giovedì 13 luglio 2017

Oggi Ingmar Ernst Bergman avrebbe compiuto 102 anni.





Oggi sarebbe stato il compleanno di Ingmar Ernst Bergman.
Il più grande regista di tutti i tempi è nato il 14 Luglio del 1917 a Uppsala, una cittadina a nord di Stoccolma, in Svezia.
Per ricordare questa data importante metto qui la presentazione, da me firmata, del mio libro "Il Genio di Uppsala". Il più completo ed esaustivo (circa 330 pagine) tra tutti quelli che ho dedicato al grande cineasta.
Chi avrà la costanza e la curiosità di leggerlo si farà anche un'idea della sua grandezza.



Presentazione
La ragione, direi anzi la necessità, che ha costituito la scaturigine primordiale di questo libro, deriva dalla volontà di sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni che da molto, troppo tempo accompagnano il cinema di Ingmar Bergman. L'autore non ritiene accettabile, infatti, la posizione di rifiuto - quasi pregiudiziale - che molte persone (anche alcune di quelle che si autodefiniscono colte) assumono davanti alla pachidermica filmografia di Bergman, accampando come giustificazione, assai generica e frettolosa, la ragione secondo la quale i suoi film, sovente e tranne qualche rara eccezione, siano tristi, difficili da capire, noiosi, se non addirittura pericolosa causa di depressione psichica. Ritengo, quindi, partendo dal semplice assunto che tutti noi finiamo per amare solo ciò che conosciamo, rifuggendo di conseguenza, da tutto ciò che ci è ignoto, sia importante divulgare, spiegandolo a chi lo ignora (appunto), il grande cinema di Bergman, e che la diffusione e la conoscenza siano un ottimo viatico alla piena e profonda comprensione delle tematiche in esso contenute. Sicuro che - come mi piace dire - un mondo popolato da un gran numero di bergmaniani sarebbe certamente un mondo migliore di quello sul quale viviamo. A proposito del grande cinema di Ingmar Bergman, l'autore di questo saggio ha maturato, da tempo e nel tempo, alcune opinioni personali, che vuole qui rapidamente elencare e spiegare all'eventuale spaesato lettore. Esse sono maturate in un quarto di secolo di appassionata ricerca, di studio, informazione e documentazione sull'opera di quello che (quasi) universalmente viene considerato: the best director ever. Ma, l'autore deve pure ammettere che, forse, quelle opinioni non possono essere considerate esclusivamente personali, nel senso che esse potrebbero essere agevolmente condivise da tutti coloro che Bergman lo amano, almeno quanto lui. Tuffarsi nella filmografia di Bergman è come effettuare una discesa nel mallstroem dei sentimenti umani; significa essere rapiti e restare imprigionati in una vera e propria tempesta di stati d'animo contrapposti, spesso contrastanti, spesso inesplicabili.
Prima opinione
Ingmar Bergman ha, in qualche modo, legato la sua fama globale ai cineforum. Anzi, si può affermare, senza timore di essere smentiti, che il suo cinema rappresenti il cinema da cineforum per antonomasia. Nel senso di cinema d'autore, ovviamente. Anche chi scrive queste note, come molti altri appassionati cinefili, ha infatti iniziato a vedere i suoi film più famosi e importanti (Il settimo sigillo; Il posto delle fragole; La fontana della vergine; e poi tutti gli altri girati negli anni '50 e '60), nelle proiezioni organizzate da una assai volenterosa associazione di cinefili, nel paese in cui è nato, vive, e attualmente lavora. Certamente, di quei film non capì tutto subito, anzi, probabilmente, all'epoca gli sfuggi la grossa parte del