domenica 20 dicembre 2015

ORPELLI SVANITI Libro di Dante Cerilli e AA.VV.

   ORPELLI SVANITI Libro di Dante Cerilli e AA.VV.



   Ieri sera, sabato 19 dicembre, a Supino (FR), nel salone delle rappresentanze dello Sporting Club
"La Selvotta", il prof. Dante Cerilli, in occasione del Ventennale della Rivista di Critica Letteraria "LE PAGINE LEPINE", ha presentato il suo nuovo libro "GLI ORPELLI SVANITI" - Giornalismo culturale e d’ambiente dalle “Pagine lepine”, con una Sezione Filologico-Esegetica di Autori vari e la prefazione di Aldo Cervo.
Dante Cerilli (Supino, FR, 1965), autore del libro e direttore responsabile di Pagine lepine, vive e lavora principalmente a Roma. È giornalista e scrittore dai molteplici interessi culturali, pubblica articoli dal 1982, saggi e monografie dal 1988 e libri di poesie dal 1990. La sua opera è conosciuta ed
apprezzata in Italia e all’Estero.
La presentazione è stata condotta dall'amico poeta Giuseppe Napolitano.
Prima di me è intervenuta anche la poetessa Ida Di Ianni e l'altra amica Antonietta Rossi della facoltà di Filosofia dell'Università "La Sapienza".
Questo è quanto mi attiene e si legge nel risvolto della copertina del libro.
«Ma, è nata prima la Paesologia o le “Pagine Lepine”? [...] Esse preesistevano alla Paesologia. Anzi, esistevano prima che Franco Arminio codificasse le regole portanti della sua nuova disciplina. [...]. Non a caso la rivista fondata e diretta da Dante Cerilli prende il nome dalla catena di
Monti ciociari alle cui pendici si trova adagiato Supino, il suo paese di nascita...»
(Salvatore M. Ruggiero, da "Pl rivista paesologica…")



Quello che segue, invece, per chi avesse la pazienza di leggerlo, il testo integrale del mio contributo, contenuto nel libro Orpelli Svaniti, da pagina 231 a pagina 242.

di Salvatore Marco Ruggiero
PAGINE LEPINE RIVISTA PAESOLOGICA. PAESOLOGIA COME “FILOSOFIA” DI VITA
(Motto per una querelle: “Ma, è nata prima la Paesologia o “Pagine lepine”?)

Con l’amico Dante Cerilli ci è capitato di parlare di paesologia questa estate, una
sera a Coreno, eravamo a cena dal Brigante. Quella amena discussione deve aver
lasciato il segno, nella sua curiosità e nel suo spirito critico, entrambi unici se, nemmeno
due mesi dopo, ha ritenuto di dovermi investire di un incarico per il quale gli sono grato
ma che mi investe di ardua responsabilità: spulciare praticamente tutti i numeri di
“Pagine lepine” (di cui quest’anno cade il ventennale) per controllare bene e stabilire
con esattezza se in esse si trattasse o meno di paesologia. Il motto per una querelle
sarebbe, allora, se sia nata prima la Paesologia o “Pagine lepine”. Può sembrare una questione retorica se non addirittura oziosa, ma è di cruciale importanza giacché, se si fossero trovate inequivocabili tracce di paesologia nelle “Pagine lepine” di Dante Cerilli, essa si potrebbe fregiare del titolo di rivista (anche) paesologica e, quasi certamente, “ante litteram”. Con molta probabilità, che in me si fa quasi assoluta certezza, sono nate prima le “Pagine lepine”. Esse preesistevano alla
paesologia. Anzi, esistevano prima che Franco Arminio codificasse le regole portanti
della sua nuova disciplina. E perché? Il perché è semplice! Perché, anche se i suoi
primi scritti risalgono agli anni ’80 (Cimelio dei profili, Catania: Lunario Nuovo, 1985
e Atleti, Avellino. Associazione librai di Avellino, 1987) in essi ancora non si parlava
ancora di paesologia. Di paesologia, invece, si comincia a parlare e, soprattutto a scrivere,
nei primi anni del terzo millennio, con L’universo alle undici del mattino, (Napoli:
Edizioni d’If, collana I miosotis, 2002); Viaggio nel cratere, (Milano, Sironi, collana
Indicativo presente, 2003); Circo dell’Ipocondria, (Firenze, Le Lettere, collana Fuori
formato, 2006). A ragione di questo supporto bibliografico, si può affermare, senza timore di smentita alcuna, che “Pagine lepine” sia, dunque, rivista paesologica “ante litteram”: lo si può
evincere dalla breve ma esaustiva ricerca che ho dipanato attraverso la lettura di molti
articoli della Rivista di Supino (FR). Prima però, a beneficio di quanti non conoscessero la disciplina, relativamente nuova, quindi poco conosciuta, permettetemi di spiegare cosa sia la paesologia!
