mercoledì 30 gennaio 2013

Storie di paese.

Nei paesi piccoli come il mio, di solito, non ci sono pescherie.
Dice che non fanno affari.
Gli affari da noi li fanno, invece, i pescivendoli ambulanti, quelli che vanno in giro col furgone, e portano il pesce fresco pescato nel braccio di mare compreso tra il Golfo di Gaeta e le isole Ponziane.
E' una cosa che non ho mai capita e non capirò mai: la gente compra il pesce dagli ambulanti ma alcune pescherie aperte negli ultimi anni nei paesi limitrofi, ad Ausonia o a Sant'antonio, ad esempio, hanno chiuso perchè vendevano poco e non conveniva restare aperti.
Delle due l'una o il lavoro andava veramente male, e quì sta il mistero, o volevano arricchirsi in fretta e facevano quel lavoro pure senza passione.
Allora, in entrambi i casi, hanno fatto bene a chiudere.

Al mio paese di pescivendoli ambulanti ce ne vengono tre.
Due sono indigeni: Gegè e Michele.
Michele è figlio d'arte.
Prima di lui c'era suo nonno.
Si chiamava come lui: Michele Coletti.
Era amico e coetaneo di mio nonno, dopo il lavoro giocavano a carte insieme al bar di Cardillo in piazza.
Michele andava a Formia, comprava il pesce fresco e poi veniva a venderlo a Coreno.
Il suo slogan era un doppio senso allusivo, un po greve ma simpatico e, sembra, pure efficace:
"Femmene, accorrete! Accorrete! E' arrivato Zì Michele, porta il pesce fresco, quello che fa bene e non fa crescere la pancia."
I figli avevano tradito la strada che lui aveva intrapreso: erano diventati macellai.
Erano stati la sua nemesi.
Forse dolorosa, sicuramente più ricca.
Il nipote ha ripreso la sua strada, para para, e l'ha rinverdita.
Il venerdì è al mercato di Coreno, ha il suo furgoncino frigorifero con le porte posteriori aperte e il banchetto davanti pieno di pesce fresco che vende anche a prezzo onesto.
La madre lo aiuta, fa la cassiera, incarta la merce, la imbusta, te la porge con una mano e prende i soldi con l'altra mano tesa.
Di Gegè, invece, so poco.
Pare che abbia intrapreso la carriera di pescatore al seguito del suocero, pescatore di lungo corso al porticciolo di Caposele a Formia.
Lui passa il giovedì, ma il giovedì è il mio giorno di chiusura, e di solito esco, per questo non c'incrociamo mai. Peccato!
Anche lui, dicono, usa portare pesce fresco a buon prezzo.
Qualche volta mi è capitato di assaggiare quello preso e cucinato da mia madre, che lo compra direttamente lei, aspettando che passi sotto casa o se lo fa prendere dalla vicina di casa Filomena, che è pure la zia di Gegè.

Il mercoledì mattina, puntuale come uno svizzero, invece arriva il terzo, quello che viene da fuori: Franco, da Castelforte.
E' grosso, con una coppola e barba bianca curata da capitan Findus e un'aria un po svagata. Ma è solo apparenza.
In realtà sta molto attento al peso e ai suoi affari.
ogni tanto quando spendi una bella sommetta ti aggiunge, senza che ne accorgi, una bella manciata di gamberetti freschissimi.
Anche lui porta il pescato del Tirreno con un furgoncino frigorifero bianco.
Sta immancabilmente qualche minuto prima delle 10 davanti al mio negozio, annunciato dalla musica dell'altoparlante e dalla sua voce gracchiante che invita a scendere in strada.
Le donne, ovviamente!
Pare che i pescivendoli, per tradizione, abbiano un buon rapporto solo con le donne.