loro profondo significato. Ma nel poco o tanto - non so - che gli rimase, che finì per sedimentarsi nella sua mente di quelle visioni partecipate, ovviamente ancora non supportate da saldi parametri culturali - assenti nel suo retroterra culturale ancora in via di formazione - era nettissima la sensazione di aver assistito ad uno spettacolo che recava in se qualcosa di grandioso visivamente, artisticamente, filosoficamente, ontologicamente. Pur versando nella ignoranza più crassa, infatti, egli si rendeva perfettamente conto che i temi trattati, i problemi affrontati, i serrati dialoghi tra i protagonisti, le robuste sceneggiature, i continui ed eloquenti riferimenti culturali, filosofici e religiosi, la perfezione tecnica delle riprese, le interpretazioni stratosferiche degli attori, insomma il sontuoso impianto complessivo di quei film riconduceva ai grandi interrogativi esistenziali che già da qualche anno risuonavano nella sua coscienza e nella sua anima. Chi siamo? Dove andiamo? Qual'è il significato della nostra esistenza terrena? Chi ci ha creati? Esiste davvero un Dio? Ci sarà mai data l'opportunità di vederlo? Interrogativi tutti destinati a restare - ahimè! - senza risposte esaustive, né definitive, ma che in modo semplice avevano almeno l'effetto immediato di sollevare il popolo bergmaniano dalla banalità, di innalzarlo dalla apparente inutilità della sua vita quotidiana, elevandolo verso il trascendente, o almeno verso un'idea di trascendenza che tutti, nella loro mente, hanno e si costruiscono.
Seconda opinione
La seconda opinione è legata indissolubilmente alla estrema coerenza, quasi pervicace e monocorde, pur nell'ammissione della sua estrema complessità, dei temi e degli argomenti trattati ed eviscerati da Bergman nei suoi film. Dal primo all'ultimo di una serie di più di 50 film girati in più di 50 anni di attività il Maestro non ha mai perso di vista le grandi problematiche esistenziali; si è sempre occupato dei problemi ontologici dell'uomo moderno, dei suoi sentimenti, delle sue paure, delle sue psicosi, delle sue angosce, dei suoi demoni. Come uno speleologo si è calato nei meandri dell'anima umana, negli angoli oscuri della psiche e ha posto davanti all'obiettivo della sua speculazione tutti i più grandi quesiti filosofici dell'uomo storico. Ha usato il suo cinema per porsi una notevole quantità di domande; e per cercare, al contempo, delle risposte plausibili a queste domande. Alcune di esse sono venute, altre sono mancate, più o meno clamorosamente. Tuttavia si può dire che l'obiettivo di Bergman, per sua stessa ammissione, non era certo quello di dipanare il mistero insondabile della vita e della morte, bensì quello molto meno ambizioso e molto più umano di tentare, attraverso la sua arte, d'intavolare un inizio di discussione; di tentare un approfondimento; di fornire degli abbozzi di spiegazione; di avviare su una via di conoscenza che potesse permettere di avvistare almeno una flebile luce in fondo al tunnel; di istradare su un sentiero di esperienza, possibilmente meno impervio e scosceso di quanto non potesse apparire senza i suoi preziosi insegnamenti.
Terza opinione