La paesologia (da non confondere con la “Storia locale” di un paese che oggi,
forse con un’accezione tendenzialmente negativa, si è d’abitudine portati a chiamare
paesanologia e che studia quello che il paese è stato in passato) ha l’ambizione di
analizzare il paese come si vede, quindi com’è, come appare; e di dire come potrebbe
o dovrebbe essere, per apparire o essere migliore. Uno degli ultimi pensatori italiani
veri: Raffaele La Capria, in un suo piccolo ma preziosissimo saggio, “La mosca nella
bottiglia - Elogio del senso comune” 1996, Bur-Edizioni, sostiene (riprendendo la
geniale metafora di Wittgenstein) che la mosca imprigionata nella bottiglia, pensa di
essere libera perché, attraverso il vetro, vede il mondo esterno ma, ovviamente, tutti i
suoi tentativi di uscire dalle pareti trasparenti della bottiglia saranno vani. La mosca
non uscirà mai dalla bottiglia, individuandone l’unica uscita possibile: attraverso il
collo, se non sarà aiutata a uscirne, oppure, se non prenderà coscienza che è imprigionata.
Da chi sarà aiutata la mosca ad uscire attraverso il collo della bottiglia? Ma, dalla
filosofia! Da chi sennò? Ecco! Secondo me, Franco Arminio e la Paesologia (come la
filosofia per la mosca intrappolata nella bottiglia) possono aiutare i paesani a uscire
dalla bottiglia, ad emanciparsi, a liberarsi dalle catene che li tengono legati al loro
avaro destino che, altrimenti, appare ineluttabilmente segnato. E, ancora. “Chi è il paesologo? E che fa?” E’ la domanda che spesso mi viene rivolta quando sono in giro per visitare i paesi e confesso il mio vizio. Se dovessi rispondere, fornendo delle definizioni sintetiche ma calzanti, direi che il paesologo è un turista culturale e anche di più, un emulo della letteratura di viaggio ottocentesca, un
percorritore del Grand Tour, un autentico autore odeporico. Dove, con questo termine
un po’ desueto, non si fa altro che significare la descrizione di un viaggio; il resoconto
delle notizie riguardanti un viaggio; la rendicontazione delle esperienze e delle sensazioni
fatte e provate durante il viaggio. Se, invece, dovessi rispondere fornendo una definizione
più esaustiva, direi che il paesologo è chi elabora una fotografia istantanea del paese e
racconta come il paese debba o possa evolversi. Il paesologo indica come il paese può
salvarsi; suggerisce di emendare ciò che va emendato; di trasformare ciò che va
trasformato; di conservare ciò che merita di essere conservato. Il paesologo non è un
sognatore: può esserlo pure, ma deve anche avere i piedi ben piantati per terra, nella
terra e nella realtà’. Il paesologo non è un passatista, ma attraverso l’analisi del passato
prospetta per il paese e per i paesani un futuro migliore. Il paesologo ha il compito di
scuotere i paesani dal sonnambulismo collettivo e dall’autismo sociale dei quali sono
prigionieri. Il paesologo è un partigiano della bellezza; combatte contro il brutto. In
un’epoca, come la nostra, nella quale pare che il brutto, in tutte le sue forme trionfi, il
paesologo ha l’obbligo morale di scendere in campo contro la sconcezza, armato della
sua energia, del suo senso estetico, per cogliere il bello che non si vede, che è nascosto
dall’abitudine e dalla presbiopia dei paesani; per esaltarlo. Il paesologo è, in una persona,
tre persone distinte: un testimone, perché osserva il paese e racconta come conservarne
l’essenza vitale; un tribuno, perché con la sua azione difende il paese, i paesani e la
conoscenza; un artista, perché deve saper toccare le corde del sentimento di chi lo
ascolta. Come scriveva l’enciclopedista Condorcet: “L’uomo può predire con sicurezza
completa i fenomeni di cui conosce le leggi; può in base all’esperienza del passato
prevedere con grande probabilità, gli avvenimenti dell’avvenire.” Se vogliono
sopravvivere, i paesi (prima ancora che le nazioni) devono saper uscire dal grigiore nel
quale sono caduti, altrimenti si realizzerà la tremenda divinazione dei disfattisti. O il
paese rinascerà (prima ancora che le nazioni) o sarà destinato a morire e a non sentire
più il soffio dolce di una vicina primavera. E per riuscirci dovrà saper invertire la regola
diffusa del benessere individuale con la regola aurea della prosperità collettiva: la
prima prerogativa delle tribù barbariche; la seconda delle fiorenti civiltà avanzate.
