lunedì 27 gennaio 2014

27/01 Giornata della Memoria

(27 gennaio 2010 alle ore 17.40)

Da piccolo l'ho vista la Shoah.
Meglio, quello che la Shoah lasciò dietro di se.
Le ceneri, ancora fumanti, della Shoah.
Alla televisione, appena comprata.
Ma, quella non era la Shoah. No!
Era solo una pallida idea di ciò ch'era stata, la Shoah.

Ho visto i bulldozer spalare cataste di cadaveri dalle fosse di Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Auschwitz o Treblinka.
Ho visto i bulldozer ammassare montagne di corpi.
Corpi che in vita erano stati. Un tempo.
Ed ora erano oggetti. Cose. Fatte di pelle e di ossa.
Cadaveri scheletriti di chi, strappato alla vita, una volta era stato un essere umano.

A quegli uomini hanno tolto i beni e la libertà.
L'identità e la dignità. L'amore e la pietà.
Infine, hanno tolto loro anche la vita.
Ma non sono riusciti a portare via la loro anima.

Un bel giorno d'estate, di vent'anni fa, sono andato a Dachau.
Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Auschwitz o Treblinka è lo stesso.
Sono posti tutti uguali.
Cimiteri tristemente famosi.
Lì ho visto coi miei occhi cosa era stata la Shoah.

Lì ho visto montagne di scarpe che, un tempo, calzavano piedi umani.
Ho visto ciocche di capelli pettinati ogni sera, brulicanti di pidocchi.
Ho visto mucchi di denti, bianchi come perle oppure neri e marci.
Come ultimo pasto hanno mordicchiato una rapa o una radice di cavolo.
I più fortunati, fra quei denti cavati, hanno assaporato, per l'ultima volta, il gusto di una carota marcia.

Ho visto cumuli di occhiali che hanno aiutato chi l'inforcava a vedere, leggere e scrivere.
Ora erano miseramente divelti, storti, rugginiti.
Nel buio della ragione, non sono più serviti a vedere, a leggere, a scrivere.
Ho visto cataste di valigie, di cuoio e di cartone,
vuote, ammassate l'una sull'altra.
Non contenevano nulla.
Chi si reggeva forte alle maniglie di cuoio o di cartone aveva fatto il suo ultimo viaggio.
E non sospettava che quel viaggio era di sola andata.

Anche chi era ben vestito non poteva sospettare nemmeno che a Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Auschwitz o Treblinka, gli sarebbero bastati pochi cenci, addosso.
Non sapeva che avrebbe perso la libertà di vestirsi, di leggere, scrivere e di guardare il mondo. Bello o brutto.

A Dachau ho visto i forni crematori.
Bocche aperte e sdentate. Ancora spalancate.
Come aspettassero, trepidanti e insaziabili, altre infornate di poveri cristi ignari del proprio destino.
A Dachau ho visto le camere a gas.
E pesanti porte di ferro che sigillavano l'aria.
Gli ugelli del gas sembrano ancora pronti a sfiatare veleni. A togliere l'aria.

Sono stato a Dachau. Un bel giorno d'estate.
E' come essere stati a Mauthausen, Buchenwald, Auschwitz o Treblinka.
Non c'era più freddo e nebbia e morte da respirare.
Ho visto cosa dev'essere stata la Shoah.
Non ho visto morire nessuno.
Ma ho visto lo stesso, in faccia, la Morte.
L'ho respirata. L'ho annusata dall'aria.
E' brutta la Morte.
Io non dimenticherò cosa può essere stata la Shoah.

E, se Memoria significa non dimenticare,
tutti dovrebbero fare lo sforzo ulteriore di non dimenticare .......l'indimenticabile.
Tutti dovrebbero ricordare.
Chi non l'ha vissuta e chi non vorrebbe più ricordarla.
Chi pagherebbe per dimenticarla e chi vorrebbe non fosse mai avvenuta.
Chi è contento d'essersi risvegliato dall'incubo più brutto che l'umanità ha mai vissuto e chi è contento per essere tornato dall'Inferno in terra.
La Shoah.

E, se, fra cento o mille anni, qualcuno che ancora ricorda si chiederà cos'era la Shoah, gli si risponderà che la Shoah è stata l'inferno in terra. E l'inferno è meglio che stia all'inferno.
E quel qualcuno non scorderà.
E anche gli altri non scorderanno.
La Shoah.

