venerdì 4 gennaio 2013

Storie di paese. 24


Negli anni '60, in primavera, la domenica pomeriggio, prima della messa vespertina e del cinema nella sala parrocchiale, quando il sole era ancora alto e la temperatura gradevole, al mio paese si passeggiava.
Non c'erano molte macchine e quelle che c'erano erano parcheggiate ben chiuse a chiavi e magari coperte al fresco sotto casa.
Tutto il paese passeggiava lungo il lungo Viale della Libertà.
Tutti passeggiavano: i ragazzini, in frotte rumorose; le ragazze più grandi, in gruppi di tre o quattro, tenendosi sotto braccioi; le coppiette, magari con genitori o fratelli piccoli al seguito; gli anziani, che parlavano di calcio o di politica o di agricoltura; i giovanotti, in cerca di qualche ragazza da puntare.
Insomma, centinaia e centinaia di persone spalmate tutte sui 300 metri del viale centrale del paese che dalla chiesa, in piazza, raggiungeva l'ingresso del centro abitato e del camposanto.

Oggi la domenica pomeriggio il mio paese sembra un paese fantasma: non incontri un'anima viva, manco a pagarla oro.
Mia madre dice, e non è un paradosso: "potresti andare in giro nudo bruco!"
Alla messa vespertina quei pochi che ci vanno arrivano in macchina, si fanno scaricare davanti al portale della chiesa e quando escono trovano la stessa macchina che li aspetta, li carica quasi al volo e li scarrozza a casa.
Il cinema non c'è più: la sala parrocchiale è stata trasformata in sala giochi dai ragazzi dell'ACR.
Sporadicamente ospita qualche rappresentazione teatrale che rinfocola per una sola sera i fasti della vecchia e affollata sala di Don Erasmo Ruggiero, l'Arciprete.

Negli anni '60 una tale quantità di persone, che spontaneamente si riversava in strada faceva notizia e attirava, ovviamente, dai paesi vicini, una discreta quantità di venditori ambulanti improvvisati.
Voglio dire non commercianti navigati ma, generalmente, vecchi coltivatori che, per sbarcare il lunario oppure per non sprecare un pomeriggio o anche per pubblicizzare i loro prodotti, arrivavano appositamente con la loro Ape Piaggio carica, per rivendere, senza licenza - ma tanto chi li controllava - i prodotti della loro terra a quelli che passeggiavano in strada.
C'era quasi sempre un venditore di lupini.
I lupini erano la nostra frutta esotica.
Qualcuno più schizzionoso diceva che venivano spugnati nel piscio e non li comprava.
A me ricordava piuttosto la storiella della volpe e dell'uva: "...nondum matura est!"
Qualche volta al venditore di lupini in salmoia, con la sua conca di plastica verde e i coppetti di carta pane gialla impilati, ai margini della curva a metà strada, si affiancava un venditore di more di gelsi.
E qualche volta veniva da Scauri anche uno che tostava e vendeva le noccioline americane.
E qualche volta, dall'Arpetecata delle Cetrancole arrivava anche uno che vendeva gli agrumi frattesi.
Che sono buoni perchè, da quelle parti, il sole tramonta prima, sono più succosi e concentrati e non sono ...scaorathi.
Proprio il venditore di gelsi, anzi era una venditrice di more di gelso bianche, originaria di Selvacava, qualche anno prima che nascessi io, fece guadagnare a mio padre il soprannome che lo accompagnò finchè visse e che gli è sopravvissuto: Americano.
Mio padre  se ne andava a spasso con i suoi amici.
E, tra questi, c'era Giovanni Viccarone, che qualche anno dopo la sua morte mi raccontò l'aneddoto.
Si avvicinò alla venditrice di gelsi e vide che la sua cesta era quasi vuota.
Rimanevano poche manciate di gelsi mezzi spiaccicati dal peso e dai calci involontari, sul fondo.
Le propose allora di fare una "svendita" delle more di gelso rimaste sul fondo della grande cesta e, per aiutare la donna a convincersi presto, le sventolò in faccia qualche banconota da mille lire.
Mio nonno, il suo solo finanziatore, all'epoca aveva iniziato vari commerci tutti molto promettenti e non permetteva certo che il suo unico figlio andasse in giro senza una lira in tasca.
Perciò provvedeva a rimpinguare il suo portafoglio ogni volta che usciva.
Gli altri suoi amici, invece, con genitori meno abbienti o semplicemente meno prodighi, erano tutti squattrinati.
Inutile dire che l'affare si concluse, con la soddisfazione di tutti.
La donna, che aveva già fatto il suo incasso, accettò la generosa offerta di mio padre lasciando che i suoi amici afferrassero tutta la cesta dai manici e si allontanassero, per appartarsi a degustare quella che per loro doveva apparire come una vera e propria manna.
Tra i rumorosi festeggiamenti degli amici, Giovanni si rivolse a mio padre e, con tono compreso, gli disse:
"Totò, oggi hai compiuto un gesto da vero ...americano."
E da quel giorno il soprannome gli rimase appiccicato addosso indissolubilmente.
Per tutti sarebbe stato Totò, l'americano.
E lo è ancora.

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