Ingmar Bergman ha avuto, tra le innumerevoli altre, la indubbia capacità di contornarsi di attori e attrici straordinari. Senza di loro, cosa sarebbe stato il cinema e, soprattutto, cosa sarebbe stato il suo cinema? Avrebbe avuto la stessa straordinaria forza espressiva, la stessa straordinaria efficacia? Cosa sarebbe stato della sua arte se Bergman non avesse avuto sottomano e non avesse saputo trovare, istruire, plasmare e far crescere professionalmente e umanamente attori e attrici del calibro di Max von Sidow e Gunnar 7 Bjornstrand; di Bibi Anderson e Liv Ulman; di Ingrid Thulin e Ulla Jacobson? Oppure, se non avesse potuto sfruttare per la rappresentazione delle sue complesse ed articolate sceneggiature interpreti che erano o che sono diventati, anche per merito dei suoi film, dei veri e propri mostri sacri del cinema mondiale? Mi riferisco, ovviamente, a Viktor Sjostrom, Erland Josephson, Nils Joffe, Ingrid Bergman, etc. . Bergman stesso, parlando delle sue sceneggiature, dei suoi testi scritti per il cinema, confessa: “...quando l'attore, alla fine, s'impossessa delle sue parole e le trasforma in espressioni sue proprie, lui stesso finisce per perdere il contatto con il significato originale delle battute. Gli artisti riescono a destare nuova vita in scene piene solo di chiacchiere”. Quarta opinione
Ingmar Bergman, per sua stessa ammissione, ha usato il suo cinema, la sua arte, i suoi film anche come normalissimo, prosaico strumento per raggiungere una fama globale imperitura e per assicurarsi l'agiatezza economica (se non una vera ricchezza); che spesso gli sono mancate: si pensi, ad esempio, al suo disastroso inizio di carriera. Ha usato - anche di questo particolare veniamo a conoscenza per sua stessa ammissione - i film come vere e proprie sedute di auto-psicanalisi. Ha lavorato nel cinema trasmettendo, attraverso le sue sceneggiature e le sue riprese, agli attori le sue proprie angosce, le sue proprie paure, le sue proprie psicosi. Perché essi interpretando i suoi personaggi, le trasmettessero allo spettatore. A noi. Non ha mai fatto mistero di avere accumulato nel corso della sua infanzia problematiche psicologiche, derivanti dagli strani rapporti intrattenuti, suo malgrado, con la madre e col padre. A proposito di tale sofferto rapporto famigliare, egli stesso ammise: “Immagino che i più forti impulsi a girare Il posto delle fragole siano derivati proprio dal dissidio coi miei genitori. Io mi ritraevo nella figura di mio padre, cercando spiegazioni alle amare controversie con mia madre. Credevo di capire di essere stato un bambino non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi... fisica e psichica. Il diario di mia madre ha in seguito confermato questa mia impressione: mia madre era profondamente ambivalente nei suoi sentimenti verso il suo disgraziato, morente bambino”. Ingmar Bergman non ha mai evitato di parlare dei suoi personali problemi, magari preferendo trincerarsi dietro a più opportuni silenzi, oppure dietro al comodo paravento di strategiche omissioni o anche dietro a una artificiosa mancanza di chiarezza. Ha lui stesso messo i suoi estimatori a parte dei piccoli o grandi segreti personali spesso sconvenienti e poco affascinanti, se non addirittura imbarazzanti. Insomma, pur attribuendosi certamente una buona dose di genialità artistica ed ammettendo l'indiscussa grandezza di alcune delle sue opere, non ha mai rifiutato il suo ruolo di uomo storico, pieno di difetti, di essere umano con luci ed ombre, di persona in fondo normale, potenzialmente geniale, ma anche debole e fallibile. Lui stesso ne ha parlato apertamente e scritto altrettanto chiaramente nelle sue varie biografie. A modestissimo avviso dell'autore, anche in questo suo anticonvenzionale, originale ed estroso atteggiamento va ricercata una parte cospicua della sua grandezza.
Quinta e ultima opinione