(Componimento di Salvatore Ruggiero, presentato al Concorso Nazionale di Poesia 2010: "L'OLOCAUSTO", organizzato dall'Amm.ne Com.le di Coreno Ausonio per la Celebrazione della Giornata della Memoria.)

domenica 26 gennaio 2014

P0NTE MELFA, tra antico e moderno, tra sacro e profano



Stamattina (22 Gennaio 2014)
sono in Val di Comino, una delle valli paesaggisticamente più belle della Ciociaria Felix. 
Ed anche una di quelle più ricche di storia e di cultura.
La valle è immensa, piena d'erba, alberi e piante, davvero rigogliosa. 
Sembra un catino verde. 
Contornata da una corona di alte montagne. 
D'inverno, fino a primavera inoltrata, sono piene di neve. 
Come oggi.
La vallata è attraversata dal fiume Melfa e disseminata di abitazioni di nuova costruzione e di antichi paesini, almeno una dozzina, che sembrano sparsi a terra casualmente come i grani di un rosario rotto. 
Atina, Alvito, Casalattico, Gallinaro, San Donato Val di Comino, Settefrati, Picinisco; San Biagio Saracinisco, Casalvieri, Vicalvi, Posta Fibreno, Ponte Melfa.

Ponte Melfa è la mia meta, ci arrivo n una mattinata uggiosa, c'è molta umidità ma per fortuna non c'è nebbia sulla 630, a tratti un timido sole fa capolino tra le nuvole spesse.
Fa molto freddo, ma tutto sommato è sopportabile, specie se ti muovi a piedi ed io, che non ho molto tempo, devo muovermi a piedi e velocemente per vedere il più possibile.



Parcheggio la macchina proprio a metà del decumano principale del paese, non si paga, la prima buona notizia, si può sostare un ora, per me sarà più che sufficiente.



Percorro a ritroso la strada che ho appena fatto in macchina, mi dirigo verso la rotonda coi capitelli romani dalla quale provengo, un km o poco più.
 



Passo sul ponte sul fiume che da il nome alla nuova cittadina, proprio al centro del greto, vicino a una piccola cateratta, scorgo - è appena visibile - uno splendido esemplare di germano reale, che da come strilla pare molto nervoso.



Vado a fotografare quello che resta di un'antica tomba romana, la cittadina è di nuova costruzione ma sorge su un territorio che molti dicono urbanizzato molto prima della stessa nascita di Roma.

La grande quantità di mura ciclopiche, di vestigia antiche e di tombe pre-romane (ne sono state scoperte e censite 22) pare confermare questa impenativa tesi.



La leggenda narra che Atina sia una delle 5 città (penta-poli) della Ciciaria (con Anagni, Arce, Arpino ed Alatri)  fondate da saturno, in fuga dall'Olimpo, con l'aiuto di Giano, che prima lo nascose all'ira di Giove, poi lo ospitò definitivamente nel Lazio.

Quello che ho davanti è ciò che resta di un monumento funerario a torre, di cui rimane un nucleo laterale (di quattro originari) fatto a sacco con pietre e malta. 
Nelle fondamenta della tomba (meglio, di quello che rimane) pare siano ancora conservati i resti mortali di una antichissima principessa aurunca.

Una signora che abita in fondo al vicolo si ferma spontaneamente a parlare con me mentre scatto qualche foto e mi spiega che il tempio originariamente era monumentale, formato da quattro enormi plindi con quattro torri collegate, uguali a quella che resta in piedi, ricoperti da lastre di travertino di Tivoli grezzo, e mi fa pure notare l'asta di ferro arruginito con le coppiglie di vetro verde per i fili dela prima rete di elettricità pubblica che sbuca da un lato sulla sua sommità.
L'incuria e la distruzione delle vetigia antiche e del nostro sterminato patrimonio artistico e archeologico non è cosa di oggi.





Un signore un pò malmesso, in eskimo e camicia scozzese, con un bastone da passeggio in mano - lo brandisce come una clava - mi si avvicina minaccioso e sospettoso, si è autoproclamato custode del sito e quando vede qualcuno che si avvicina troppo, lui lo caccia facendo il mastino, dice che più di uno, in passato, ha portato via pietre e reperti dal muro per ricordo.

