martedì 17 luglio 2012

Appunti di paesologia: Sermoneta (Lt).






Se avete intenzione di visitare l'alta provincia di Latina, dovete percorrere necessariamente la Pontina se intendete raggiungere le zone costiere; la Via Appia (la Regina Viarum) se invece volete inoltrarvi nell'entroterra, fino alla Ciociaria.
L'Appia si srotola, praticamente dritta per decine di km. attraverso le zone bonificate.
La maggior parte di essi sono ombreggiati da enormi pini secolari.
Secondo il mio amico Marco, fotografo free-lance nomade, l'ombra si deve ad una ...genialata del Duce che ordinò di piantare gli alberi per favorire le carrozze dei nobili che la percorrevano per diporto.
Dovrò approfondire questo aspetto di ...costume.
Se, appena superata Terracina, imboccate l'Appia (SS7), dopo aver percorsi ca. 30 km e dopo aver svoltato a destra a un grosso quadrivio regolato da un semaforo (strumento di regolazione del traffico stradale quanto mai obsoleto, dopo l'exploit delle rotonde, arrivate in Italia qualche secolo dopo i "round-about" inglesi) siete ormai nei pressi di Latina Scalo.
Praticamente attaccata c'è Sermoneta Scalo.
Non c'è soluzione di continuità tra le due frazioni.
All'imbocco del paese vi accoglierà l'ennesima rotonda.
Questa volta è un'aiuola verde con al centro un orrendo "monumento" di cartone pressato con su scritto: Sermoneta Città d'Arte.
Se il buongiono si vede dal mattino!
Mi fermo in un baretto per fare uno spuntino, prendo da un vassoio per dolci l'ultima fetta di crostata disponibile, un po' anemica ma buona, con marmellata di visciole: un frutto che quì è di casa.
Non molto lontano da quì c'è la famosissima Abbazia di Valvisciolo.
Edificata in rigoroso stile romanico-cistercense è uno dei massimi capolavori del genere della provincia dopo l'Abbazia di Fossanova.
La tradizione vuole che questa abbazia sia stata fondata nel XII° secolo da monaci greci e sia stata occupata e restaurata dai Templari nel XIII° sec..
Quando nel XIV° secolo questo ordine venne disciolto subentrarono i Cistercensi.
Una ventina di anni fa il mio amico Luigi Cristino (di Latina) si laureò in architettura con una tesi su Valvisciolo e mi regalò una copia della sua interessante pubblicazione che ancora conservo gelosamente.
Dai tavolini del bar dove mi riparo dalla calura della Pianura Pontina vedo due cose: una bella e una brutta.
La cosa bella è il centro storico di Sermoneta in alto, appollaiato su un costone roccioso di arenaria sul quale troneggiano gli enormi bastioni del Castello Caietani che domina tutta la piana sottostante, fino al mare.
La ragazza del bar mi confessa candidamente che solo un paio di volte è stata a Sermoneta e vabbene che era di Doganella di Ninfa, a qualche km di distanza! (Sic!)
La cosa brutta, anzi orrenda, è una chiesetta che ho proprio di fronte.
Un vero scandalo.
Piastrellata con 30x30 di travertino. Sui lati un tremendo inserto che ricorda il fasciame della prua di una nave, dalla quale sbuca (quasi trapassando lo scafo) un piccolo campanile.
 Ma - dico io! - quelle belle chiesette di pietra viva di una volta, no, eh?
 

Una volta raggiunto il centro storico si lascia la macchina e si prosegue a piedi verso l'acropoli.
Il paese ha uno spiccato aspetto medievale ed è molto frequentato dai turisti, anche e soprattutto per via del Castello Caetani, nonché per la sua vicinanza al Giardino di Ninfa, importantissima oasi naturalistica di proprietà della Fondazione Caetani, ma che rientra però nel confinante comune di Cisterna di Latina.
A Sermoneta è stata conferita la Bandiera Arancione per il Turismo dal Touring Club Italiano
Nel 2010 l'Unione Europea ed il Ministero del Turismo ha conferito a Sermoneta anche il riconoscimento "Destinazione Europea d'Eccellenza".
Quando incomincio a inspirare dall'aria l'odore del tempo si è fatta già l'ora di rimettersi in marcia.
Ci torno di certo a Sermoneta.
Anche perchè ho scoperto l'esatta ubicazione del punto di produzione e vendita della celeberrima mozzarella di bufala DOP Roana, sulla Via Migliara 46.
Una delle dieci cose per le quali vale la pena di vivere, secondo Roberto Saviano e anche secondo me.
Ma io non la colloco al primo posto, come la mette lui.
Magari al secondo o al terzo. ;-)
Bianca, dolce, leggermente sapida, freschissima.
Prodotta solo col latte non pastorizzato delle 700 bufale di loro proprietà, quindi in quantità limitata.
Da accompagnare, magari, a un buon Oppidum il Moscato Bianco secco di Terracina DOC delle Cantine S.Andrea, fatto poco lontano da quì.
Prosit!

SMR
 

lunedì 16 luglio 2012

Le stagioni della lattaia. Il racconto breve della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie. di Salvatore M.Ruggiero