Nel corso della sua lunghissima carriera cinematografica, Ingmar Bergman ha prodotto una serie di film nei quali ha affrontato direttamente le tematiche religiose; ha espresso ansie e inquietudini della cultura del suo tempo; ha indagato sui sentimenti e sui rapporti interpersonali, intersessuali e interfamigliari; ha, perfino, tradotto in immagini le sue stesse paure personali. Nelle altre sue opere che pure non sembrano rivolte altrettanto apertamente al trascendente, né alla metafisica, si percepisce nel linguaggio e nelle messe in scena allestite dal maestro svedese un retroterra che rimanda alla sua profonda formazione protestante scandinava, alle sue rocciose letture di formazione (soprattutto Strindberg, Ibsen e Kirchegaard) e alla sua solida cultura biblica. Dall'analisi dei suoi film più importanti, si scoprirà che non solo di Dio o del suo silenzio o della sua assenza, si tratta, ma di un rapporto che coinvolge e chiama in causa anche le modificazioni socio-economico-culturali a cui è andata incontro la società in un arco temporale di quasi sessant'anni. Cambiano i riferimenti sociali e quelli culturali, e cambia anche, in un certo senso, l'antropologia che il regista si trova di fronte; evolve, inesorabilmente, la disposizione con cui uomini e donne del nostro tempo sperimentano il proprio incontro con gli altri e la ricerca, eventuale, di una parola trascendente.
Tutti i suoi film contengono importanti connotazioni culturali, religiose, sentimentali, psicologiche, sociali, finanche politiche, in un senso molto lato.
Solo per necessità di informazione, anche sommaria, ne accenniamo di seguito una rapida elencazione:
• I film della fine degli anni '40, gli anni dell'esordio ma anche gli anni del disagio sociale in Svezia e dell'inizio del cd. neorealismo: Crisi (1946), Piove sul nostro amore (1946), La terra del desiderio (1947), Musica nel buio (1948), Città portuale (1948), Prigione (1949), Sete (1949), Verso la gioia (1950), Questo non accadrebbe qui (1950);
• I film degli anni '50, in cui, per primo, Bergman aveva cominciato a fare il punto sulla condizione femminile, sul ruolo della donna nella società moderna e a preconizzare certe sue importanti conquiste sessuali: Un'estate d'amore (1951), Donne in attesa (1952), Monica e il desiderio (1953), Una vampata d'amore (1953), Una lezione d’amore (1954), Sogni di donna (1955), Sorrisi d’una notte d’estate (1955), Alle soglie della vita (1958); • i film, dei primi anni '60, la cd. Trilogia Religiosa, o di Dio, o dell'assenza di Dio. I film del confronto diretto dell'uomo con Dio: Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1963), Il silenzio (1963);
• i film sui turbamenti della psiche e sulla fenomenologia dell'occulto: Il volto (1958), Persona (1966), L’ora del lupo (1968);
• i film della sua adesione ferma e convinta alla battaglia civile pacifista e della conseguente presa di distanza dalla guerra: La vergogna (1968);
• i film, non facilmente dimenticabili, i grandi momenti di una creatività in cui la vera risposta era l’arte in sé (“ars gratia artis”), l'arte alta come così alto in quegli anni ancora il cinema non era stato; i suoi capolavori assoluti: Il settimo sigillo (1956), Il posto delle fragole (1957), La fontana della vergine (1960), Sussurri e grida (1972), Scene da un matrimonio (1975), Sinfonia d'autunno (1978);
• e infine, l'ultima grande tappa della sua lunga carriera, il canto del cigno e testamento poetico autobiografico appunto Fanny e Alexander (1982).