Prima di andare via e di rincasare anche la donna aggiunge un ultimo aneddoto, con una punta d'orgoglio, dice che durante l'ultima scossa di terremoto (quì sono molto frequenti) la colonna ha oscillato pericolosamente per qualche lungo secondo e, alla fine, si è assestata nella posizione originaria, quasi miracolosamente, senza perdere un solo pezzo.
Del resto siamo a due passi dal bambinello e dalla madonna (di Canneto) e quì sono tutti devoti








All'altro lato della piazza il più bieco degli stereotipi ciociari, la fontanella di marmo sovrastata dalla cannata, anch'essa di marmo.





E per non farci mancare proprio niente - siamo o non siamo in provincia di Frosinone - il manifesto di un evento considerevolmente importante, la marchetta dell'attore di fiction tv Rai Gabriel Garko in una delle tante discoteche della zona.





L'edificio che ospita l'ufficio postale è la cosa più brutta di Ponte Melfa.






Nell'unica piazza del centro, poco lontano da dove ho lasciato la mia macchina, al crocevia per la Madonna di Canneto e per la strada che porta al Bambino Gesù di Gallinaro, c'è l'immancabile agenzia della Banca Popolare del Cassinate (in tutto il cassinate ce n'è una in ogni paese) la banca della famiglia Formisano, pubblicizzata enfaticamente come la banca che fa anche cultura,
cercano di dimostrarlo con un colorato calendario di 4 eventi che sta attaccato sul muro a lato dell'ingresso, a futura memoria. 
















sabato 25 gennaio 2014

Franco Arminio, la bottiglia, i paesani e la paesologia


La paesologia (da non confondere con la paesanologia che studia quello che il paese è stato in passato) ha l'ambizione di analizzare il paese come si vede, quindi com'è, come appare, e di dire come potrebbe o dovrebbe essere, per apparire o essere migliore. 
Uno degli ultimi pensatori italiani veri: Raffaele La Capria, in un suo piccolo ma preziosissimo saggio, La mosca nella bottiglia, sostiene, con una geniale metafora, che la mosca imprigionata nella bottiglia, pensa di essere libera perché vede il mondo esterno ma, ovviamente, tutti i suoi tentativi di uscire dalle pareti trasparenti della bottiglia saranno vani. 
La mosca non uscirà mai dalla bottiglia individuandone l'unica uscita possibile: attraverso il collo, se non sarà aiutata a uscirne. 
Da chi? 
Dalla filosofia! 
Ecco! 
Secondo me, Franco Arminio e la paesologia (come la filosofia per la mosca intrappolata nella bottiglia) possono aiutare i paesani a uscire dalla bottiglia, ad emanciparsi, a liberarsi dalle catene che li tengono legati al loro destino che, altrimenti, appare ineluttabilmente segnato. 
La paesologia è la filosofia dei paesi.



                                         

                                            Il brano è tratto dalla presentazione del mio libr

Storie dal paese
dei ciclamini

Appunti di paesologia





venerdì 24 gennaio 2014

Panzanella il carrozziere

27
Il facondo meccanico Giuseppe Panzanella mi racconta i suoi aneddoti mentre gonfia le gomme della mia macchina.  
"Tuo padre venne una volta da me quando avevo l'officina nella parte alta del paese e mi scoprì a fumare, lui aveva smesso e mi disse: con quello che hai nei polmoni potrebbero asfaltarci una strada." 
 Giuseppe, incredulo, andò subito a riferire la cosa a un suo vicino d'officina più anziano, il quale conferma: 
 "E' vero - gli disse il vecchio saggio Arcangelo - anch'io fumavo e non respiravo e una volta in ospedale hanno dovuto sturarmi i polmoni, c'era davvero l'asfalto."


magie di luce nel cucinino della LATTAIA


     Nel cucinino della lattaia, ancora prima che fuori, anche quell’altra lunga giornata estiva morente stava cedendo il suo posto al crepuscolo – pigramente, quasi con riluttanza. 
     Gli ultimi bagliori dorati del sole, che all’esterno disponeva perché il riverbero d’ogni suo singolo raggio andasse ad incendiare un tetto del paese, circonfusi nell’angusto locale, contribuivano a creare un’incantevole atmosfera rarefatta - uno sbalorditivo drammatico effetto di luci e ombre. 
     Un’aura irreale, quasi metafisica, avvolgeva l’ambiente e tutto ciò che, animato o inanimato, vi si trovava al momento. 
     Era come perdere gli occhi in uno spettacolare caleidoscopio; come mirare nella stessa camera oscura del pittore[1].