Presentazione dell'autore

 Vivo in un paese brutto. Brutto, perché maltenuto; brutto, perché cresciuto disordinatamente - senza armonia; brutto, perché disseminato di case senza facciata; brutto, perché zeppo di stabili fatiscenti coi muri crepati.
E’ un vero peccato! Perché di sicuro non è stato sempre così. Un difetto di senso estetico, poco meno che generale, l’ha reso brutto; il disinteresse, l’egoismo e la sciatteria, di chi lo ha amministrato per anni e della sua gente, hanno fatto il resto.
Io penso che alla sua nascita - mille anni fa - fosse molto diverso da com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore. E, a suo modo, doveva pure essere bello. Posso immaginare com’era - senza sforzo. Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono sul sofà con gli artigli ficcati nello schienale. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali. Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale. Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta. Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante.
D’accordo, quel paese era povero. Ma non lo nascondeva. Era essenziale e dimesso. Ma almeno aveva un bel colpo d’occhio omogeneo. Costituiva uno scenario prezioso, da preservare per la sua tipicità. E’ un vero peccato che sia stato rovinato, devastato dopo. E’ successo tutto negli ultimi cinquant'anni. E ci fosse stata almeno una buona ragione per mandarlo in malora; ci fosse stato almeno qualcosa da predare, qualcosa di cui arricchirsi dallo scempio. Sarebbe stato uno dei tanti sacchi scellerati, come ce ne sono stati molti nel secolo appena trascorso. Come, purtroppo, ce ne saranno tanti altri, in questo nuovo secolo.
Tutti causati dall’ignoranza, dalla negligenza, dall’incuria, dalla ottusità degli uomini.    
Prima che partisse la corsa allo sfruttamento industriale della pietra calcarea locale, l’unica vera risorsa era la terra: da coltivare, fertile e generosa; o sassosa e avara.
Allora i terreni da coltivare si spietravano a mano, sasso dopo sasso. E si coltivavano per sopravvivere. Allora le uniche prosperità erano gli animali e i figli. Poi è arrivata qualche lira ed ha guastato tutto. Ha rotto equilibri antichi, tenuti in piedi per secoli solo dalla miseria e dalla fame. Ora, che una quantità insensata di cemento è stata versata a sproposito, brutalmente - come una bestemmia urlata in faccia ad un povero cristo - su tutto il paese, anche nel cuore del vecchio centro storico, prendendo il posto delle stradine e delle piazzette lastricate a pietra e dei muri a secco centenari, le case - se va bene - hanno gli esterni di quarzo plastico e gl’infissi d’alluminio anodizzato - perfino alcune di quelle costruite non proprio di recente.
E i tetti? Alcuni saranno pure nuovi e fatti a regola d’arte, ma sono tutti coperti con tegole correnti - e poi sono tutti diseguali.
Ora, che il danno è stato fatto - ed è irrimediabile - non basta rivestire la piazza centrale con lastroni di marmo bocciardato a macchina, per il capriccio di farne il salotto buono. E’ un’idea velleitaria. Passerà alla storia come l’estremo ma vano tentativo di salvarne l’aspetto arcaico; di conservarne l’essenza originaria, impiantando sul nuovo un elemento fintamente antico.
Così il tremendo destino del mio paese è di rimanere per sempre un posto brutto, triste e trascurato - come, purtroppo, ce ne sono tanti altri - dove si nasce per caso, si vive senza speciali entusiasmi - quasi per inerzia - e non succede mai niente di memorabile. Se uno non riuscisse ad apprezzarne la relativa tranquillità, oltre ad avvertire il fastidioso sospetto che l’esistenza gli sia sfuggita troppo veloce fra le mani - più o meno utilmente - potrebbe anche subire, abitandoci da sempre, l’incresciosa sensazione di averci sprecato malamente una vita. Al più - ma solo per via della quiete e dell’aria buona - qualcuno venuto (o tornato) da fuori potrebbe farne il suo… buen retiro. Ma intanto una vita vera se l’è cercata altrove!
A completare degnamente il tutto - per un supplemento che, onestamente, non era necessario - il mio paese possiede una storia assai modesta. Di cui si può facilmente predire che non diventerà mai motivo di vanto. (...Questo paese, dall’aspetto selvaggio ed ameno …non ha una sua storia di particolare rilievo... da La storia di Coreno di Don Giuseppe La Valle). Ma forse, si addice così ad un posto che d’importante ha vissuto solo la Guerra. Quanto altrimenti vi è accaduto pare non interessare nemmeno i suoi pochi abitanti. Per quest’unico motivo, conserva cultori raffinati - e rari e preziosi. Le storie dei piccoli paesi sono fatalmente accomunate da uno strano destino: finendo tutte per somigliarsi, vengono frettolosamente omologate. Ma, anche se sembrano simili, ciascuna di esse ha qualcosa di peculiare che la rende speciale. Se si riuscisse a coglierne la consistenza più intima, a tratteggiarle con l’opportuna sensibilità, non tutte le storie dei piccoli paesi sarebbero archiviate come  … storie piccole.
Da qualche parte nel mondo si conserva l’uso di ricordare ed onorare il compleanno dei morti. Al mio paese sembra che non esista più la Memoria! Quando un uomo muore finisce nel dimenticatoio. Lì la sua memoria rischia di evaporare per sempre. Per quanto alcuni viventi - consapevoli, o meno, d'avere poco o niente da dire - per la loro banalità hanno i modi di chi è già morto (mi ricordano l’anziano dottore visto in un vecchio film svedese# degli anni ’50). Al contrario, certi defunti, anche dopo il trapasso, con le loro ricche storie personali, ancora ci raccontano molto. E’ come dire: Tutti muoiono, pochi hanno realmente vissuto! Alcune persone hanno lasciato una traccia - leggera o profonda - nella sabbia della Memoria e del Tempo. Spesso ci accorgiamo dell’influenza che hanno esercitata su di noi quando è ormai troppo tardi. In tal caso solo coi pensieri possono ricevere la nostra gratitudine. E’ sempre da preferire la riconoscenza - anche tardiva - alla dimenticanza colpevole.
Come si può descrivere meglio una terra se non raccontando le storie dei personaggi che vi sono nati, che vi hanno vissuto, che l’hanno animata con la loro presenza? E, quante esistenze di persone comuni, osservate con maggiore attenzione, non si rivelano così normali - quasi scontate - ma, sotto la scorza della loro apparente semplicità, finiscono per rivelare particolari extra-ordinari? Oggi verrebbe da dire che quelle persone che sembravano nani erano giganti. E ancora, chi non reca dentro di se l’eco delle sue frequentazioni? Ognuno di noi si porta dietro certi luoghi della memoria - posti o persone che ha frequentato. Qualcuno ricorda, qualcuno dimentica o, addirittura, cerca di rimuovere. Senza riuscirci, i pensieri - l’unica cosa veramente libera di questo mondo - non si fanno comandare. Nemmeno dai proprietari legittimi.
Così, chiunque conserverà sempre le proprie radici, continuando - ancorché involontariamente - a nutrirle. Esse sono più profonde di quanto crediamo, e non vanno mai perdute! Se qualcuno tentasse di disfarsene - come si fa coi vecchi giocattoli rotti - deve convincersi che tale proposito non avrà un agevole successo. Il filo della memoria, intrecciato coi ricordi, è sottile ma robusto: riuscendo sempre a non farsi recidere, ci tiene legati al luogo d’origine.