Anche lui vende pesce freschissimo ad un ottimo prezzo.
Io prendo di solito qualche trancio di salmone, o i calamari da fare fritti ad anellini, o le vongole se ho voglia di una spaghettata o anche del Persico, per il fish&chips fritto in pastella, che mi ricorda tanto i pub inglesi.

smr

venerdì 11 gennaio 2013

Storie di paese. 29

Mio padre amava la caccia.
Gli piaceva il contatto diretto con la natura.
E il freddo in piena faccia di quelle giornate nebbiose, ventose e gelate d'inverno.
Lui si alzava presto, alle cinque di mattina.
Non gli pesava più di tanto.
Anzi gli piaceva.
In genere, al contrario di me, non gli piaceva poltrire nel letto.
La prima cosa che faceva, appena alzato, era accendere la cucina a legna che avevamo in sala da pranzo.
Ci metteva molto a scaldarsi ma quando era a pieno regime pareva un altoforno.
Lui la stipava di legna e l'accendeva, ma non gli serviva, perchè lui ci faceva solo il primo caffè della mattina.
L'accendeva per far trovare la casa calda a noi e alla mamma.
Che poi durante tutta la giornata la teneva accesa al minimo e ci cucinava.
Ricordo che oltre a tutti i tegami di sughi e sughetti, ci teneva sempre un pentolone d'acqua a scaldare.
Ci faceva tutte le faccende di casa.
Compreso lavarci i panni a mano.

In più ricordo che la stufa aveva, da un lato, un serbatoio rettangolare, profondo, pieno di altra acqua bollente.
Ci affogava dentro un mestolo d'alluminio anch'esso rettangolare con un lungo manico.
Ogni volta che le serviva acqua calda, mia madre la prendeva col mestolo.
E rifondeva immediatamente quella che prelevava.
Mi ricordo un particolare curioso legato alla vecchia cucina a legna: quando ero piccolo, con le mie sorelle più piccole di me, ci divertivamo a sputare sul ripiano infuocato e a vedere le palline di saliva che correvano, rimpalzando sul ferro, fino a qundo non trovavano una fessura nella quale scomparivano veloci.

Nel silenzio buio della notte che caratterizza l'ora del lupo, quando il caffè cominciava a sbuffare sui cerchi concentrici del piano ormai arroventati, mio padre, vestito di tutto punto, se ne serviva una grande tazza e se lo buttava in gola ancora fumante, subito dopo si accendeva l'immancabile sigaretta e via, di buon passo, verso le montagne.
Prima però aveva slegato Fido, lo splendido setter laverack bianco e nero, come i colori della sua Juventus, e insieme si avviavano a piedi in salita.
Che senso avrebbe avuto andare in macchina?
Mio padre era capace di girare per ore nei boschi più fitti; attraversare lentamente le radure più spoglie; scendere con attenzione lungo i pendii più scoscesi e sassosi dei nostri monti, senza sparare un solo colpo.
Se non c'erano prede lui non si scoraggiava.
Intanto si era fatta una bella, salutare passeggiata - diceva.
A sessant'anni, il molto calcio praticato da giovane e quelle sue lunghe passeggiate en plein air gli avevano permesso di conservare un fisico forte, robusto, atletico, come quello di un quaratenne.
Lui poi era capace di crearsi diversivi alla mancanza di prede da abbattere.
Si sarebbe fermato di sicuro a mangiucchiare qualche pera vergnina matura da uno degli ultimi alberelli che sapeva da bambino.
Poi avrebbe individuato e memorizzato un nuovo piccolo corniolo, anche quelli sempre più rari.
Prendeva come punto di riferimento una grossa quercia, una casella o una macéra e sarebbe tornato per tempo a raccoglierne i piccoli frutti rossi, quando fossero spuntati.
Li metteva, per aromatizzarla, nella bottiglia della grappa che, immancabilmente, ogni anno, dopo la vendemmia, gli regalava Papele, il collocatore, amico d'infanzia e appassionato di caccia, anche lui, e di distillati fatti in casa.
Poi avrebbe osservato estasiato per lunghi minuti a testa in su le evoluzioni in cielo di un falchetto reale, anche quello uno degli ultimi rimasti sulle nostre montagne.
Poi avrebbe chiacchierato per un po' del più e del meno col suo amico e coetaneo Bandareglio, uno degli ultimi pastore di capre.
Infine, perchè no?, avrebbe individuato e seguito nel fango le orme di qualche cinghiale selvatico.
Anche se diceva sempre che le battute di caccia al cinghiale non gli piacevano tanto.
Non lo divertivano.
E soprattutto considerava che, stare fermi in un posto ad aspettare che la bestia, nervosa e sfiancata, perchè spinta da una muta di cani, ti arrivi di fronte, nella radura, e piazzargli un colpo in piena testa, più che una battuta di caccia fosse una vera e proria esecuzione.
Le battute di caccia che gli piacevano di più e gli davano la piena soddisfazione erano quelle ai tordi e alle beccacce.
Per entrambe dovevi camminare molto, fin dietro il costone roccioso del Monte Maio.
Poi dovevi sapere il punto esatto dei passaggi degli stormi.
Poi dovevi saper sparare al volo. E non era facile.
Questo tipo di uccelli, entrambi rapidissimi nel volo e poco prevedibili nella direzione dei loro volteggi, non dovevano mai sembrargli vittime sacrificali.
Anche se, inermi contro una doppietta, era ugualmente una lotta impari col cacciatore.
Alla fine della lunga e defatigante giornata avrebbe ripreso soddisfatto la strada di casa, anche col carniere desolatamente vuoto.
Qualche volta sono andato anch'io a caccia con lui.
Sebbene la caccia non mi piacesse più di tanto, anzi, ammazzare gli uccelli mi faceva sentire proprio male e pieno di rimorsi.
Una sola volta era successo, e mi era bastato, che uccidessi, quasi per caso un uccello.
Ero dietro casa, da solo, puntai, mirari e sparai con un fucile a piombini.
Ad una distanza di una decina di metri, colpii in pieno ed ammazzai un piccolo uccello, forse una cinciallegra, seminascosta tra i rami di una piccola quercia.
Dopo che l'uccellino era caduto per terra stecchito dal mio colpo, recuperai il corpicino ancora caldo e gli feci il funerale.
Aveva un buco in pieno petto che gli usciva sul dorso.
Il proiettile lo aveva trapassato da parte a parte.
Non perse una sola goccia di sangue
Che orrore!
Mi maledissi.
Costrui una piccola bara, modellando una scatoletta di cartone e lo sotterrai, piangendo per il rimorso.
I sensi di colpa e la gratuità del mio gesto mi fecero sentire un verme per giorni e gioni.
Quella trascurabile morte aveva fatto emergere in me una vera e proria scissione interiore.

