sabato 25 gennaio 2020

Quando... non c'è limite al dolore.

   Non c'è limite al dolore. Ci sono dolori che sembrano senza limite. Esistono dolori ai quali pare impossibile sopravvivere; che sembrano umanamente impossibili da superare. Tenta di soccorrerci la scienza, la biologia in particolare: l'essere umano, infatti, pare creato per superare i suoi limiti, anche i limiti umanamente sopportabili di dolori che improvvisamente appaiono insopportabili e, di conseguenza, insuperabili. Ecco spiegato perché il dolore non ci uccide. Ecco perché, anche quando il dolore sembra (o realmente lo è) insopportabile, anche quando il dolore sembra insuperabile, noi riusciamo, attraverso risorse inusitate, insperate, che nemmeno sospettavamo di possedere, prima a sopportarlo, poi addirittura a superarlo. La psicologia, la scienza dell'animo umano, per spiegarcelo, ha creato un concetto particolare, una nozione nuova su un sentimento antico come il primo uomo, spiegandoci che si tratta di Resilienza: cioè della naturale, spontanea, quasi meccanica capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà; della abilità, perché in realtà di questo si tratta, di riuscire a ricostruire la propria vita, riorganizzandola sulle macerie lasciate dalle difficoltà. Tuttavia mi pare il caso di rilevare come nessuno di noi sia in grado di conoscere la propria Resilienza ex-ante. Quale sia la reale capacità della nostra Resilienza, quale possa essere la nostra risposta, lo scopriamo solo ex post, dopo aver subito il trauma. Ergo, per capire quale sia la nostra capacità reale di reagire al trauma e al dolore che ne consegue dobbiamo essere messi alla prova; dobbiamo essere le vittime di un trauma doloroso. Così appare ovvio che anche per me sia stato così. Sono passati due anni dalla mia ultima esperienza di dolore; dal mio dolore più grande: la morte della mia compagna di vita. Era il 23 gennaio del 2018, ora siamo arrivati al 23 gennaio del 2020. Posso dire di essere sopravvissuto al trauma e al dolore. Non c'era (non c'è) limite al mio dolore. Non c'era (non c'è) nessuno e niente al mondo che apparisse in grado di alleviarlo. Mi pareva che da un momento all'altro il mio cuore, gonfio di dolore, potesse scoppiare. Non c'era medicina, non c'era farmaco, non esisteva una panacea. C'erano solo palliativi. Capivo solo che fino a quando io fossi stato in vita anche lui, anche il dolore, sarebbe stato con me, sarebbe rimasto con me, al mio fianco, nella mia testa, nel mio cuore gonfio; percepivo che non mi avrebbe mai abbandonato; preconizzavo che mi avrebbe accompagnato, come un muto compagno di strada, forse per sempre. Ed era, anzi è così. Il dolore che c'era, c'è ancora, c'è sempre. Solo che si è trasformato, è mutato, ha cambiato forma. Ora cerco perfino di descriverlo. Di descrivere questo suo mutamento. Finendo quasi per riuscirci. Proprio in questo mi ha aiutato e mi aiuta la scrittura. Con la scrittura, e dalla scrittura del dolore e dell'amore, prendono forma le mie poesie. Poesie d'amore e di dolore, appunto. Per me l'unico lenimento del dolore, della morte, della perdita. Come questa, la mia ultima: "Quando (a Patrizia)". Nella quale rivivo,  descrivendolo a mio modo, il momento della morte di Patrizia, facendo ricorso a molteplici riferimenti metaforici volontariamente alterati, iperbolici, quasi metafisici. Tutti tendenti, univocamente, alla descrizione della enorme drammaticità dell'avvenimento, ma misura e specchio, accompagnati da particolari realistici che a volte diventano iperrealistici, dell'enorme trauma e del dolore incommensurabile che per me ne conseguirono.    