Deriva da queste poche, elementari riflessioni - che da alcuni saranno considerate trascurabili - l’impulso che mi sono auto-trasmesso, abusivamente, a scrivere “Le stagioni della lattaia con altre sette piccole storie”. Ebbene, si! Piccole Storie. Possono sembrare piccole, ma sono importanti, soprattutto per me, ma non solo per me. E come avrei potuto raccontare vite intere di personaggi realmente esistiti? Ho tentato, quindi, di ricostruirne solo pochi episodi; alcune scene che amo definire piani-sequenza tracciati in punta di... tasto. Si riferiscono all’esistenza di certe persone che ho conosciuto, e che vorrei sottrarre alla damnatio memoriae.
Esse potrebbero anche costituire una specie di memento mori. Proprio a quelle persone è rivolto questo modesto tributo, convinto, come sono, della esemplarità delle vite che hanno vissuto. Le loro flebili voci ancora risuonano - per chi sa ascoltarle - tra le pietre immutate dell’antico borgo, dove si inala dall’aria l’odore del tempo; e, riferendo qualcosa d’interessante, hanno impartito lezioni di vita tuttora preziose. Chi più chi meno, tutti ci hanno insegnato qualcosa: chi più chi meno tutti abbiamo imparato qualcosa da loro. Ora non possiamo - non dobbiamo! - permettere che i loro segni precari si dissolvano in un oblio ingiusto. Abbiamo tutti il compito di custodirli come fossero retaggi di valore.
Alla maniera di Arcadio Buendìa# ho marcato i nomi di sette otto (s)oggetti, per non dimenticarne la …funzione. Di sicuro erano più di sette otto i (s)oggetti che hanno meritato di essere contrassegnati. Per ora dovrete accontentarvi di questi.
Per ultimare quest’impegno - assunto soltanto con me stesso e col mio daimon (il vizio impunito della scrittura) - non mi sono sfinito in alcuna ricerca, ho solo adoperato brandelli di vite, i cui titolari sono individui realmente esistiti, persone comuni - ma, a loro modo, speciali - campioni di una umanità schietta; protagonisti di esistenze sobrie, silenziose, quasi invisibili, sempre garbate. Sono morti tutti. Tutti hanno terminato la loro personale battaglia terrena. Per questo motivo ho voluto ricordare l’anno di nascita e di morte di ciascuno. Mi è sembrato che la coltre di polvere che ricopre tutte le cose vecchie avesse coperto anche loro e che  andasse rimossa. Allora ho voluto asportarla. E grattando nella crosta di quelle vite ho prelevato questi pochi frammenti (Rosam carpe, spinam cave!). Soprattutto mi sono sforzato di conservarne la sostanza più autentica. Per lo più si tratta di reminiscenze nitide, o appena impallidite dal molto tempo passato; sospese tra memoria ed imago, realtà (quasi tutta) e fantasia (qualche lampo). Le ho ritenute adatte ad offrire scampoli di quelle esistenze - ripeto, solo in apparenza ordinarie - consumati nei tanti brevi attimi che cuciti insieme fanno una vita intera. Qualche volta - devo ammetterlo - mi sono arreso alla tentazione d’inserire qualche piccolo dettaglio sprigionatosi dalla mia immaginazione - senza, per questo, tradirne la verosimiglianza.
Coltivando il progetto ambizioso di tracciare un mio personale amarcord sono andato a scavare nei ricordi di un bambino qualunque. Ho tentato di riportare alla luce quelli che amo definire ordinari luoghi comuni. Territori geografici o metafisici; realmente esplorati o frutto della mia immaginazione; popolati da campioni umani o da creature leggendarie; costruiti con immagini e voci; provvisti di forma e dimensioni; arricchiti da emozioni personali o da sensazioni collettive; consumati in brevi attimi o nei lunghi momenti di una vita. Parte cospicua del risultato è contenuta in questo…time travel. L’ho tessuto con premura - e con pazienza che neppure sospettavo di possedere - sul malfermo arcolaio della mia perizia, utilizzando come ordito i miei ricordi, come trama le mie parole. Non sono una …bestia da prosa - forse, non lo diventerò mai - quindi ho dovuto sforzarmi di non scrivere insulsaggini - in ogni caso non troppe - cercando, al contempo - senza risultare troppo aforismatico, né sapienziale o pretenzioso - di attenermi, quanto più fosse possibile alle sole persone e al loro operato, anche se in qualche caso ovvio sono stato sentimentalmente coinvolto.
Questo è il meglio di cui sono stato capace. Voglio offrirlo a quanti hanno condiviso quei ricordi con me, ma non hanno colto la straordinaria normalità di quelle persone (o, se preferiscono, la loro normale straordinarietà); donarlo a chi non ha vissuto quei tempi, perdendo il momento propizio per apprezzarne la evidente diversità. All’unica condizione che entrambe le categorie sappiano cogliere ora la tensione drammatica ora la levità ironica che mi sono sforzato di contenervi.
Chi avrà la ventura - o la sventura di leggerlo, dipende dai punti di vista - vi potrà ritrovare, o sperimentare, le mie stesse sensazioni, attraverso la suggestione che solo le testimonianze dirette riescono a generare. Ho reclamato a me stesso di scribacchiare questo volumetto, e l’ho fatto: con qualche fatica (Hoc opus, hic labor est!), ma ricavandone puro piacere. E cercando anche di metterci dentro, qua e là, una certa idea di poesia che mi porto in testa da sempre.
Per questa e per mille altre ragioni mi auguro che le quasi 100 pagine che seguono - fittissime, perché contengono più di 40.000 parole, ordinate in 900 paragrafi, a loro volta distribuiti lungo 4.000 righe - non siano considerate un impegno superfluo o, peggio, tempo speso male. E, nemmeno, che appaiano rimembranze banali, prive di originalità. Auspico, invece, che possano far assaporare ad altri sensazioni simili a quelle che io ho provato scrivendole - altrettanto intense. E spero, pure, che possano trarne lo stesso mio gusto i pochi - o i tanti - che le leggeranno. Per questa ragione preminente ho deciso, alla fine, di parteciparle. Le mie evocazioni non aspirano certo ad ottenere la considerazione che meritano solo i più alti esercizi di stile; né a fornire una nostalgica apologia dei tempi passati. Esse provengono direttamente da un mondo anteriore - schietto ed espressivo. Se questo mondo sia peggiore o migliore del nostro, in tutta onestà, io non posso saperlo. Sebbene abbia tentato di fornire un abbozzo di risposta che possa aiutare a comprenderlo - o, quantomeno, a farlo intuire. Solo per iniziare, posso dire che quel mondo era anche nostro. Ci apparteneva e nemmeno lo sapevamo. La nostra incuria ne ha provocato la definitiva scomparsa. Ora, che non c’è più - o meglio, che non lo abbiamo più; che non possiamo più disporne - dobbiamo limitarci a ricordarlo con un pizzico di commozione. O - se preferite - addirittura a rimpiangerlo. E, utilizzando quegli stessi struggenti ricordi, cercare il giusto, e più che meritato, riscatto delle dignitose persone che l’hanno popolato e animato. Perché, ora, più che mai, solo quelle persone possono degnamente rappresentare quel mondo.
Da quei giorni felici, che oggi mi appaiono come in un sogno - bello ma ormai sbiadito - sono passati più di quarant’anni. Per quanto possano sembrare lontani, quei giorni, quel mondo, quelle persone, insinuano il dubbio che non siano mai esistiti davvero. In questo libro non si tratterà di come magnificare quei giorni, quel mondo, quelle persone; ma si tenterà, piuttosto, d’impedire la definitiva estinzione del loro - fin troppo effimero - ricordo.                                                                                                                     