Alla fine dell'espiazione promisi a me stesso che non avrei più ucciso un animaletto, nemmeno una formica.
Prestai fede alla promessa solenna, che dura ancora oggi.
E, ancora oggi, rimprovero mio figlio se calpesta le formiche o cerca di riempire d'acqua le loro tane per vederle fuggire; o prende i coleotteri in cortile per imprigionarli nei barattoli o, peggio ancora, per schiacciarli tra le dita.
Anche se non sono mai stato un animalista, anzi, reputo sinceramente esagerate certe loro pretese, mi nutro di carne animale, ed ho sempre ritenuto giusto che gli animali vivano liberi ognuno nel loro habitat.
Forse anche per questo non ho mai capito il mio talento per il tiro al volo.
Il padreterno mi ha voluto regalare una cosa che non mi è mai servita, anzi che ho aborrita fin dal giorno della sua scoperta.
Anche perchè non ho mai praticato il tiro al piattello.
Ma, forse, era proprio quella la mia strada con le armi.

smr

domenica 6 gennaio 2013

Storie di paese. 25

Mio figlio Antonio, il primo, ha quasi 10 anni, li compie il 20 marzo.
La seconda, Sveva, ne ha compiuti otto lo scorso novembre.
Sono incazzato nero col maschio.
Quando sta in casa e non ha da fare i compiti gioca esclusivamente coi suoi giochi elettronici.
A 4 anni lo zio Sandro gli regalò la sua vecchia PS1 e una scatola piena di giochi.
Tutti rumorosi, violenti e per lo più inutili o, comunque, poco divertenti.
Il più bello, per me, era il tennis, il primo favoloso tennis elettronico con la rete in mezzo e due segmenti a fare da racchette e uno da pallina.
Da quella versione, che oggi sembra primitiva, sono passati due o tre lustri, sembrano passati due o tre secoli.
A 6 anni Antonio chiese ed ottenne da Babbo Natale una PSP.
La Play Station Portatile.
Con tanto di web cam per catturare gli invizimals.
Che cazzo saranno non lo so e non voglio nemmeno saperlo.
So solo che ogni tanto, quando vuole catturarli, lo vedo girare carponi per casa alla ricerca di un colore particolare. Dice lui!

Ad ogni compleanno Antonio riceveva un gioco nuovo, per lo più costoso, violento, rumoroso, inutile e poco divertente.
Ogni tanto mi viene vicino e mi dice: "Papà, questi giochi mi annoiano!"