Quando (a Patrizia)
Quando Patrizia morì
la luce si spense e
si fece buio in cielo,
da qui fino all’altro
lato della galassia e
silenzio intorno a
tutto l’universo,
per quasi mezz’ora.
Poi ci fu un improvviso lampo
nero che nessuno vide ma
tutti ne sentirono il rumore.
Quando Patrizia morì
fu come quando l’Agnello
aprì il settimo sigillo,
e ai sette angeli, dritti
davanti a Dio, furono date
sette trombe, che
però non suonarono:
erano rimasti senza fiato.
Quando Patrizia morì
il dolore fu grande
e tutti piansero:
chi la conosceva pianse
insieme a chi non la
conosceva. Pianse il
marito (piansi io)
piansero i figli
pianse la madre e
piansero i fratelli.
Piansero gli amici e
tutti i santi in paradiso.
Tutti versarono inconsolabili
lacrime salate.
Quando Patrizia morì
il sole si fermò e con lui
si fermò la luna. Le stelle
si fermarono e tutti gli astri
in cielo e s’interruppe un
corso di millenni. In terra
tutte le strade si mischiarono
e le discese divennero salite
e viceversa. In mare i pesci
annegarono nella loro stessa
acqua e gli uccelli in volo
caddero stecchiti.
Gli orologi si fermarono
sui polsi, non serviva
scuoterli, le lancette si
staccarono dai quadranti.
Quando Patrizia morì
nei prati l’erba smise
di crescere e i fiori
si rifiutarono di sbocciare
fino alla primavera dell’anno
dopo, gli alberi si seccarono,
le piante appassirono,
anche quelle grasse sul suo
balcone avvizzirono, tutti
i colori sbiadirono e i suoi
abiti colorati stinsero.
Tutto divenne grigio.
Quando Patrizia morì
non vennero le olive e
non si fece l’olio, non venne
l’uva e non si fece vino,
il grano non fece più spighe
quella estate e i fornai non
impastarono pane. Le api
smisero di fare miele.
Perfino l’acqua smise di
scorrere nei rivoli e tutto
quello che era in bilico crollò.
Quando Patrizia morì
i musicisti smisero di
fare musica, i pittori
di dipingere, le ballerine
di danzare, gli attori
di recitare, i mimi di
mimare, i poeti di declamare
i loro versi, i maestri
di fare scuola, i preti di
dire messa, i muratori di
fare case, gli avvocati di
perorare le loro cause
nei tribunali, i giudici
non emisero più sentenze.
Quando Patrizia morì
gli aratri smisero di arare
e i buoi liberati dal giogo
scapparono nei campi muggendo,
i contadini riposero le vanghe
e incrociarono le braccia.
Le mucche non fecero più latte
e le api smisero di fare miele.
Quando Patrizia morì
i quadri a casa sua si
staccarono dai muri e le
cornici rimasero vuote.
Le penne Bic finirono
l’inchiostro e furono
buttate nei cestini, i
fogli di carta rimasero
bianchi nei quaderni.
I motori si spensero,
le auto in panne.
Quando Patrizia morì
gli infermieri piansero
tristi nelle corsie d’ospedale,
mentre i medici ammutoliti
presero a recitare il
loro mesto “mea culpa”;
con loro c’era la medicina
impotente e la scienza. Ché
con lei tutti erano stati
colpevoli o impotenti.
Quando Patrizia morì
in tutto il mondo solo
il cancro, che con troppo
zelo aveva svolto il suo
compito, pareva soddisfatto.
Dopo il lavoro sporco
era corso dal Padrone
per intascare il premio
pattuito, ma non trovò nessuno.
Nessuna risposta ebbero le sue
richieste, le sue invocazioni
non furono ascoltate, nessun
premio, nessuna ricompensa.
L’orrenda malattia era rimasta a
mani vuote, dimostrò interamente
la sua vacua inanità. Aveva
fatta sua un’altra vittima
impotente; aveva solo ucciso,
inutilmente, l’ennesimo innocente.
(smr)

Coreno A. 23/01/2018-2020

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