l'autore


domenica 15 luglio 2012

Le stagioni della lattaia, Piccola storia n.5: Il funaio che somigliava a Nero Wolfe.



"Tutto ciò che, nella tensione di quella scena, avrebbe turbato il quadro di distesa immobilità al centro del quale restava sempre lui - inamovibile - erano i piccoli cilindri di cenere grigiastra formatisi dalla combustione del tabacco che, fattisi pesanti, ad intervalli regolari si staccavano per gravità; cadevano, silenziosamente, sulla parannanza di cuoio che gli copriva il pancione; rotolavano lungo l’abbondante curvatura della gamba e, restando miracolosamente compatti, arrivavano a terra; dove s’infrangevano, disintegrandosi, come a seguito di una microscopica esplosione".

Le stagioni della lattaia, Piccola Storia n.6: Giovanni il contadino vero.


"Giovanni era vicino di casa di Alessandro. E come il suo vicino di casa era un uomo alto, molto alto - quasi imponente. Ma, a parte il fatto che si trattava di due brave persone, non ricordo altri particolari che potessero accomunare due tipi per il resto tanto diversi fisicamente - oltre che intellettualmente.
Al contrario di Alessandro, infatti, Giovanni non era grosso né statico, ma longilineo ed energico, in possesso d’un fisico asciutto e prestante, ben allenato al movimento, scattante e temprato dal duro lavoro nei campi. La sua corporatura nervosa pareva intagliata nel tronco robusto di una delle querce secolari che crescono dalle nostre parti. Giovanni era stato, pure lui, fortunato a conservare tutti i capelli - ma li aveva spessi e bianchi. Disposti in una capigliatura folta, ma scontrosa e indocile. Il suo volto grondava pathos. Scolpito ed espressivo, come una maschera della tragedia greca, tradiva i tormenti che la vita - con lui particolarmente avara di gioie - non gli aveva risparmiato. Ma s’era, invece, divertita a profondergli a piene mani. Lui, fin da giovanissimo, il peso della vita - e non solo della sua - se l’era caricato sulle spalle, e l’aveva portato fino a quando ce l’aveva fatta. I suoi tratti marcati si confondevano con le rughe profonde, scavate dall’età, dalla fatica e dal sole. Guance incavate, zigomi forti, naso affilato, e un pomo d’Adamo scandito. Così ricordo il suo viso arso."

(Brano tratto dall'incipit della Piccola storia n.6 - Le stagioni della lattaia: Giovanni il contadino vero)

venerdì 13 luglio 2012

le stagioni della lattaia, piccola storia n.2 Gerardo il vecchietto naif.

"Quando non stava nel suo mondo fantastico, abitava un paio di piccole stanze sporche e disadorne. Non era un’abitazione dignitosa. Piuttosto un tugurio. Una spelonca. Una tana buia e umida di muschio, dove si ritirava solo di notte. Per coricarsi. Mentre, per riprendersi dalle sbornie frequenti, di giorno dormiva dove gli capitava. Spesso lo vedevo in piazza. Abbandonato sul muretto. O rannicchiato a terra che pareva morto. Spalmato sul marciapiede. La testa poggiata sull’avambraccio. Si pasceva d’asfalto, polvere e pietre".

giovedì 12 luglio 2012

Dalla raccolta di racconti paesologici di Salvatore M.Ruggiero: LE STAGIONI DELLA LATTAIA, Piccola storia n.6 Giovanni, il contadino vero.

