martedì 11 novembre 2014

La presentazione del mio ultimo saggio bergmaniano:

"LA FIGURA DEL PADRE NEL GRANDE CINEMA DI INGMAR BERGMAN"

Presentazione

Ingmar Bergman, per sua stessa ammissione, ha usato il suo cinema, la sua arte, i suoi film anche come normalissimo, prosaico strumento per raggiungere una fama globale imperitura e per assicurarsi, prima l'agiatezza economica, poi una vera ricchezza, che spesso gli sono mancate: si pensi, ad esempio, al suo disastroso inizio di carriera. Ed ha usato - anche di questo particolare veniamo a conoscenza per sua stessa ammissione - i film come vere e proprie sedute di auto-psicanalisi. Ha lavorato nel cinema trasmettendo agli attori - attraverso le sue sceneggiature e le sue riprese - le sue proprie angosce, le sue proprie paure, le sue proprie psicosi. Perché essi, interpretando i suoi personaggi, le trasmettessero allo spettatore. A noi.
Non ha mai fatto mistero di avere accumulato nel corso della sua infanzia problematiche psicologiche, derivanti dagli strani e complessi rapporti intrattenuti, suo malgrado, con la madre ma anche e soprattutto, col padre. A proposito di tale sofferto rapporto famigliare, egli stesso ammise: “Immagino che i più forti impulsi a girare Il posto delle fragole siano derivati proprio dal dissidio coi miei genitori. Io mi ritraevo nella figura di mio padre, cercando spiegazioni alle amare controversie con mia madre. Credevo di capire di essere stato un bambino non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi... fisica e psichica. Il diario di mia madre ha in seguito confermato questa mia impressione: mia madre era profondamente ambivalente nei suoi sentimenti verso il suo disgraziato, morente bambino1.”
Ingmar Bergman non ha mai evitato di parlare dei suoi personali problemi, magari preferendo trincerarsi dietro a più opportuni silenzi, oppure dietro al comodo paravento di strategiche omissioni o anche dietro a una artificiosa mancanza di chiarezza.
Ha lui stesso messo i suoi estimatori a parte dei piccoli o grandi segreti personali spesso sconvenienti e poco affascinanti, se non addirittura imbarazzanti.
Insomma, pur attribuendosi una buona dose di genialità artistica ed ammettendo l'indiscussa ed indiscutibile grandezza di alcune delle sue opere, non ha mai rifiutato il suo ruolo di uomo storico, pieno di difetti; di essere umano con luci e ombre; di persona in fondo normale, potenzialmente geniale, ma anche debole e fallibile.
Lui stesso ne ha parlato apertamente e scritto altrettanto chiaramente nelle sue varie autobiografie.
A modestissimo avviso dell'autore di questo saggio, anche in questo suo anticonvenzionale, originale ed estroso atteggiamento va ricercata una parte cospicua della sua grandezza.

E' noto, anche ai cultori più superficiali del cinema del grande maestro svedese, che il padre Erik, severo pastore protestante, impartì ai figli una rigida formazione, basata su una cieca obbedienza ai genitori, una perfetta conoscenza dei testi biblici e dei principi della religione protestante, un senso di responsabilità luterano e - direi - kierkegaardiano, una solida cultura religiosa generale e una educazione spartana. In questo breve scritto si tenterà di esaminare la valenza che Ingmar Bergman attribuisce al ruolo del padre ed anche di come abbiano profondamente influito sulla sua filmografia i conflittuali rapporti con esso, attraverso la rapida analisi di cinque degli oltre cinquanta film che costituiscono la eccezionale produzione del maestro svedese. 



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