Quest'anno ha chiesto ed ottenuta, sempre a Babbo Natale, una Wii.
Dentro la confezione c'era un gioco: rumoroso, colorato, stavolta violento no, ma inutile si.
E sempre poco divertente.
Risultato: se ha tutti i giochi spenti dice che si annoia.
Non sa fare altro.
Allora gli do un calcio in culo o una sberla in testa e lo mando giù in cortile a sgranchirsi le gambe con la bicicletta.
Oppure lo costringo a prendere in mano un libro.
Per leggere Il piccolo principe ci sta mettendo un paio di mesi.
E quello che avevo io nella mia libreria non andava bene.
No!
Un giorno è andato in biblioteca e se n'è presa una copia diversa.
In macchina gli ho detto: "Antonio il libro che hai preso è uguale a quello che già abbiamo a casa."
Mi risponde candidamente, ma anche intelligentemente (buon per lui):
"Lo so! Ma questa edizione ha le illustrazioni a colori. La nostra in bianco e nero."
Non ho una pezza a colore - appunto ! - touchè!
Ma, se tanto mi da tanto, per leggere Il signore degli anelli ci metterà un paio d'anni.
Anche perchè le rare illustrazioni e la carta geografica dei topos fantastici tolkeniani sono in bianco&nero.

Altro risultato del lavaggio di cervello dovuto ai giochi elettronici è la sua assoluta mancanza di fantasia.
Al contrario della sorella alla quale non piacciono i giochi elettronici e che, giocando quasi esclusivamente con le bambole Lalaloopsy, di cui fa collezione, ha una fantasia fervida e si diverte un mondo, anche quando gioca da sola.

Quando avevo la sua età il gioco più avveniristico che avevo a disposizione era il più classico dei trenini elettrici.
Me lo portò la Befana e durò appena qualche settimana.
Praticamente fino a quando non decisi di aprirlo e smontarlo pezzo a pezzo per vedere com'era fatto dentro.
Ovviamente non fui più capace di riassemblarlo e non corse più, nemmeno a spinta.

Ma a me, da sempre, sono piaciuti tutti i giochi che si facevano en plain air, e alla mia epoca quasi tutti i giochi si facevano all'aria aperta.
Avevamo gliu canteru, una specie di nascondino: uno dava un calcio a una lattina vuota di quelle dell'olio per automobili e gli altri correvano a nascondersi, mano mano che li trovavi li tanavi; se uno arrivava alla lattina prima di te e gli dava un altro calcio liberava tutti e si ricominciava da capo.
D'estate o in primavera, appresso a quella lattina deformata dai calci, ci passavamo intere serate.
Poi avevamo le biglie di vetro, le palline: giocavamo accosciati per terra, dentro la cunetta di cemento che costeggiava il Viale della Libertà dalla chiesa di Santa Margherita, in Piazza, fino alla curva.
Era divertentissimo, specie quando pioveva, perchè la pista era pulita, altrimenti dovevi spazzolare la terra e i residui di polvere continuamente con le mani, per far correre le palline senza scrucchi.
Una volta arrivati in fondo, siccome non potevamo andare in salita e non era nemmeno divertente come in discesa, tornavamo in piazza e si ripartiva.
Poi c'era gliu circiuglu, una ruota di bicicletta senza camera d'aria, senza raggi e senza copertone controllata con un filo di ferro, robusto ma flessibile, che correva nella scanalatura: vinceva chi non perdeva il controllo della ruota, la teneva dritta e faceva più metri spingendo col braccio e correndogli dietro.

Per un lungo periodo, al mio paese, sono andate di moda, complice anche l'assoluta mancanza di traffico, le favolose carrozzine con le ruote a palline: le costruivamo noi, da soli, con elementi semplici, un martello due chiodi e quattro viti, un asse di legno come sedile e tre ruote di ferro, i cuscinetti a sfera del tipo che costruivano solo alla RIV-Skf di Cassino.
Scoprii l'esistenza reale della mitica fabbrica quando, finita la scuola media, andai al Ginnasio a Cassino.
Due ruotine andavano dietro infilate in un asse fisso di legno e una davanti alloggiata in un mozzo sempre di legno.
Partivamo dalla piazza e poi lungo tutto Viale della Libertà, ad una velocità ragguardevole, fino alla curva del Camposanto.
Eravamo troppo veloci e allora eravamo costretti a mettere un freno, a volte anche due, uno a destra e uno a sinistra: una leva di legno coperta con un tacchetto di plastica dura, da far strusciare a terra per rallentare.  