..."Solo adesso, da grande, a distanza di qualche decennio, penso d’avere finalmente compreso la reale natura del richiamo che quella persona rustica quieta e senza fronzoli, esercitava su di me - ciò che all’epoca mi affascinava veramente della sua essenziale ma pregiata personalità. Da come agiva, da come gestiva la sua vita, posso finalmente arguire che Giovanni fosse riuscito a stabilire un rapporto dinamico col tempo. Se n’era impossessato, diventandone padrone assoluto. Sembrava averlo addomesticato. Silenzioso lo amministrava mentalmente per arrivare a gestirlo in concreto. Sempre in grado di modellarlo sulle sue misurate eppure sontuose abitudini. Non permetteva che il tempo scandisse i suoi ritmi circadiani, se li regolava da solo, come pure i ritmi delle sue giornate, lunghe o corte, dure o leggere, piene o noiose che fossero. Pareva aver reso l’inesorabile corsa del tempo una sua propizia alleata, invece che avversaria inclemente. Per dirla con Thomas Mann era consapevole del fatto che non solo ogni cosa buona vuole il suo tempo, ma anche ogni cosa grande. Così, come si regola un metronomo, Giovanni regolava le sue ventiquattrore, aumentandone o abbassandone la frequenza secondo le sue necessità. E facendo, per lo più, quello che, compatibilmente coi suoi impegni, gli procurava piacere fare - che si trattasse del suo lavoro, o anche delle sue passioni. Giovanni era paziente, calmo, costante, tenace, in tutto ciò che voleva realizzare. S’era allenato per tempo, col tempo e nel tempo, a non essere impaziente - mai. A saper attendere, ad aspettare con autocontrollo che gli eventi su cui faceva affidamento si compissero. Del resto il suo lavoro richiedeva proprio queste qualità, basato com’è sulla marcia del tempo, sul ciclico scorrere delle stagioni, sull’attesa, sempre tranquilla, mai insofferente, della lenta maturazione dei frutti. Insomma, di tutti i miei conoscenti, Giovanni era l’unica persona che mi appariva capace di esercitare sul suo tempo un controllo diretto - o, quantomeno, di non soffrirne la corsa. E, insieme, di contenere gli effetti di certi - diciamo così - fatali disguidi. Impresa non facile per tutti gli altri cristiani".

Esercizi di paesologia: CISTERNA DI LATINA.

Percorro la Pontina. 
Non c'è traccia del traffico di cui parla la radio nelle rubriche del viaggiatore informato.
Raggiungo abbastanza facilmente Latina.
Qui il traffico si è un po intensificato. Ma solo un po.
Mi lascio l'uscita per Via Isonzo sulla destra e sfilo via, proseguendo per Cisterna.
A pochi chilometri di distanza, sedici per la precisione, dopo un lungo rettilineo a due corsie (sono abituato a questa tipologia di strade da quando percorro la Pianura Pontina), ecco comparire, appena dopo Borgo Podgora, Cisterna, un comune di oltre trentamila abitanti.
Un paesone o una piccola città, a seconda di come lo guardi e della rposopopea di quello con cui parli.
La città, quasi tutta bassa, deve il suo nome a un serbatoio d'acqua voluto da Nerone (imperatore romano dal 54 al 68 d.C.) affinché si riuscisse a rifornire la vicina cittadina di Anzio, nonché sua città natale.
Luciano il pasticciere (dove mi fermo ad addentare un ottimo bombolone alla crema pasticcera, morbido e saporito), invece, mi spiega che si chiama così perchè durante la costruzione della Via Appia (Regina Viarum) alle sue falde d'acqua, imbrigliate in enormi vasche al bordo della strada si abbeveravano i cavalli della posta.
Forse ha ragione anche lui.
Il Comune, ad ogni modo, incentra la propria economia sull'agricoltura, in particolar modo sulla produzione di kiwi molto apprezzati in tutto il territorio nazionale; e questo è un ottimo modo per sfruttare l'abbondanza d'acqua.
Percorro a piedi Corso della Repubblica per almeno un km.
E' pieno di negozi, di tutti i tipi. Ma non c'è traccia di librerie: i cisternesi non leggono, oppure vanno a comprare i libri a ...Velletri.
Mi siedo davanti al monumento ai caduti, all'ombra di grossi tigli che delimitano il vialetto d'accesso ci sono, a serie di tre, delle panchine di ferro traforate dai colori improbabili, ma ben assortiti: viola, rosa fucsia e pervinca; che diventano pervinca, rosa fucsia e viola nella serie successiva. Poi un'altra volta viola, rosa fucsia, pervinca.
Il alto, alla sommità di tre colonne dalle altezze sfalsate e colorate pure loro di viola ci sono come dei leggii.
Una cervellotica installazione di un altrettanto cervellotico progettista.
Non trovo nessuno che mi spieghi cosa significhi quello scandalo; io da solo non riesco a trovare una lettura plausibile.
Il tempo minaccia: in una buona mezz'ora della mia lettura i tigli mi riparano dalla pioggia, poi dal sole, poi ancora dalla pioggia.
Cisterna è nota ai più per essere la città dei butteri, tipici dell'Agro Pontino oltre che della Maremma Toscana; si tratta di pastori a cavallo un tempo molto più frequenti di oggi che fanno da protagonisti con il loro caratteristico abbigliamento di alcune esibizioni a cavallo: tra le più note nel territorio spicca la 'Corsa all'Anello' che nel mese estivo di Agosto rallegra la cittadina.
Attingo la chiotta notizia da un piccolo opuscolo turistico rubato da un leggio lungo il corso.
Risulta chiaro "ictu oculi" che chi cercasse qualcosa di bello da vedere a Cisterna centro non troverebbe niente.
Il solito Luciano mi dice che delle antiche vestigia non è rimasto niente: la città è stata, quasi completamente, rasa al suolo durante la IIa Guerra Mondiale.
E' meglio, quindi, che un eventuale turista rivolga la sua attenzione ai dintorni: ci troverebbe i Giardini di Ninfa.
Ed è lì che io mi dirigo.


"Ninfa è stata dichiarata Monumento Naturale dalla Regione Lazio nel 2000 al fine di tutelare il giardino storico di fama internazionale, l’habitat costituito dal fiume Ninfa, lo specchio lacustre da esso formato e le aree circostanti che costituiscono la naturale cornice protettiva dell’intero complesso. L’istituzione del Monumento Naturale è l’ultimo tassello di un percorso che ha avuto inizio in epoca romana quando, nei pressi dell'attuale giardino, fu costruito un tempio dedicato alle divinità delle acque sorgive, le Ninfe Naiadi, da cui l’omonimo fiume Ninfa."
(dal sito ufficiale Fondazione Roffredo Caetani)
 



SMR

mercoledì 11 luglio 2012

Don Giuseppe Lavalle - "Il prete che vedeva lontano" - da Le stagioni della lattaia: la mia Piccola storia n. tre.