Per una stranissima quanto insospettata, ma piacevole, coincidenza, nel mio viaggio
alla scoperta della paesologia nelle “Pagine lepine” mi sono subito imbattuto proprio
nello scritto dell’autore-editore Dante Cerilli che, citando Raffaele La Capria, nel
Numero 0, Anno I, Gennaio/Marzo 1995, del suo editoriale, scriveva paesologicamente:
«Gli intellettuali, per un processo di rilancio e di consono sviluppo di Napoli, non
possono sottrarsi al loro ruolo di “rigeneratori” della società e della cultura, pertanto
nemmeno Raffaele La Capria, attento osservatore di ‘fatti’ napoletani, è rimasto
insensibile all’impoverimento di valori, di ideali e dell’ etica, di cui si è smarrito, in
generale, il senso. L’opportunità di affrontare i problemi della società, soprattutto quella
dai poliedrici volti della città campana, è congeniale con la poetica intima dell’autore
napoletano… ». E, qualche rigo dopo, aggiungeva sicuro: «L’opera di Raffaele La Capria, nella sua
veste narrativa o saggistica, è pervasa da un motivo conduttore esplicito nel rapporto
tra l’evoluzione storico-sociale della sua città e la formazione di una consapevole e
coerente “immagine mentale” dei fenomeni realistico-oggettivi dalla quale far nascere
una nuova civiltà. L’esempio del filo dialettico tra La Capria, Napoli (come nel rapporto
capriccioso tra due innamorati) ed un Universo “complesso” e circostante, è riscontrabile
nei seguenti titoli: Un giorno d’impazienza (1952), Ferito a morte (1961), Amore e
psiche (1973), False partenze (1974), Variazioni sopra una nota sola (1977), Fiori
giapponesi (1979), L’armonia perduta (1986), La neve sul Vesuvio (1988), Letteratura
e salti mortali (1990) Capri non più Capri (1991) ed il recente saggio, L’occhio di
Napoli». Si può, e a buona ragione, sostenere che… “La paesologia è la filosofia dei paesi”
(Come amo dire nel mio scritto che porta questo titolo). Ma, a proposito di filosofi e di
intellettuali pensatori, mi sia concesso ancora un piccolo inciso. Uno dei malintesi più
grossolani nel quale alcuni cadono è convincersi che i pensatori (filosofi e non), o
come sono erroneamente chiamati, gli intellettuali, abbiano il compito di fornire le
risposte ai problemi del mondo. Essi in realtà si “esercitano” in un’indagine speculativa
e di pensiero che non può dare, ovviamente e per fortuna, risposte conclusive, ma che
certamente concorrono a dare all’uomo una sostanziale materia su cui ragionare e
riflettere. Così, per l’appunto fanno Franco Arminio, Ingmar Bergman, Raffaele La
Capria, Wittgenstein, Dante Cerilli, e una grande quantità di intellettuali, stimolati
dalla loro curiosità e sensibilità, cimentandosi un sentiero di esperienza, possibilmente
meno impervio e scosceso di quanto non appaia senza i loro preziosi insegnamenti.
Proseguendo volontariamente la ricerca, mi convinco sempre di più che le
“Pagine lepine” potranno riservare a me e anche agli audaci lettori ulteriori
sorprese. Continuando, infatti, nella disamina dell’abbondante repertorio di “Pagine
lepine” di cui D.C. mi ha ben rifornito, alla ricerca di piccole tracce, di indizi, che
in certi momenti si fanno prove conclamate di paesologia proclamata, mi imbatto
in un bel pezzo a cura di Antimo Monti (ospitato sul Numero 3, Anno XI del
Luglio/Settembre 2005) dedicato ad un’opera curata da Francesco De Napoli:
“Scotellaro oltre il Sud”, un libro nel cinquantenario della morte. Così scrive
l’autore: «Rocco Scotellaro era nato a Tricarico (Matera) il 19 aprile 1923.
Scomparve improvvisamente, appena trentenne, a Portici (Napoli) il 15 dicembre
1953, per cause mai definitivamente accertate, si ritiene per un infarto cardiaco.