Il gioco più moderno ed elettronico su cui potevamo contare era il flipper del Bar di Cardillo, in piazza.
Ma per giocare ci volevano i soldi e non sempre li avevamo.
E se proprio dovevamo mettere i soldi in un gioco per giocare preferivamo il calciobalilla: la gettoniera prendeva anche le cinque lire ammaccate, invece della moneta rossa delle venti lire, e giocavamo dieci palline in quattro.
Ed era rumoroso lo stesso e molto più divertente del flipper.
 
Qualcuno dalle parta alta del paese, quella più tradizionalista - in basso eravamo un pò più moderni e smaliziati - ogni tanto portava uno strummolo.
Se lo tirava fuori dalle tasche come fosse un'antica e preziosa reliquia.
Era solo un pezzo di legno molato a forma di ogiva, con un pezzo di chiodo che usciva dalla punta e scanalature intorno per attorcigliare attorno una cordicella di canapa con la quale si avviava la rotazione.
Arrivata a terra, anche a diversi metri di distanza, se il lancio era stato effettuato a regola d'arte, la trottola, faceva una scintilla sulla pietra e continuava a girare vorticosamente per lunghissimi minuti.
Quando aveva esaurito l'inerzia, lo strummolo si afflosciava a terra, esausto, inclinandosi tristemente su un lato.
Come fosse morto.

Il regalo più bello, più colorato e più poetico che Antonio abbia mai ricevuto è un trenino di legno colorato dell'Ikea che lo zio medico gli regalò quando aveva appena tre anni.
Si! E' proprio quello della foto.
Una motrice con tre carrozze colorate e una dozzina di pezzi di legno naturale a incastro per fare i binari a forma di otto.
Provo un groppo al cuore e un profondo senso di tristezza quando, passando in cortile, di quel trenino scorgo un pezzo interrato nell'aiuola, un'altro semi-nascosto nell'erba alta e la motrice nera e rossa a scolorire sul muretto di cinta.
Un giorno, prima che marciscano, dovrò cercarli tutti i 20 i pezzi perduti di Lillabo, il trenino colorato dell'Ikea - penso, fra me e me - dovrò rimeterli assieme, restaurarli e farli ... rivivere ancora per un altro secolo.
Sopravviveranno a tutti noi e quando qualcuno li ritroverà, magari scavandoli dalla terra, come li ho scavati io, dirà:
"Ma allora all'inizio del terzo millennio c'era ancora un po' di poesia sulla Terra!"


smr

venerdì 4 gennaio 2013

Storie di paese. 24


Negli anni '60, in primavera, la domenica pomeriggio, prima della messa vespertina e del cinema nella sala parrocchiale, quando il sole era ancora alto e la temperatura gradevole, al mio paese si passeggiava.
Non c'erano molte macchine e quelle che c'erano erano parcheggiate ben chiuse a chiavi e magari coperte al fresco sotto casa.
Tutto il paese passeggiava lungo il lungo Viale della Libertà.
Tutti passeggiavano: i ragazzini, in frotte rumorose; le ragazze più grandi, in gruppi di tre o quattro, tenendosi sotto braccioi; le coppiette, magari con genitori o fratelli piccoli al seguito; gli anziani, che parlavano di calcio o di politica o di agricoltura; i giovanotti, in cerca di qualche ragazza da puntare.
Insomma, centinaia e centinaia di persone spalmate tutte sui 300 metri del viale centrale del paese che dalla chiesa, in piazza, raggiungeva l'ingresso del centro abitato e del camposanto.

Oggi la domenica pomeriggio il mio paese sembra un paese fantasma: non incontri un'anima viva, manco a pagarla oro.
Mia madre dice, e non è un paradosso: "potresti andare in giro nudo bruco!"
Alla messa vespertina quei pochi che ci vanno arrivano in macchina, si fanno scaricare davanti al portale della chiesa e quando escono trovano la stessa macchina che li aspetta, li carica quasi al volo e li scarrozza a casa.
Il cinema non c'è più: la sala parrocchiale è stata trasformata in sala giochi dai ragazzi dell'ACR.
Sporadicamente ospita qualche rappresentazione teatrale che rinfocola per una sola sera i fasti della vecchia e affollata sala di Don Erasmo Ruggiero, l'Arciprete.