"Pressappoco era così. Un prete piccolo piccolo. Col corpo talmente minuto da non poter incutere alcuna soggezione. Un ometto basso - non superava il metro e mezzo. Era alto appena come noi bambini. Secchissimo - un chiodo. Quasi non aveva carne tra la pelle e le ossa. Doveva gestire uno scheletro sottile e leggero, come quello di un piccolo uccello. Come un uccello anche lui sembrava adatto al volo.  Calvo - solo due radi ciuffi di capelli bianchi e arruffati e scomposti. Un teschio scavato e affilato, compreso fra due grandi orecchie pelose. Una piccola faccia volpina che ospitava un naso adunco, occhi piccoli e vispi, spesso scerpellini e una bocca sdentata, come quella di un bradipo. Per farla breve Don Peppino avrebbe potuto dar corpo, più che fedelmente - e risparmiandosi il trucco - a un arcano personaggio delle saghe di Tolkien.  
La sua testa era perennemente coperta da un basco nero. Solo quando stava in casa lo sostituiva volentieri con una papalina sbrindellata, fatta di lana coi ferri da calza. Anche quella rigorosamente nera. Non la lavava da anni."


"E qual'è la novità?" Vi chiederete?
"La descrizione che tu fai è uguale alla guache!" Direte voi.
Si! Avete ragione. Ma io l'avevo ....tratteggiato prima: lo schizzo l'ho trovato dopo. (Sic!)

I marsigliesi, i molluschi e ... Ingmar Bergman.

Io, non li conosco, e siccome preferisco il pregiuzio ai principi, ritenevo che i marsigliesi fossero solo grandi consumatori di abbondanti "bouillabaisse".
Ho dovuto ricredermi.
Quando ho appreso che chiamano i molluschi guasti: "....endifferents".
Che significa, appunto, indifferenti.
Indifferenti all'acido citrico contenuto nel limone che ci mettono sopra.
In pratica, loro aprono un mollusco - poniamo che sia un'ostrica - se quello fosse vivo e fresco si muoverebbe, reagendo al succo di limone; se, viceversa, fosse guasto o, addirittura, morto, direbbero che è: "....endifferent" (indifferente), perchè non si muove, non reagisce.
Applicando la stessa regola agli uomini (e questo è il bello della storia) loro ritengono che una persona indifferente, che non reagisce, è guasta, quindi morta.
Morale: pare quasi che i marsigliesi abbiano letto Ingmar Bergman e ne abbiano appreso e fatto loro il suo profondo insegnamento:
"La cosa peggiore è l'indifferenza; il peccato peggiore è l'omissione, il disimpegno."
Buona bouillabaisse!

SMR

martedì 10 luglio 2012

APPUNTI SPARSI DOPO LA VISIONE NOTTURNA DEL FILM DI INGMAR BERGMAN: LA TERRA DEL DESIDERIO.



“Dobbiamo avere qualcuno da amare. Se non lo abbiamo è come essere morti.”

Terzo film di Bergman.
Quarto, secondo alcuni.
Che contano, evidentemente, le ultime scene del film, ascritto a Half Sjoberg, “Spasimo” (“Hets”, 1944) girate da un esordiente Bergman in sostituzione del regista titolare (indisponibile) per gentile concessione del produttore.
Ancora un titolo tradotto malissimo e in modo assolutamente fuorviante da distributori italiani, ignoranti e senza scrupoli, che strizzano l'occhio al botteghino e vogliono introdurre nel titolo pruriginose sfumature erotiche inesistenti nel film.
“La terra del desiderio” c'entra poco o nulla con “La nave per le Indie” del titolo originale (“Skepp till Indialand”) semplicemente tradotto in italiano.

SINOSSI:

Il film racconta la storia d'amore tra il marinaio Johannes (un giovanissimo Birger Malmsten, prototipo dell'attore bergmaniano, che rivedremo il molti film successivi) e Sally (una sbiadita Gertrud Fridh, che invece non rivedremo molto spesso).
Quando lui le dichiara di non averla dimenticata nei sette anni in cui è stato via, lei lo respinge.
Lui vaga sulla spiaggia sassosa ricordando i bei momenti andati.
Parte da qui un lungo flash-back.
Johannes ha un padre, capitano della nave, non altrettanto morigerato.
In una delle bettole che abitualmente frequenta l'uomo conosce un giorno Sally, una cantante-ballerina, e commette l'errore di portarla a casa sua, imponendo la presenza della donna in famiglia.
Tra Johannes e Sally, coetanei, fiorisce presto l'amore.
Il padre, per questo motivo, tenta di uccidere il figlio, durante il recupero di una nave, ma Johannes scampa il tentativo del padre, aiutato da altri marinai.
Il drammatico episodio convince il giovane che è meglio allontanarsi, partendo per terre lontane.
Quando il flash-back finisce Johannes torna da Sally, le propone di ritornare insieme e di ricominciare una vita.
Sally sulle prime resiste alle sue insistenze, poi accetta la proposta del giovane.
Infine insieme salgno sulla nave che salpa verso una vita nuova, tra un volo di gabbiani.

RECENSIONE:

Film molto schematico.
Con alcune scene iniziali che costituiscono un breve prologo; un lungo flash-back centrale che costituisce il vero corpo del film; alcune scene finali che costituiscono l'epilogo.
Girato poveramente, con pochi mezzi.
Ma a Bergman non servono effetti speciali: ha già bene in mente quale sarà il suo cinema futuro. Pochi “dolly”, molti primi-piani.
Egli mette in tavola quelli che sono indiscutibilmente i suoi piatti preferiti nel primo periodo romantico:
rapporti tra le persone (specie di sesso opposto);
rapporti problematici tra padre e figlio (chiari accenni autobiografici);
amore come unico mezzo per garantire la convivenza tra le persone e come panacea di tutti i mali psicologici e socio-economici.