Nel Cinquantenario della Scomparsa, Francesco De Napoli ha realizzato
un’interessante antologia letteraria, dal titolo Rocco Scotellaro oltre il Sud (Venafro,
Edizioni EVA, 2003, pag. 204), […]. Vi si leggono contributi critici di N. Carducci,
P. Ferrari, D. Cara, B. Andolfi, D. Cerilli, V. Esposito, A. La Rocca, B. e G. Russo,
L. Mondo, G. Stabile, e poetici di un’altrettanto lunga lista di nomi. […]». Scrive
De Napoli nella nota bio-bibliografica e critica di Scotellaro: «Come non amare la
poesia e la lezione umana, civile e intellettuale di Rocco Scotellaro, anima ed
espressione della cultura popolare e contadina, di cui seppe incarnare ed interpretare
in maniera esemplare le attese e le angosce, i sogni e le disillusioni, le festosità e i
lutti? Rocco Scotellaro, nato e morto tra privazioni e patimenti, come tutti gli
umili descritti, cantati e dipinti da Carlo Levi nei suoi capolavori. Un vinto tra i
vinti trasformatosi, dopo la prematura scomparsa, in vincitore. Rocco Scotellaro
oltre il Sud: è questo il senso del nostro devoto sentire, che vuol essere anche una
sfida ai riduttivi giudizi di provincialismo poetico-culturale da qualcuno
ingenerosamente espressi nei suoi confronti». A proteggere Scotellaro dalla
malvagità e dalla perfidia dei suoi detrattori non erano bastati l’affetto e la solidarietà
di personaggi come Rocco Mazzarone, Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria. Accusato
di concussione allorché fu eletto Sindaco del paese natio, Scotellaro venne arrestato
e, benché riconosciuto innocente, si sentì in dovere di rinunciare all’incarico di
primo cittadino. Si trasferì perciò a Portici, presso l’Istituto Agrario, per dedicarsi
ad una serie di indagini a carattere socio-etno-antropologico, sull’esempio di Ernesto
de Martino. Fra i collaboratori di Rocco Scotellaro nell’ultimo periodo napoletano,
fu Gilberto Antonio Marselli, originario di Cassino (FR) e docente di Sociologia
nell’Ateneo di Napoli. Marselli ha espresso un giudizio estremamente lusinghiero
dell’antologia scotellariana. Ne riportiamo un estratto: «A me, che ho avuto il
piacere ed il privilegio di condividere con Rocco Scotellaro molte delle sue
esperienze, dà un notevole sollievo e conforto il vedere che altri, del tutto
insospettabili, hanno avuto l’occasione di assolvere encomiabilmente le due
funzioni (…) di mantenere vivo il ricordo e di aprire un dibattito intorno all’opera
di Scotellaro. E questo è proprio il caso dell’Antologia curata da Francesco De
Napoli che, mirabilmente, spazia dai saggi alle poesie alla biografia, corredando il
tutto con un’interessante documentazione iconografica. E’ bello constatare come
Rocco sia stato correttamente ed efficacemente inteso anche da chi non aveva
potuto condividere con lui certe esperienze. E’ la limpida dimostrazione che la
vera arte, la corretta ricerca, un certo modo di vivere sono eterni e vincono anche
la morte». Non bastasse quello che abbiamo appena letto, si aggiunga il fatto che Rocco
Scotellaro viene citato quasi quotidianamente come la faccia bella della rivincita
del Sud, dell’impegno civile, politico e intellettuale dell’Italia Interna, negletta e
povera, tanto cara a Franco Arminio, l’inventore della paesologia. E lo stesso
scrittore-poeta di Bisaccia ci viene in soccorso, con un brano dedicato a Tricarico,
il paese di Rocco Scotellaro, scritto nel 2010 e reperibile su Comunità Provvisorie
- Il blog di Franco Arminio e dei paesologi. Vi si può leggere una bellissima ed
interessante pagina di paesologia a cui rimando, affinché il lettore curioso ed
esperiente possa gustare direttamente on-line tanta affascinante suggestione che è
nel testo. Ritornando al discorso, nella poesia del lucano Rocco Scotellaro si impone
costantemente l’urgenza di una comunanza (leggi “mutualità” e “cooperazione”)
a tal punto che s’impone una citazione dal mio libro Cronache dal piccolo borgo
della pietra millenaria: «Tra le tante, almeno due sono le condizioni sufficienti
che si richiedono a un paese per continuare a funzionare - non dico bene, ma
almeno decentemente - e, quindi, per sopravvivere: la Mutualità e la Cooperazione
tra i paesani. Non sono ammesse eccezioni, né condizioni, specie se il paese è
piccolo. Piccolo come il mio. Anzi, più il paese è piccolo, più la mobilitazione
dev’essere generale; allora tutti devono contribuire: socialmente, economicamente,
culturalmente. Tutti devono fare la loro parte. E anche di più. Altrimenti il sistema
non funziona […]»; cooperazione che si appalesava in circostanze critiche come
“la povertà, la miseria, i briganti, le angherie e i soprusi dei potenti, le guerre, le
carestie, gli eventi atmosferici catastrofici, le epidemie o i terremoti disastrosi”, o
“per un grosso animale caduto in un dirupo e da recuperare, vivo o morto. […]” o
quando “un covone di fieno stagionato” andava «improvvisamente a fuoco: allora
si urlava e si portava acqua nei secchi: “gliu metale s’è appicciathu”!», e tanto
altro ancora (cfr. Ruggiero, op. cit.). Quella di Rocco Scotellaro che è una comunanza
che è tutt’uno con l’idea stessa di poesia come valore sociale, nel quadro di quel Sud arretrato e postbellico, ansioso di rivendicazioni e allineamenti, in cui la sua presenza letteraria e umana,
da impegnato sindaco-poeta socialista di Tricarico (eletto nel 1946, quando Rocco
aveva solo ventitré anni), si affermò. Per documentare al meglio quanto vado
dicendo, metto qui una sua poesia accorata e molto significativa, emblematica del
discorso paesologico che andiamo costruendo e sviluppando: “A una madre.”