[1] E’ fatto noto - ma controverso, tra gli esperti d’arte - che Vermeer fosse solito ricreare nel suo studio l’assemblaggio dei soggetti che intendeva riprodurre nei suoi quadri, controllandone l’assetto attraverso l’obiettivo di un innovativo strumento ottico, chiamato appunto “camera oscura”.




http://www.lulu.com/shop/salvatore-m-ruggiero/le-stagioni-della-lattaia-il-racconto-breve-della-donna-che-mesceva-il-latte-con-altre-sette-piccole-storie/paperback/product-21125289.html

giovedì 23 gennaio 2014

in italia c'è gente che per entrare in casa passa in un arco gotico

un amico contadino

Solo adesso, da grande, a distanza di qualche decennio, penso d’avere finalmente compreso la reale natura del richiamo che quella persona rustica quieta e senza fronzoli, esercitava su di me - ciò che all’epoca mi affascinava veramente della sua essenziale ma pregiata personalità. 
Da come agiva, da come gestiva la sua vita, posso finalmente arguire che Giovanni fosse riuscito a stabilire un rapporto dinamico col tempo. 
Se n’era impossessato, diventandone padrone assoluto. 
Sembrava averlo addomesticato. Silenzioso lo amministrava mentalmente per arrivare a gestirlo in concreto. Sempre in grado di modellarlo sulle sue misurate eppure sontuose abitudini. 
Non permetteva che il tempo scandisse i suoi ritmi circadiani, se li regolava da solo, come pure i ritmi delle sue giornate, lunghe o corte, dure o leggere, piene o noiose che fossero. Pareva aver reso l’inesorabile corsa del tempo sua propizia alleata, invece che avversaria inclemente. 
Per dirla con Tomas Mann era consapevole del fatto che non solo ogni cosa buona vuole il suo tempo, ma anche ogni cosa grande. 
Così, come si regola un metronomo, Giovanni regolava le sue ventiquattrore, aumentandone o abbassandone la frequenza secondo le sue necessità. E facendo, per lo più, quello che, compatibilmente coi suoi impegni, gli procurava piacere fare - che si trattasse del suo lavoro, o anche delle sue passioni. 
Giovanni era paziente, calmo, costante, tenace, in tutto ciò che voleva realizzare. 
S’era allenato per tempo, col tempo e nel tempo, a non essere impaziente - mai. A saper attendere, ad aspettare con autocontrollo che gli eventi su cui faceva affidamento si compissero. 
Del resto il suo lavoro richiedeva proprio queste qualità, basato com’è sulla marcia del tempo, sul ciclico scorrere delle stagioni, sull’attesa, sempre tranquilla, mai insofferente, della lenta maturazione dei frutti. 
Insomma, di tutti i miei conoscenti, Giovanni era l’unica persona che mi appariva capace di esercitare sul suo tempo un controllo diretto - o, quantomeno, di non soffrirne la corsa. E, insieme, di contenere gli effetti di certi - diciamo così - fatali disguidi. 
Impresa non facile per gli altri cristiani.

mercoledì 22 gennaio 2014

il sogno di Gerardo

 
Come tutti gli umani, anche Gerardo agitava nell’anima 
il suo sogno. Segreto, ma nemmeno tanto. 
Diceva, a chiunque incontrava, che voleva andare in America. 
S’era perso sulle strade del mondo. Voleva perdersi sulle strade d’America. 
Forse per l’ultima volta. 
Intanto che aspettava di raggiungerla viveva già in uno straordinario nuovo mondo tutto suo. Una specie di strano limbo affollato di personaggi stralunati e istintivi - pellegrini bene andanti in questo mondo, come lui. 
- “Uno di questi giorni me ne parto. Vado alla… Merica!” proclamava solenne verso tutti. Adulti e bambini. Giovani e vecchi. 
Gerardo brandiva la sua sgrammaticata informazione come un randello - tanto la considerava strepitosa. 
Non sapeva di minacciare un distacco doloroso solo per lui - e per nessun altro. 

Non so se fosse spinto a un tale drammatico annuncio dalla voglia, sincera ma tardiva, di cambiare vita - d’allontanarsi per sempre dal paese nativo. 
O, invece, dal desiderio di realizzare un sogno tenuto nascosto per molto. 
Di certo il sogno più grande della sua vita. 