Eppoi Ingmar Bergman dimostra di sapere già scrivere: e sebbene non sia ancora maturo per il cinema (ma già ben attrezzato per il teatro) ci propone la solita sceneggiatura di ferro.

“C'è stata una gran tempesta stanotte: a volte ci vuole pulisce l'aria!”

“Bisogna cercare di evadere quando ci sentiamo chiusi, altrimenti il muro si alza e non c'è che da buttarsi dalla finestra!”

“Ho la sensazione che non ci sia niente al mondo che possa veramente durare. So solo che ti amo, tutto il resto non conta.”

Sono le frasi (che non si scordano molto facilmente) che il Maestro fa dire ai suoi protagonisti (e che tutti vorremmo aver detto!) nei momenti topici del film.

Secondo Sergio Trasatti:
“...Un film povero, realizzato con pochi mezzi. Un film semplice, lineare, didascalico. La morale è messa via via in bocca ai protagonisti.”








SMR

lunedì 9 luglio 2012

Le stagioni della lattaia. Il racconto breve della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie.


"Quando non aveva di meglio da fare, o voleva semplicemente distrarsi, Giovanni si procurava dei lunghi, sottili rami d’ulivo o di salice. Una volta lavorati li avrebbe impiegati come frustino per l’asino - o per allontanare i serpenti che incrociavano spesso i suoi tragitti in campagna. Da quei virgulti ricava anche dei curiosi archetti flessibili. Gli servivano per cercare le falde d’acqua sotterranee. Che ci crediate o no era un esperto rabdomante. Capitava spesso che altri contadini lo chiamassero perché indicasse loro il punto preciso dove scavare un pozzo artesiano. L'hanno pure filmato mentre, con aria consumata, esperta, quasi dottorale, cerca l’acqua per le terre. Non so dove ne avesse appreso la tecnica - forse era autodidatta, se vale anche per la rabdomanzia - né come potesse riuscirci. Forse per esperienza - o per puro caso. Ma lo faceva. Io ci credo. Giovanni non era un imbroglione."
(Estratto dalla piccola storia n.6: Giovanni il contadino vero.)

venerdì 6 luglio 2012

Le macere di Coreno Ausonio.

..."Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono sul sofà con gli artigli ficcati nello schienale. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali. Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale. Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta. Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo e con le intemperie, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante".

(Brano del libro "Le stagioni della lattaia", di Salvatore M.Ruggiero, tratto dalla "Presentazione dell'autore")

martedì 3 luglio 2012

Coreno Ausonio: appunti di economia.

Il motore dell'economia della comunità è senz'altro lo sfruttamento della pietra calcarea del Perlato Royal Coreno. Sul territorio, sono presenti molte cave, segherie ed agenzie di trasporto che si occupano, rispettivamente, della sua escavazione, della lavorazione e del trasporto, anche a livello internazionale.
(Autore incognito)




"Negli ultimi anni, purtroppo, molte cave e segherie sono entrate in crisi. Oggi si assiste, quindi, ad una diversificazione dello sfruttamento dei giacimenti e ad una modificazione degli stessi sistemi di lavorazione del marmo. Sono, così, comparsi i primi frantoi, nei quali la pietra calcarea informe, non suscettibile di altro sfruttamento economico, viene triturata, a volte perfino polverizzata, per poter essere utilizzata, sotto questa nuova forma, nell'industria delle costruzioni e finanche nella industria cosmetica. Questa relativamente nuova attività "potrebbe", oltre che contribuire al rilancio del bacino marmifero in difficoltà, anche avere dei risvolti positivi sul ripristino dei luoghi soggetti alla escavazione. Inducendo gli imprenditori a cercare materiale da sfruttare, non dalla escavazione "tout court", ma dal recupero dei cosiddetti sfridi. Essi erano depositati e "dimenticati" nelle discariche a cielo aperto che, accessorio irrinunciabile delle vere e proprie miniere, anch'esse a cielo aperto, contribuivano a deturpare il bel paesaggio collinare. Rimane inattuata una diversificazione degli obiettivi economici del paese. Dimostrano buone potenzialità la sua antichissima e tradizionale vocazione agropastorale, con la zootecnia, l'enogastronomia, la produzione e la lavorazione dei prodotti tipici. Non è sfruttata nemmeno l'invidiabile posizione baricentrica tra mare e montagna; tra bellezze culturali, paesaggistiche ed archeologiche, il paese non è al momento dotato di infrastrutture adeguate ai parametri imposti da una nuova, e sempre più qualificata, richiesta del turismo gravitante."

(Autore: SMR)

I paesi è meglio abbandonarli che ...violentarli.

"Prima che partisse la corsa allo sfruttamento industriale della pietra calcarea, all'inizio degli anni '60, l’unica vera risorsa era la terra: da coltivare, fertile e generosa; o sassosa e avara.

Allora i terreni da coltivare si spietravano a mano, sasso dopo sasso.

E si coltivavano per sopravvivere.

Allora le uniche prosperità erano gli animali e i figli.

Poi è arrivata qualche lira ed ha guastato tutto.

Ha rotto equilibri antichi, tenuti in piedi per secoli solo dalla miseria e dalla fame.

Ora, che una quantità insensata di cemento è stata versata a sproposito, brutalmente - come una bestemmia urlata in faccia ad un povero cristo - su tutto il paese, anche nel cuore del vecchio centro storico, prendendo il posto delle stradine e delle piazzette lastricate a pietra e dei muri a secco centenari, le case - se va bene - hanno gli esterni di quarzo plastico e gl’infissi d’alluminio anodizzato - perfino alcune di quelle costruite non proprio di recente".

(da Le stagioni della lattaia di Salvatore M.Ruggiero)

Appunti sparsi dopo la visione notturna del film di Ingmar Bergman: Una vampata d'amore, 1953.