“Come vuoi bene a una madre
che ti cresce nel pianto
sotto la ruota violenta della Singer
intenta ai corredi nuziali
e a rifinire le tomaie alte
delle donne contadine?
Mi sganciarono dalla tua gonna
pollastrello comprato alla sua chioccia.
Mi mandasti fuori nella strada
con la mia faccia.
La mia faccia lentigginosa ha il segno
delle tue voglie di gravida
e me le tengo in pegno.
Tu ora vorresti da me
amore che non ti so dare.
Siamo due inquilini nella casa
che ci teniamo in dispetto,
ti vedo sempre tesa
a rubarmi un po’ di affetto,
tu che a moine non mi hai avvezzato.
Una per sempre io ti ho benvoluta
quando venne l’altro figlio di papà:
nacque da un amore in fuga,
fu venduto a due sposi sterili
che facevano i contadini
in un paese vicino.
Allora alzasti per noi lo stesso letto
e ci chiamavi Rocco tutt’e due.”
Ma si può produrre grande poesia paesologica (più o meno consapevolmente)
anche parlando di montagne “indifferenti”, ma che indifferenti non sono (almeno nel
modo in cui lo intendono i marsigliesi quando si riferiscono ai molluschi morti che loro
chiamano appunto: “indifferents”).
Succede quando le montagne (ci) parlano di “volti scomparsi, lavori sofferenti ed
amati, canti spiegati nei campi… fervidi afflati rurali” . A farlo è il poeta-editore
Amerigo Iannacone nella sua poesia Montagne:
Cime che fanno corona
immobili antiche maestose
intorno alla casa modesta
raccontano storie remote
di bimbi con loro in simbiosi
di volti da tempo scomparsi
di lavori sofferti ed amati
di canti spiegati nei campi
di cuori protesi al futuro
di fervidi afflati rurali
di affetti immortali.
Montagne indifferenti
al cosiddetto progresso
al codice binario
ai giorni incalzanti e concitati,
con un refolo di vento
con una nuvola bassa
mandano antichi sussurri
del tempo perduto e rimpianto.
E, a tale proposito, Dante Cerilli, nel numero di Pagine lepine A. XIV - N. 1,
gennaio/marzo 2008, scrive: «Caro Amerigo, quello che tu scrivi nella poesia
“Montagne” mi conferma quello che penso della tua spiritualità. Hai scelto la
componente più materiale, maestosa, più grande come le montagne della tua terra per
parlare di ciò che invece è esile, impalpabile, impercettibile se non all’animo delicato
e sensibile che sa amare e patire il vecchio ed il nuovo, il vecchio per la nostalgia di
certezze la cui esperienza è a volte irripetibile, il nuovo per l’ampio respiro che affratella
e che vorrebbe essere respiro di speranza ed amore anche quando la vena della malinconia
intacca perniciosa l’alta mole della “montagna”. Mi pare un ossimoro non linguistico,
questa poesia, ma sostanziale di corpo e spirito. Continua ad abbracciare il tempo la tua
poesia con l’alito caldo del pensiero che oggi anche i tuoi figli possono ingerire».
Andiamo avanti. Per il peso letterario dei suoi scritti e per il radicamento che i suoi
scritti hanno nella sua terra d’origine, un’altra figura importantissima che si annota
negli annali della paesologia ante-litteram, nella quale mi imbatto leggendo tra i vecchi
numeri dell’editoriale, è certamente Cesare Pavese. Cantore di un mondo bucolico
(quasi) perduto, certamente poetico ma duro e per certi versi violento, fortemente
caratterizzato dalla coltivazione della vite langarola e del suo vitigno principe: il nebbiolo.
