lunedì 23 ottobre 2017

Ad Alberto, compagno di gioventù.

Ciao Alberto,
l'altro giorno ho saputo che te ne sei andato da questo mondo. 
Improvvisamente. Non so come, né perché. Ma quello, onestamente, mi interessa poco. 
E' pure inutile che ti dica che alla sconcertante notizia, appresa attraverso il social che frequento, sono rimasto basito.
Ora che hai molto da fare, tutto impegnato a salutare i tuoi cari e la tua vita piena, probabilmente il mio nome non ti dirà niente. 
Potrei, forse, smuovere qualche ricordo nella tua testa facendoti vedere qualche mia foto di 40 anni fa. Di quando eravamo giovani,  belli, pieni di speranze e iperattivi. Se avessi buona memoria: se avessi una memoria come la mia certo ti ricorderesti chi sono. 
Ma, come potrei biasimarti per la tua amnesia, se ci siamo incrociati poche volte, per qualche ora appena e quasi mezzo secolo fa? 
Ci incrociammo, che eravamo appena ventenni, nella nostra piccola Coreno, come si incrociano due granelli di pulviscolo atmosferico nell'universo infinito. 
L'occasione, se ora ricordi, fu qualche amico comune, la tua simpatia contagiosa e la comune passione per lo sport, in particolare, per la pallacanestro. 
E come poteva essere il contrario se tu venivi da Varese, la culla del grande basket italiano? 
Anzi ti stupì molto, e molto positivamente, di trovare al sud, nel tuo paesello d'origine, una agguerrita squadretta di coetanei appassionati, aggressivi e mal vestiti che si era appena iscritta a un torneo estivo. Con i tuoi terzi tempi devastanti, ci avresti aiutato a vincerlo. Ti ricordi ora della enorme coppa dorata che ci diedero in premio gli odiati ausoniesi? Hahahahahaha!!!!!!
Ma, se non sbaglio persona, ti piaceva anche il tennis. Almeno quanto piaceva a me.
E, un altro paio di altre volte ci trovammo a incrociare le nostre vecchie Slazengher di legno nel campetto che l'amministrazione aveva realizzato agli Stavoli, alla Scuola Elementare. 
Era verde e stretto, quasi senza out, e ti lamentavi perché i tuoi recuperi prodigiosi, i tuoi formidabili allunghi laterali, le tue armi vincenti, erano quasi impossibili. 
E giù teorie interminabili bestemmie nel tuo curioso dialetto ad ogni quindici perso senza colpa. 
Adesso, dall'espressione che scorgo sul tuo viso disteso, scommetto che ti sei ricordato chi scrive queste due righe per te. 
Si! Sono proprio io. Sono Salvatore - gli amici mi chiamavano Totore - il figlio dell'Americano, il maestro Antonio Ruggiero. 
Era, anno più anno meno, coetaneo di tuo padre. Anche loro, i nostri amati padri, se ne sono andati da un po'. Se sei arrivato in Paradiso e sei fortunato potrai vederli e salutarli. Probabilmente in questo preciso momento stanno giocando a pallone nelle nuvole. Così passano il tempo: facendo quello che gli piaceva di più, oltre a passeggiare sulle nostre montagne. 
Che altro posso dirti? Niente di più di quello che ho detto. 
Anzi no. Un ultima cosa voglio scriverla. Avrei preferito incontrarti ancora, anche solo una volta, da attempati signori quali entrambi siamo diventati, mentre passeggi nei vicoli del nostro amato paesello, anche con un'espressione seria, magari anche taciturna, perfino triste, piuttosto che vederti fintamente sorridente nella foto che un caro amico ha messo a corredo del tuo necrologio.
A questo punto può confortarci solo il pensiero che, in questo crogiolo di drammi oscuri e di commedie tragicomiche che ci ostiniamo a chiamare Vita; in questa Partenza triste; in questo Commiato ineluttabile che, prima o poi, tocca a tutti noi, tu, in fondo, ci hai solo preceduti.
Ciao ancora Alberto, compagno indimenticato di pochi ma felici pomeriggi di gioventù. 
Che il viaggio eterno ti sia lieve.



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