Appunti sparsi dopo la visione del film di Ingmar Bergman:
Una vampata d'amore (Gycklarnas afton, 1953).






“Su Una vampata d'amore non c'è molto da dire. Si può apprezzare che il film è un tumulto, ma un tumulto ben organizzato”
(Ingmar Bergman, dal libro-diario Immagini)

Sinossi:

Il film è la storia di Albert Johansson, direttore di un circo scalcagnato in profonda crisi di spettatori e d'incassi.
Albert ha una relazione con una giovane e bella donna, Anna, chiamata enfaticamente la cavallerizza spagnola.
Per lei ha abbandonato, qualche anno prima, la moglie, la casa e i tre i figli.
Durante una visita a teatro, dove Albert si reca per chiedere in prestito dei costumi di scena al direttore Sjuberg, Anna che lo ha accompagnato, conosce l'attore Frans, un fascinoso e intraprendente dongiovanni.
Da lui si fa irretire e sedurre.
Quando Albert decide di recarsi in visita alla moglie, Anna approfittando della sua assenza e irritata dalla decisione del compagno, torna a teatro, dove lo tradisce con l'attore, attirata dallo scintillio di un gioiello che Frans le dondola sotto il naso, ma che si rivelerà falso e senza valore.
Anche Albert viene sedotto, non dalla moglie, ma dalla sua vita tranquilla di agiata commerciante.
Le chiede, addirittura, se può tornare da lei, stanco e deluso dalla vita raminga del circense.
In cambio le offre il suo aiuto come commesso nei suoi negozi.
Ma la moglie rifiuta, avendo individuato proprio nell'ex marito la fonte di tutti i suoi precedenti guai e preoccupazioni.
Durante il primo spettacolo serale, Anna viene offesa da Frans che rivela a tutti la loro relazione.
Poi Frans, sempre più volgarmente offende, umilia e malmena Albert, che volendo vendicare la scappatella della sua compagna lo sfida a battersi con lui al centro della platea.
Albert, distrutto moralmente e fisicamente, e ormai senza prospettive, prima annuncia il suicidio, poi minaccia una strage, infine ci ripensa e ammazza solo l'orso di Alma.
Alla fine tutto tornerà al suo posto.
Il circo riparte per il suo tour.
Albert e Anna tornano insieme. Si danno un'altra possibilità.

Recensione:

Il film si basa essenzialmente su un episodio autobiografico.
Bergman che costringe una sua amante a raccontargli le sue passate esperienze erotiche.
Da qui la logorante esperienza della gelosia che lui ricorda condensandola nel drammatico prologo, che fa raccontare ad Albert e allo spettatore dal cocchiere.
Alma, la domatrice di orsi, fa il bagno nuda davanti agli sguardi divertiti e eccitati di un reggimento di soldati che si sta esercitando in un poligono di tiro.
Il marito Frost, avvertito da un inserviente di quango sta succedendo alle sue spalle, accecato dalla gelosia, va a recuperla tra gli sberleffi della truppa, e prendendola di peso tenta di riportarla sotto il tendone del circo.
Ha un malore fisico, dovuto allo sforzo immane e viene aiutato dai suoi colleghi circensi, strettisi intorno a lui.

Un film triste, duro, violento.
Dalla critica francese dell'epoca fu definito il più nero dei film di Bergman.
Vi si condensano alcuni temi cari a Bergman, presi da film precedenti e che poi verranno ripresi nei film successivi.
Il rapporto tra le varie forme d'arte: il teatro arte nobile, opposto specularmente al circo, visto come una specie d'arte simile ma di rango inferiore.
L'altalena tra realtà e fantasia; realtà e finzione; realtà e recitazione, che spesso si confondono e si compenetrano nella vita di tutti i giorni.
L'inattendibilità dell'arte, che trova la sua icona nell'attore vizioso e falso e fedifrago, Frans.
E nelle parole offensive che il direttore Sjoberg (autobiografia?) rivolge a Albert, confessando alla fine di ritenersi uguale a lui.
I rapporti problematici di incomunicabilità tra le persone.
I rapporti (autobiografici anch'essi) di difficile gestione interpersonale del matrimonio, dell'amore, del sesso e della gelosia.
Il problema della infelicità e della insoddisfazione come condizione umana irreversibile.
L'amore fra le persone e la famiglia come unica soluzione al problema della (in)felicità, della solitudine e dell'indigenza.

Harriet Andersson protagonista assoluta, nel ruolo di Anna, tiene il centro della scena con la sua bellezza proporompente e la sua spontaneità, si conferma grande dopo Sommaren med Monika e prima di Come in uno specchio, gioca a (ri)fare Monika, come nel film precedente.
Le similitudini tra i due personaggi sono impressionanti.
La sensualità, la carnalità, la immaturità, la capacità seduttiva, la vulnerabilità, l'ambizione, la volubilità, la doppiezza, la amoralità, la voglia e la determinazione di mutare le proprie condizioni sociali ed economiche con ogni mezzo e ad ogni costo, sono le stesse dell'altro personaggio.
Accompagante qui ad una altrettanto alta tendenza a delinquere e al tradimento, sempre indirizzate alla ricerca di una vita migliore.
Anche in questo film il disegno quasi criminale di una vita migliore fa arrivare Anna (come Monika nel precedente) alle estreme conseguenze: quando praticamente senza remore di carattere morale, offre una prestazione sessuale all'attore Frans, in cambio di una promessa di assoluta discrezione e alla offerta di un gioiello che le promette un anno di sopravvivenza e di affrancamento dalla fame e dagli stenti del circo.
Un vero e proprio atto di prostituzione.
Bergman ricorda, come pure in Monica e il desiderio come siano sostanzialmente due i modi in cui nella Svezia degli anni '50 la donna poteva “liberarsi” dai bisogni e/o emanciparsi: la dura fatica o la ...”bella vita”.

Da ricordare nel ruolo del direttore del teatro Sjuberg un giovane Gunnar Bjornstrand, elegante, altezzoso ed irridente, ma tutto sommato disponibile e comprensivo coi colleghi poveri del circo.