L’autore indimenticato e indimenticabile de La Luna e i falò, il suo ultimo romanzo,
dal bellissimo titolo paesologico, scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949 e
pubblicato nell’aprile del 1950. Romanzo misto di passato e presente, e proprio per
questo motivo non narrato nei minimi dettagli; in esso vengono raccontati eventi che
non sono (apparentemente) collegati tra loro, se non dai pensieri e dalle riflessioni del
protagonista. Ne troviamo traccia nel Numero2, Anno XII, Giugno/Settembre 2006,
delle “Pagine lepine”. “In effetti – scrive Dante Cerilli – quello che si vuole sottolineare
è la personalità di Pavese e la connessione sostanziale che essa detiene con la struttura
complessiva dell’opera (e con il territorio nel quale essa nasce, ndr) e, quindi, che
“Pavese era un uomo tormentato e inquieto, non semplice da capire – sono parole di
Sini – se non lo si studia a fondo e non lo si ama profondamente.” Ma più che
nell’articolo: “Letto e tradotto anche in Vietnam e Macedonia lo scrittore langarolo.
Cesare Pavese negli “Infiniti Specchi”, firmato dallo stesso direttore Dante Cerilli, mi
è piaciuto ravvisare aspetti chiari di paesologia nel pezzo di spalla: “Una rilettura di F.
De Napoli. Pavese tra mito simbolo ed altro”. Vi si legge, infatti: “Egli deve essere
studiato ed approfondito al di fuori dei vincoli estetici e poetici del suo tempo, ovvero
deve essere “decontestualizzato” dal neorealismo, non tanto perché egli non abbia
niente a che fare con quel periodo – perché si direbbe il falso – quanto peri l fatto che
quella corrente costituirebbe una demarcazione, un limite della valenza globale della
sua opera. Per ciò che ha pensato ed ha scritto, Cesare Pavese occupa una posizione
significativa della cultura italiana del Novecento. Lo studio per settori, o della poesia,
o delle traduzioni, o dell’ideologo, e la relazione a volte sofferta e contrastante con il
neo-realismo non hanno fatto che ledere all’unitarietà ed all’organicità della critica.
Nel solco di questa direzione diventa, così, controversa la figura e la funzionalità dell’arte
dello scrittore delle Langhe che, invero, possono senz’altro assurgere a testimonianza
emblematica nella quale si rispecchia la crisi esistenziale della giovane generazione
del dopoguerra, ed attestarsi come momento strumentale di transizione dalla cultura
del primo Novecento (con le sue embrionali, evolute o involute ideologie e poetiche) a
quella dell’altra seconda parte del secolo, liberata dalle contingenze di una storia che
pian piano ha visto gli intellettuali, se non in casi rarissimi e di epigonismo, sempre
meno schierati ed impegnati al suo interno. Non si può far passare inosservato un
qualche tempo di silenzio critico su Cesare Pavese, peraltro sfatato negli ultimissimi
anni da un rinnovato interesse. Cesare Cases, difatti, ha parlato di “classico” disatteso
dai giovani e tenuto in scarsa considerazione dai “vecchi”, non troppo convinti dalla
strada da seguire o segnare per fondare nuovi studi.”
Ma la paesologia è anche viaggio, perché, come diceva Jan Myrdal, “Viaggiare è
come innamorarsi: il mondo si fa nuovo…”. E quando mi domando “quali sono le
qualità che il paesologo deve avere”, mi piace rispondermi che “Il paesologo deve
avere: gambe robuste, occhi ben aperti e cuore trepido. Sempre!”.
Dove la paesologia odeporica scritta trova la sua forma definitiva, sublimata alla
perfezione, nelle “Pagine lepine” è nel pezzo dedicato a “L’Odeporico estivo del 2011"
(A Collesano (PA) sulla scia culturale di Antonio Piromalli, Fra storia, turismo, diporto
e l’umanità perfettibile di Paolo Schicchi) dove l’autore-editore, ad esempio, scrive
con prosa vertiginosa: «I vigili, sono imprendibili, ma la rocambolesca gimcana
tra i tornanti all’interno del paese, però, ci hanno fatto capire che esso si
estendeva a ridosso di un monte e che la strada perpendicolare poteva essere
intersecata ad angoli retti ad ogni inversione di marcia. Niente da fare; allora
andiamo a visitare la chiesa madre, un’imponente edificio a capanna (a quattro
tetti spioventi) e due campanili perimetrali a lato del prospetto, tutto in stile
classico-novecentesco con qualche segno gotico nei rosoni e nelle lesene e un
sapore bizantino che probabilmente è un leitmotiv costante della Sicilia: ciò
quanto appare, ma l’edificio ha origini nel 1400 e si consolida strutturalmente
in pieno clima di Controriforma. All’interno, un’austerità classico-romanica,
