deposizione che il povero ragioniere rilasciò al maresciallo dei carabinieri, lo stesso aggressore lo aiutò a mettersi in salvo. Una specie di rigurgito di ragione, un ravvedimentum ...ante delictum, che probabilmente gli valse l'impunità, ma non gli consentì di restare al paese. Subito dopo, infatti, fu costretto ad emigrare in Australia per cercare quel lavoro che, da quel drammatico giorno, a Coreno gli sarebbe stato sempre negato.
L'altro grave fatto di cronaca vide come protagonisti, sempre negli anni '50, un aspirante operaio e il neo sindaco, venuto dalla Sicilia, da Piazza Armerina alla Bassa Ciociaria o Alta Terra di Lavoro: il maestro Giuseppe Barbera. Appena dopo la guerra era arrivato in paese per insegnare agli alunni della scuola elementare. Gli amici gli trovarono subito una moglie, dalla quale non ebbe figli, per ancorarlo al territorio. E pensarono bene di offrirgli una poltrona prestigiosa, quella di primo cittadino. Ci restò seduto per quattro, cinque mandati consecutivi, dal dopoguerra fino al '70. Anche in questo caso la causa scatenante del gesto violento fu la fame, la necessità, il bisogno; una assunzione prima promessa (sembra) e poi, negata immotivatamente. Fatto sta che, una domenica, all'uscita della messa cantata, l'uomo esasperato dal comportamento del sindaco lo affrontò in piazza e dopo averlo strattonato gli mise le mani in gola nel tentativo di strangolarlo. Anche in questo caso un singulto di ragione e la folla che subito si strinse attorno al sindaco straniero, sollecitando a gran voce il concittadino dal desistere dal gesto estremo, impedirono che l'omicidio si compisse. Come ama dire Franco Arminio, Il Paesologo, "un paese esposto a nord è un paese di malumore", il mio paese è esposto a mezzogiorno ma qualcuno di malumore lo trovi sempre. Mentre portavo a termine le mie ricerche per raccogliere una documentazione dei fatti di cui narro appena meno lacunosa e raffazzonata e il più possibile documentata, qualche amico mi ha detto che al mio paese, in un passato remoto ed uno più recente, c'è stato più di qualche suicidio. Sono fatti di sangue, certo, e raccontano anche di malesseri personali e sociali profondi, ma non sono reati. Di conseguenza non ne scrivo. Dell'unico omicidio di cui mi hanno parlato no ho trovate prove certe. Di conseguenza non scrivo nemmeno di quello. 

martedì 4 novembre 2014

La difficile vita in paese. (Dal mio libro: Cronache dal piccolo borgo della pietra millenaria)


La difficile vita in paese
Molte sono le condizioni che si richiedono a un paese per continuare a funzionare. 
E per sopravvivere. 
Due di esse sono imprescindibili: la mutualità e la cooperazione tra i suoi abitanti. 
Questo spiega perché, quando c'erano meno mezzi, vivere in paese pareva più facile e oggi che ce ne sono di più viverci è più difficile. 
I paesi sono sopravvissuti fino ai nostri giorni perché i cittadini avevano stretto fra loro un patto di comportamento sociale, un uso, una consuetudine, una regola non scritta, alla quale si obbediva più che ad una legge scritta: aiutarsi vicendevolmente e cooperare per il benessere dell'intera comunità. 
Il paese, anticamente, era come una grande famiglia, pronta a fare quadrato contro le avversità (carestie, guerre, invasioni, briganti) e a combattere qualsiasi forma di invasione ne mettesse a repentaglio la salute e la stessa sussistenza. 
Oggi, nel paese non sopravvivono più cooperazione e mutualità. 
E il paese stesso non sopravvive.

(Dal mio libro: Cronache dal piccolo borgo della pietra millenaria)




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domenica 2 novembre 2014

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975)

Un ricordo di Pier Paolo Paolini diviso in tre parti.

Pasolini "paesologo", ricorda Casarsa, il suo paese natale.

« … vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana.»



La sua poesia che mi piace di più'