mercoledì 12 luglio 2017

Amerigo Iannacone è morto stamattina. Il mio personale ricordo.

Conoscevo Amerigo Iannacone ma non eravamo amici. Eravamo semplici conoscenti e nemmeno assidui. Tuttavia mi è capitato d'incontrarlo spesso anche alle mie iniziative culturali a Coreno e di salutarlo cordialmente, intrattenendomi con lui a scambiare semplici idee sulla nostra visione della cultura e sulla sua diffusione. Spesso difficoltosa.
Quando veniva era sempre un po in anticipo. Si sedeva in prima fila, per vedere e sentire meglio, la luce era scarsa. Ma, ricordo che non aveva mai alcuna frenesia di intervenire o di prendere in mano il microfono. Quando lo citavo e lo citavo sempre, poeta editore e divulgatore, si limitava solo a fare un saluto, semplice ma cordiale, con la mano e un accenno di sorriso. Lui che per i sorrisi non era famoso.
Amerigo mi invitava sempre alle sue manifestazioni culturali, frequenti, anzi serrate, (reading di poesie, presentazioni dei libri editi da lui con l'Edizioni Eva, corsi di esperanto)  ma io, che ero più giovane ma più pigro di lui, non ho mai coperto i meno di 50 km che separavano Coreno da Venafro.
Al matrimonio di Margherita Agresti, cara amica comune, siamo capitati seduti vicini allo stesso tavolo, anzi di fronte e pure li ho passato tre o quattro ore di piacevole conversazione.
Qualche volta mi è anche capitato di leggere il suo Flugfolio il notiziario letterario, una sua creatura in esperanto a cui teneva tanto.
Infine siamo stati vicini di "pianerottolo" letterario: entrambi sollecitati a scrivere per le rispettive competenze, ci siamo trovati "vicini di pagina", ospitati entrambi nell'antologia del comune amico Dante Cerilli Orpelli Svaniti. Senza sapere che anche lui fosse tra gli AAVV io l'ho citato nel mio contributo paesologico, ricordando una sua poesia paesologica che si riferisce alle sue montagne.
Le stesse montagne che stamattina alle otto hanno assistito impotenti ed incredule, come noi del resto, alla sua dipartita dal mondo dei vivi.



Amerigo non l'ho conosciuto a fondo e me ne dolgo, ma dal poco che ho capito di lui e del suo carattere posso dire che appariva come un uomo pacifico, modesto, pieno d'iniziative e rispettoso di antichi valori e, soprattutto, dei suoi simili. Tutti.

Ciao Amerigo, adesso declamerai le tue poesie tra gli angli. Forse in esperanto. E forse ti capiranno tutti.

Metto qui il mio contributo nella parte che riguarda lui e la sua arte poetica.

"...Ma si può produrre grande poesia paesologica (più o meno consapevolmente)
anche parlando di montagne “indifferenti”, ma che indifferenti non sono (almeno nel
modo in cui lo intendono i marsigliesi quando si riferiscono ai molluschi morti che loro
chiamano appunto: “indifferents”).
Succede quando le montagne (ci) parlano di “volti scomparsi, lavori sofferenti ed
amati, canti spiegati nei campi… fervidi afflati rurali” . A farlo è il poeta-editore
Amerigo Iannacone nella sua poesia Montagne:

Cime che fanno corona
immobili antiche maestose
intorno alla casa modesta
raccontano storie remote
di bimbi con loro in simbiosi
di volti da tempo scomparsi
di lavori sofferti ed amati
di canti spiegati nei campi
di cuori protesi al futuro
di fervidi afflati rurali
di affetti immortali.
Montagne indifferenti
al cosiddetto progresso
al codice binario
ai giorni incalzanti e concitati,
con un refolo di vento
con una nuvola bassa
mandano antichi sussurri
del tempo perduto e rimpianto.

E, a tale proposito, Dante Cerilli, nel numero di Pagine lepine A. XIV - N. 1,
gennaio/marzo 2008, scrive: Caro Amerigo, quello che tu scrivi nella poesia
“Montagne” mi conferma quello che penso della tua spiritualità. Hai scelto la
componente più materiale, maestosa, più grande come le montagne della tua terra per
parlare di ciò che invece è esile, impalpabile, impercettibile se non all’animo delicato
e sensibile che sa amare e patire il vecchio ed il nuovo, il vecchio per la nostalgia di
certezze la cui esperienza è a volte irripetibile, il nuovo per l’ampio respiro che affratella
e che vorrebbe essere respiro di speranza ed amore anche quando la vena della malinconia
intacca perniciosa l’alta mole della “montagna”. Mi pare un ossimoro non linguistico,
questa poesia, ma sostanziale di corpo e spirito. Continua ad abbracciare il tempo la tua
poesia con l’alito caldo del pensiero che oggi anche i tuoi figli possono ingerire."