da cui emerge, campeggiante e sospeso sotto la capriata, un crocifisso ligneo
a dimensione naturale (1555) detto della “Provvidenza”». Oppure più avanti:
«Vicino la piazza, nei pressi della Basilica, c’è la lapide di Paolo Schicchi,
che Piromalli ricorda con un saggio in Pagine siciliane (Messina, Sicania,
1992, pp. 101-116), trova un posto anche nel mio “Piromalli e la Sicilia”. Per
questo dovevo consegnare quel libro, ufficialmente alla comunità di Collesano:
altra cosa sarebbe stata averlo mandato per posta. Dell’impegno politico,
civile e poetico di Paolo Schicchi (1865-1950) è l’obiettivo della “formazione
di una coscienza anarchica: emancipazione e autonomia della personalità”,
al fine di lottare contro i poteri precostituiti, le “menzogne costituzionali dello
Stato” e “le stesse federazioni anarchiche”, laddove esse sono gerarchizzate
e distorte. Il suo principale obiettivo, dunque, “trova nell’irrequietezza degli
scapigliati la temperie culturale per esprimere la sua pedagogia anarchica,
rivoluzionaria”. Personaggio brillante e coriaceo, discutibile per certe
posizioni estreme e per l’utopia che talune idee potevano far prevedere (ma
anche per lo spirito sovversivo dell’anarchismo), ebbe vita mirabolante di
lotta e di persecuzioni con una condanna per anarchia a Viterbo di undici
anni e tre mesi, più altri undici mesi per offese ai giurati). Nel suo canzoniere,
La cannata. Ditirambo galera, scritto durante la prigionia ad Orbetello,
espresse, come scrive opportunamente Piromalli, “alcuni motivi della
negatività del reale, delle mistificazioni sociali che costituiranno le direzioni
della critica novecentesca nei confronti del costume e della cultura del secondo
Ottocento”». Per chiudere con un molto eloquente, romantico, beneaugurante, speranzoso
e… paesologico: «Passeggiamo ancora per il paese…». (Cfr. Pl, 2012, n. 2, p.1)
Mi piace chiudere questo mio lavoro con tre perle di garbo e di grazia paesologica:
tre poesie di Brandisio Andolfi, poeta casertano. Le ho trovate, quando oramai pensavo
che non ci sarebbe stato più niente di paesologico da scoprire, come un raro quadrifoglio
in un prato tutto verde, nel numero di “Pagine lepine” che cito di seguito: A. XVI - N.
1, gennaio/marzo 2010. Vi si legge, sotto la lunga titolazione (impiega occhiello, titolo, sommario
e catenaccio) tipicamente cerilliana (quasi wertmulleriana): A Mirabella Eclano
gli studenti del liceo classico incontrano l’apprezzato scrittore di Caserta.
Prosodia e poetica dai testi di Brandisio Andolfi, egida di Luisa Martiniello.
Un foglio con su digitata una poesia inedita, Oltre la vita e la memoria, una
cartolina illustrata da Cristiana Andolfi (L’inizio del temporale, tempere
35x40), sul cui retro si legge...
Stanotte, che notte!
Stanotte, che notte,
con i lampi che stracciavano le nuvole
sul corpo nudo della campagna!
Rigava gli alberi un pianto di pioggia;
una furia di tempesta
sopra il rigoglio della primavera.
Sopra il mare serpenti di fuoco
s’inabissavano tra le onde
richiamati da misteriosi mostri marini.
Sussulti ed incubi il sonno.
Poi la quiete sopra la tempesta all’alba:
l’aurora ha vestito di luce la montagna;
sul mare hanno ripreso a veleggiare
le grandi farfalle bianche.
Stanotte, che notte con l’urlo della morte
fuggita a nuova rotta in seno alla tempesta!
Il direttore di “Pagine lepine”, meticoloso nella costruzione dei pezzi a
commento di quanto pubblicato, fornisce molte notizie di carattere filologico,
com’è sua materia, ma inconsapevomente descrive anche situazioni e condizioni
che fanno la circostanzialità dell’evento e fanno emergere non solo il pregio
delle persone, ma anche i luoghi in sui esse vivono. Scrive infatti: «Un’altra
composizione poetica di Brandisio Andolfi ed il libro La poesia nella scuola. Brandisio
Andolfi. Dettati dell’anima. [...] Gli alunni del Liceo Classico “Aeclanum” a confronto
con il poeta (a cura della professoressa Luisa Martiniello, Foggia, Bastogi, 2009, pp.
122) costituiscono il piego che mi è giunto in redazione da Caserta, inviato dallo scrittore
nativo di Casale di Carinola (1931). La poesia, La casa in mezzo al verde, sempre di
Brandisio Andolfi:
Vieni, saliamo questa collina;
dall’alto ti farò vedere
la casa in mezzo al verde.
Tu non l’hai vista mai una casa
isolata, lontana, tutta bianca
come sposa in mezzo a un giardino.
Udrai l’abbaiare del cane fargli
festa quando rincasa il padrone
che lo zittisce con una carezza.