"Ormai è vicina la Terra di Lavoro, 
qualche branco di bufale, qualche 
mucchio di case tra piante di pomidoro,
èdere e povere palanche. 
Ogni tanto un fiumicello, a pelo 
del terreno, appare tra le branche
degli olmi carichi di viti, nero 
come uno scolo. Dentro, nel treno 
che corre mezzo vuoto, il gelo
autunnale vela il triste legno, 
gli stracci bagnati: se fuori 
è il paradiso, qui dentro è il regno
dei morti, passati da dolore 
a dolore - senza averne sospetto. 
Nelle panche, nei corridoi,
eccoli con il mento sul petto, 
con le spalle contro lo schienale, 
con la bocca sopra un pezzetto
di pane unto, masticando male, 
miseri e scuri come cani 
su un boccone rubato: e gli sale
se ne guardi gli occhi, le mani, 
sugli zigomi un pietoso rossore, 
in cui nemica gli si scopre l’anima.
Ma anche chi non mangia o le sue storie 
non dice al vicino attento, 
se lo guardi, ti guarda con il cuore
negli occhi, quasi, con spavento, 
a dirti che non ha fatto nulla 
di male, che è un innocente.
Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla 
una creatura che dorme nel fondo 
d’una vita d’agnellino, e la trastulla
- se si risveglia dal suo sonno 
dicendo parole come il mondo nuove - 
con parole stanche come il mondo.
Questa, se la osservi, non si muove, 
come una bestia che finge d’esser morta; 
si stringe dentro le sue povere
vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta 
la voce che a ogni istante le ricorda 
la sua povertà come una colpa.
Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda, 
senza neanche accorgersi, sospira. 
Col piccolo viso scuro come torba,
in un muto odore di ovile, 
un giovane è accanto al finestrino, 
nemico, quasi non osando aprire
la porta, dare noia al vicino. 
Guarda fisso la montagna, il cielo, 
le mani in tasca, il basco di malandrino
sull’occhio: non vede il forestiero, 
non vede niente, il colletto rialzato 
per freddo, o per infido mistero
di delinquente, di cane abbandonato. 
L’umidità ravviva i vecchi 
odori del legno, unto e affumicato,
mescolandoli ai nuovi, di chiassetti 
freschi di strame umano.
E dai campi, ormai violetti,
viene una luce che scopre anime, 
non corpi, all’occhio che più crudo 
della luce, ne scopre la fame,
la servitù, la solitudine. 
Anime che riempiono il mondo, 
come immagini fedeli e nude
della sua storia, benché affondino 
in una storia che non è più nostra. 
Con una vita di altri secoli, sono
vivi in questo: e nel mondo si mostrano 
a chi del mondo ha conoscenza, gregge 
di chi nient’altro che la miseria conosca.
Sono sempre stati per loro unica legge 
odio servile e servile allegria: eppure 
nei loro occhi si poteva leggere
ormai un segno di diversa fame - scura 
come quella del pane, e, come 
quella, necessaria. Una pura
ombra che già prendeva nome 
di speranza: e quasi riacquistato 
all’uomo, vedeva il meridione,
timida, sulle sue greggi rassegnate 
di viventi, la luce del riscatto. 
Ma ora per queste anime segnate
dal crepuscolo, per questo bivacco 
di intimiditi passeggeri, 
d’improvviso ogni interna luce, ogni atto
di coscienza, sembra cosa di ieri. 
Nemico è oggi a questa donna che culla 
la sua creatura, a questi neri
contadini che non ne sanno nulla, 
chi muore perché sia salva 
in altre madri, in altre creature,
la loro libertà. Chi muore perché arda 
in altri servi, in altri contadini, 
la loro sete anche se bastarda
di giustizia, gli è nemico. 
Gli è nemico chi straccia la bandiera 
ormai rossa di assassinî,
e gli è nemico chi, fedele, 
dai bianchi assassini la difende. 
Gli è nemico il padrone che spera
la loro resa, e il compagno che pretende 
che lottino in una fede che ormai è negazione 
della fede. Gli è nemico chi rende
grazie a Dio per la reazione 
del vecchio popolo, e gli è nemico 
chi perdona il sangue in nome
del nuovo popolo. Restituito 
è cosi, in un giorno di sangue, 
il mondo a un tempo che pareva finito:
la luce che piove su queste anime 
è quella, ancora, del vecchio meridione, 
l’anima di questa terra è il vecchio fango.
Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione 
senti ormai che essa non conduce 
a nuova aridità, ma a vecchia passione.
E ti perdi allora in questa luce 
che rade, con la pioggia, d’improvviso 
zolle di salvia rossa, case sudice.
Ti perdi nel vecchio paradiso 
che qui fuori sui crinali di lava 
dà un celeste, benché umano, viso
all’orizzonte dove nella bava 
grigia si perde Napoli, ai meridiani 
temporali, che il sereno invadono,
uno sui monti del Lazio, già lontani, 
l’altro su questa terra abbandonata 
agli sporchi orti, ai pantani,
ai villaggi grandi come città. 
Si confondono la pioggia e il sole 
in una gioia ch’è forse conservata
- come una scheggia dell’altra storia, 
non più nostra - in fondo al cuore 
di questi poveri viaggiatori:
vivi, soltanto vivi, nel calore 
che fa più grande della storia la vita. 
Tu ti perdi nel paradiso interiore,
e anche la tua pietà gli è nemica."

(1956- La terra di lavoro, da Le ceneri di Gramsci)

Il ricordo che ne fece Nanni Moretti in Caro Diario

https://www.youtube.com/watch?v=OIpm93dK5dA



sabato 1 novembre 2014

La mia vetrina autore completa sul sito Lulu.com

Ecco il link con la mia vetrina autore completa sul sito dell' Editore Lulu.com


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Ci sono tutti i miei libri di paesologia e anche quelli sul Genio di Uppsala Ingmar Ernst Bergman