Gerardo già si vedeva issato dritto sul ponte più alto di un transatlantico. 
In fondo a tre settimane di traversata e di stiva. 
Morto di sonno e di stanchezza, stravolto dalla fame, spossato dalla nausea e dal vomito - ma felice. 
Riesco ad immaginare la probabile scena. 
Si! E’ proprio lui! Lo vedo! E’ Gerardo, quel piccolo uomo avvinghiato forte al corrimano salato del parapetto; il viso arrossato dal freddo; schiaffeggiato dell’acqua ghiaccia dell'oceano. 
Si regge il cappello schiacciato sulla testa rotonda. 
Il respiro è affannoso, controvento. 
Il petto è gonfio dell’ansia di chi si appresta a calpestare il sospirato molo di Ellis Island

In spalla un saccappà pieno del meno di niente che aveva. 
Ed ha la stessa faccia da grullo di sempre - solo appare un po’ meno avvilita.
 


martedì 21 gennaio 2014

il mio paese

 
Io penso che alla sua nascita - mille anni fa - il mio paese fosse molto diverso da com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore. E, a suo modo, doveva pure essere bello. 
Posso immaginare com’era - senza sforzo. 
Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono sul sofà con gli artigli ficcati nello schienale. 
Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali. Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale. 
Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta. 
Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. 
Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante. 

 

lunedì 20 gennaio 2014

Era mio padre


Era mio padre

Mio padre è morto già da quasi vent'anni – mi sembra ieri. 
Se n’è andato quando tutti avevamo ancora bisogno di lui. 
Ce l’ha portato via un cancro allo stomaco. Causa del decesso: Adenocarcinoma Gastrico. L’unica malattia che temeva davvero. Tutte le altre le avrebbe prese a calci nel culo. 
Quella no. Di quella aveva veramente paura. Si era convinto che anche sua madre - mia nonna - ne fosse morta. E anche lei prematuramente. 
Lui stava già cominciando a morire. Ma nessuno di noi s’è accorto ch’era gravemente ammalato. 
Neanche il dottore incapace al quale si era rivolto fiducioso - voleva curarlo col Ranidil?! - che per vedergli dentro lo stomaco gli ha cacciato dieci volte un tubo nero in gola. 
Solo lui presagiva la fine del viaggio. 
Ricordo - chi potrà mai dimenticarlo - l’ultimo sguardo rivolto dalla strada, verso casa, in alto, prima di salire in macchina, il giorno che partì per il S. Eugenio. 
Era avvilito, sapeva che non sarebbe più tornato. 
Era una luminosa mattina di giugno, ma una notte buia gli era già calata addosso. 
La sua fine improvvisa a tutti è sembrata una beffa. 
Proprio l’organo che permette agli uomini di sopravvivere, dentro di lui si è rifiutato di funzionare ancora. Come impazzito, l’ha ucciso. 
Quel male è ferocemente subdolo. Ti attacca da dentro, silenzioso e invisibile. Ti consuma inesorabile, mentre continui a fare tutto normalmente. 
Spesso non ti accorgi d’averlo se non quando è troppo tardi. 
Allora ho capito veramente come siano fragili gli uomini, anche quelli che sembrano forti. Come siamo fragili. 

Reclamando dall’uomo distratto che stava di guardia il permesso d’entrare da solo nella stanza fredda, ho voluto salutare mio padre per l’ultima volta. 
Siamo stati insieme per lunghi minuti, ma entrambi eravamo soli. 
Lui impietrito, avvolto in lenzuolo bianco; io senza parole, raccolto in una preghiera muta, il viso segnato dalle ultime lacrime che avevo da versare. 
Ma, come per un miracolo, il suo volto non era più sofferente. 
Papà sembrava guarito - restituito per sempre all’espressione serena di sempre. Quella che nelle eterne settimane precedenti avevo dimenticato. 
Ho avuto l’audacia di scoprire il suo corpo. Era nudo sotto il sudario. L’ho osservato per interminabili momenti. Ho letto, cucita nelle sue carni, una lunga inutile ferita - testimone della scienza impotente che s’arrende al mistero insopportabile della Vita e della Morte. 
E’ stata la prova più dura di tutta la mia vita. 
Sembra mostruoso, ma può essere lecito, scoprirsi a pregare perché una persona che ami non viva più, sofferente, ma si spenga al più presto. 

Oggi, quando mi capita d’entrare nella chiesa deserta percepisco ancora gli echi del necrologio commosso del suo collega più caro - interrotto dai frequenti singhiozzi degli altri. Uscendo, avverto lontano il crepitio sordo dell’ultimo applauso al passaggio della bara portata a spalla dai suoi amici più fedeli - mentre sulla piazza cala, come un velo pesante, immateriale e dolente, il fiacco rintocco della campana a martello dei morti.