Negli anni '60 una tale quantità di persone, che spontaneamente si riversava in strada faceva notizia e attirava, ovviamente, dai paesi vicini, una discreta quantità di venditori ambulanti improvvisati.
Voglio dire non commercianti navigati ma, generalmente, vecchi coltivatori che, per sbarcare il lunario oppure per non sprecare un pomeriggio o anche per pubblicizzare i loro prodotti, arrivavano appositamente con la loro Ape Piaggio carica, per rivendere, senza licenza - ma tanto chi li controllava - i prodotti della loro terra a quelli che passeggiavano in strada.
C'era quasi sempre un venditore di lupini.
I lupini erano la nostra frutta esotica.
Qualcuno più schizzionoso diceva che venivano spugnati nel piscio e non li comprava.
A me ricordava piuttosto la storiella della volpe e dell'uva: "...nondum matura est!"
Qualche volta al venditore di lupini in salmoia, con la sua conca di plastica verde e i coppetti di carta pane gialla impilati, ai margini della curva a metà strada, si affiancava un venditore di more di gelsi.
E qualche volta veniva da Scauri anche uno che tostava e vendeva le noccioline americane.
E qualche volta, dall'Arpetecata delle Cetrancole arrivava anche uno che vendeva gli agrumi frattesi.
Che sono buoni perchè, da quelle parti, il sole tramonta prima, sono più succosi e concentrati e non sono ...scaorathi.
Proprio il venditore di gelsi, anzi era una venditrice di more di gelso bianche, originaria di Selvacava, qualche anno prima che nascessi io, fece guadagnare a mio padre il soprannome che lo accompagnò finchè visse e che gli è sopravvissuto: Americano.
Mio padre  se ne andava a spasso con i suoi amici.
E, tra questi, c'era Giovanni Viccarone, che qualche anno dopo la sua morte mi raccontò l'aneddoto.
Si avvicinò alla venditrice di gelsi e vide che la sua cesta era quasi vuota.
Rimanevano poche manciate di gelsi mezzi spiaccicati dal peso e dai calci involontari, sul fondo.
Le propose allora di fare una "svendita" delle more di gelso rimaste sul fondo della grande cesta e, per aiutare la donna a convincersi presto, le sventolò in faccia qualche banconota da mille lire.
Mio nonno, il suo solo finanziatore, all'epoca aveva iniziato vari commerci tutti molto promettenti e non permetteva certo che il suo unico figlio andasse in giro senza una lira in tasca.
Perciò provvedeva a rimpinguare il suo portafoglio ogni volta che usciva.
Gli altri suoi amici, invece, con genitori meno abbienti o semplicemente meno prodighi, erano tutti squattrinati.
Inutile dire che l'affare si concluse, con la soddisfazione di tutti.
La donna, che aveva già fatto il suo incasso, accettò la generosa offerta di mio padre lasciando che i suoi amici afferrassero tutta la cesta dai manici e si allontanassero, per appartarsi a degustare quella che per loro doveva apparire come una vera e propria manna.
Tra i rumorosi festeggiamenti degli amici, Giovanni si rivolse a mio padre e, con tono compreso, gli disse:
"Totò, oggi hai compiuto un gesto da vero ...americano."
E da quel giorno il soprannome gli rimase appiccicato addosso indissolubilmente.
Per tutti sarebbe stato Totò, l'americano.
E lo è ancora.

giovedì 3 gennaio 2013

Presentazione del libro "Un'estate con Monika" di Salvatore M.Ruggiero

Giovedì 27 Dicembre alle ore 20,30 nell'Aula Consiliare del Municipio di Coreno Ausonio (Fr) nel corso della "II° Serata in Onore di Ingmar Bergman", dedicata alla filmografia del grande regista svedese, è stato presentato il quarto (il terzo dedicato a Bergman) libro di Salvatore M.Ruggiero:


"UN'ESTATE CON MONIKA"




Nel corso della serata è stato anche proiettato il film di Bergman "Monica e il desiderio" ("Sommaren med Monika", 1952) dal quale l'autore ha tratto larga ispirazione per la stesura del suo racconto.
Il libro, recensito dal chiarissimo prof. Michele Piccolino, contiene un saggio critico dedicato al film e un racconto breve ispirato all'autore dalla visione dello stesso film.