Vedrai il filo di fumo del camino
salire verso il cielo come l’incenso
sacro per il campanile della pieve.
Proverai nell’anima la gioia della pace
giungere dai raggi del tramonto.
Vieni, ti farò scorgere un angolo
di paradiso pure su questa terra,
dove abita lo spirito del bene,
la sacralità della quiete.
Reca i valori alti dell’uomo – continua sempre Cerilli – e per questo sarà
imperitura. Un carattere impressionistico e romantico, insieme ad un’aura di folgorazioni
e di visioni laocoontiane mitico-oniriche, nel registro tutto novecentesco di una scrittura
densa da cui si è operato lo scarto del superfluo e del quotidiano, fanno di Stanotte, che
notte! forse la più bella e la più suggestiva poesia del genere dopo Temporale, Dopo
l’acquazzone, Lampo ed altre correlate di Giovanni Pascoli».
Dante Cerilli non riesce a contenere il suo entusiasmo nei confronti di questa
forma di Poesia gentile e ancora non sa (al momento in cui scrive) che si tratta, oltre
che di grande esempio di poesia classica, anche di vera poesia paesologica. Aggiunge,
quasi esaltato: «Il libro di cui nell’incipit è un buon lavoro fatto dai ragazzi di Mirabella
Eclano a scuola; non sono sempre gli stessi, ovvio, ma nel 1994 si occuparono anche
della poesia di Dante Cerilli, non come è in questo caso per Brandisio Andolfi, ma
tanto è sufficiente per dire che, invece, i “professori” sono gli stessi, ovvero quelli che
da sempre lavorano per un senso superiore della scuola e della poesia, come l’infaticabile
Luisa Martiniello, degna di cotal padre, amico superiore, Pasquale, già preside di
quell’Istituto, fondatore (1983) ed animatore del Premio di poesia “Aeclanum”. L’analisi
è condotta con competenza critica e metodologica, vengono ben evidenziate le figure
metriche, rimiche, retoriche, con ampi tessuti di interpretazione ed approfondimento
(quasi sempre molto ortodossi). Insomma, un lavoro su B. Andolfi che rende merito
agli autori ed al poeta in vetrina, minuziosamente studiato. E, alla fine, conclude con
un significativo apprezzamento critico, dedicato all’autore Andolfi: “Scritti
impressionistici, dunque, ma anche didascalici e gnomici, raffinati nella forma, nella
scelta lessicale, e densi di moralità come avviene in “Oltre la vita...” (l’estensore
dell’articolo, Cerilli, propone un’altra poesia - nd SMR).--
OLTRE LA VITA E LA MEMORIA
Non la pioggia, né la neve, né il tuono
che hanno tempestato la tua vita
moriranno con te, uomo.
Non le stagioni
che hanno riempito di gioie,
di dolori, di speranze il tuo tempo.
Non morirà con te
lo scorrere dell’acqua
nel fiume e nel rigagnolo;
né la nuvola bianca
che s’alza nella notte silenziosa
e spazia per il cielo con il vento
fino ad incontrarsi con il mare
e la montagna.
Non morirà l’effigie
che nasce dalla pietra o sulla tela;
né la parola che semina d’idee
i campi della Storia.
Non moriranno con te
la forza del pensiero,
la voce della Gloria
che porteranno il grido della Libertà
oltre i confini della Vittoria.
Non morirà con te la Poesia:
luce del tuo spirito, uomo,
oltre la vita e la memoria. [B.A.]
Conclusioni e Commiato
E con una punta di dispiacere
(solo mio, giacché il sentimento
che voi proverete sarà – immagino
– di pura soddisfazione) siamo
giunti, cari amici lettori, alla fine
di questa lunga ma piacevole,
quasi epica, galoppata alla ricerca
di tracce evidenti della paesologia
nella Rivista trimestrale di cultura
e attualità fondata e diretta da
Dante Cerilli che prende il nome
di “Pagine lepine”. Pagine che,
ovviamente, prendono il nome
dalla catena di Monti ciociari alle
cui pendici si trova adagiato
Supino, il suo paese di nascita.
Che altro aggiungere se non
l’ammissione onesta e sincera che
anche per un paesologo della
prima ora, smaliziato e disilluso,
come me, si è trattato di una vera
e propria scoperta, piacevole
ancorché sorprendente? Anzi,
devo aggiungere che quando
l’amico Dante, mi ha immeritatamente
e avventatamente incaricato
di svolgere per lui questa
ricerca non nutrivo molta fiducia
nella positiva riuscita di una tale
incauta, avventurosa operazione.
Ma questo, ovviamente, mi sono
guardato bene dal dirglielo.

Coreno Ausonio, 18 ottobre 2015 [S.M.R.]

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