domenica 19 marzo 2017

In memoria di mio padre.

Ho reclamato, dall’uomo distratto che stava di guardia,
il permesso di entrare da solo,
nella stanza fredda.
Ho voluto salutare mio padre,
per l’ultima volta.
Siamo stati insieme per lunghi minuti,
ma entrambi eravamo soli.
Lui impietrito,
avvolto in lenzuolo bianco;
io senza parole,
raccolto in una preghiera muta,
il viso segnato dalle ultime lacrime che avevo da versare.
Come per un miracolo,
il suo volto non era più sofferente.
Papà sembrava guarito,
restituito per sempre all’espressione serena di sempre.
Quella che nelle eterne settimane precedenti avevo dimenticato.
Ho avuto l’audacia di scoprire il suo corpo.
Era nudo,
sotto il sudario.
L’ho osservato per interminabili momenti.
Ho letto, cucita nelle sue carni, una lunga inutile ferita,
testimone della scienza impotente,
che s’arrende al mistero insopportabile della Vita e della Morte.
E’ stata la prova più dura di tutta la mia vita.
Sembra mostruoso,
ma può essere lecito,
scoprirsi a pregare perché una persona che ami non viva più,
sofferente,
ma si spenga al più presto.
Oggi,
quando mi capita d’entrare nella chiesa deserta,
percepisco ancora gli echi del necrologio commosso del suo collega più caro,
interrotto dai frequenti singhiozzi degli altri.
Uscendo,
avverto lontano il crepitio sordo dell’ultimo applauso,
al passaggio della bara,
portata a spalla dai suoi amici più fedeli,
mentre sulla piazza cala,
come un velo pesante,
immateriale e dolente,
il fiacco rintocco della campana a martello dei morti.