 Sinossi
  
"Monika e Harry Lund, due giovani in cerca di vita e d’amore, si conoscono in uno squallido bar.
Insoddisfatti dell’umile lavoro, della paga modesta, della vita grama e del ruolo irrilevante che occupano nella società, dec
idono di fuggire insieme e di girare il mondo vivendo alla giornata.
Raggiunta in motoscafo Orno, un’isola deserta nell’arcipelago di fronte a Stoccolma, vi si installano vivendo quasi allo stato brado. Si sostengono mangiando funghi spontanei raccolti nel bosco, frutti selvatici, frutta rubata dai frutteti vicini e, perfino, un trancio d’arrosto sottratto (da Monica) al buffet di una villa sull’isola vicina.
Trascorrono le lunghe giornate estive scherzando e facendo l’amore, oziando, parlando, osservando il tramonto e bagnandosi in mare.
Monika, che ha tanta voglia di vivere e di divertirsi, lascia a briglie sciolte la sua bellezza e la sua femminilità, con prorompente fisicità.
Almeno fino a quando non si accorge di essere in cinta e si vede costretta a confessarlo a Harry.
Alla fine dell’estate decidono d’interrompere la fuga e di tornare in città con l’intento di regolare il loro rapporto, aiutati dalla vecchia zia di Harry.
Cosa che puntualmente avviene.
Ma, dopo un litigio violento, nel quale Harry accusa Monika d’adulterio - che lei nega, confessando tuttavia d’amare ancora la sua vecchia fiamma Lelle - si lasciano.
Il film finisce con un flash-back nel quale Harry rivede in uno specchio i felici momenti estivi passati insieme a Monika.
…E un motoscafo si allontana sull’acqua."

(Da Un'estate con Monika di SMR)



A proposito del titolo del  libro, che altro non è se non la traduzione del titolo originale del film,
l'autore scrive.

I distributori italiani hanno tradotto improvvidamente il sincero Sommaren med Monika (Letteralmente: Un’estate con Monica, N. d. A.) con un più pruriginoso Monica e il desiderio, che fu proiettato nei nostri cinema solo nel 1961, sull’onda del successo internazionale di Bergman, (arrivato con "Det sjunde inseglet", Il settimo sigillo, 1957; "Smulltronstallet", "Il posto delle fragole", 1958; "Jungfrukallan", "La fontana della vergine", 1959; N. d. A.). Quel titolo bizzarro è così rimasto appiccicato ad un film che racconta la storia di un amore giovanile, quasi fosse una parabola evangelica, fatto d’illusione, gioia e poi amarezza e abbandono.” (Aldo Garzia, Bergman The Genius)
Niente di meglio, del resto, accadde negli Stati Uniti dove il titolo del film fu tradotto con un molto banale e fuorviante: "The story of a bad girl".
(SMR)


 
Dalla presentazione dello stesso autore si legge:


"La scintillante idea primigenia di questo mio libro, Un estate con Monika, squarcia il buio profondo di una tarda notte insonne di un giorno qualsiasi della mia vita. Detto in tutta onestà, a quell’epoca non potevo ancora sapere se, una volta terminato, esso avrebbe contenuto un racconto o un saggio. O meglio, se dovesse - o potesse - essere considerato soltanto un racconto o soltanto un saggio...".


Dalla prefazione del prof. Giovanni Invitto, Ordinario di Filosofia Teoretica dell'Università del Salento, ed esperto di cinema e di Bergman, si legge:

"...Il racconto Un’estate con Monika, riferendosi al non-detto da Bergman, radicalizza, manifesta, descrive, senza falsi pudori, la bulimia sessuale della giovane e bella donna e ci offre una lettura realistica, non datata, coinvolgente, di ciò che il regista svedese sessant’anni fa non poteva esplicitare, ma solo lasciar intuire. Salvatore M. Ruggiero ci aiuta a vedere anche dietro le tende del teatro."


Il libro di Salvatore M.Ruggiero:
UN'ESTATE CON MONIKA,
insieme agli altri libri dello stesso autore:

IL GENIO DI UPPSALA

 e PARLA CON BERGMAN



è reperibile sul sito di lulu.com all'interno della vetrina autore.

LINK:

http://www.lulu.com/spotlight/salvatoredotruggiero57atgmaildotcom



SMR