venerdì 7 settembre 2012

Tutti abbiamo avuto il nostro "Nuovo Cinema Paradiso".





Brano tratto dal libro di Salvatore M.Ruggiero: "Le stagioni della lattaia";
ed esattamente dalla "Piccola storia n.4 - L'Arciprete era anche pittore".



"Don Erasmo ci ha fatto conoscere il cinema. A quei tempi non era cosa da poco. E’ uno dei motivi per cui sento che tutti in paese gli dobbiamo riconoscenza. Al piano terra della canonica, da un grande salone, aveva ricavato una sala cinematografica credibile. Negli anni ’60, tutte le domeniche pomeriggio vi teneva uno spettacolo settimanale, uno solo e affollatissimo. Lo faceva iniziare solo dopo che la funzione vespertina era terminata. Considerava opportuno, se si voleva accedere con la giusta predisposizione d’animo, che tutti avessero fatto una capatina in chiesa, prima.   Negli anni ’70 la neonata Pro-Loco organizzava in quello stesso salone i suoi cineforum. Ogni giovedì sera, immersi in un silenzio religioso, ci sorbivamo i drammoni esistenziali di Bergman. Il sabato mattina Don Erasmo faceva portare in piazza, dal figlioccio, un cartellone di compensato, con sopra attaccata una grande locandina a colori del film programmato. Ci prendevamo a botte per usare la pistola spara punti. Essere artefici di quella scemenza ci facevano sentire importanti. Dio! Quanto eravamo stupidi. Già qualche mezz’ora prima dell’attesa proiezione in tanti stipavano l’angusto spazio che si apriva sulla strada adiacente - in discesa. Proprio davanti al curioso capanno che lui usava come garage, e la perpetua come legnaia. Una piccola porta di legno impediva l’accesso al cinema. Quando si schiudeva - quasi magicamente perché qualcuno l’aveva aperta dall’interno - eravamo tutti pronti ad entrare. Affollandoci, e spingendoci l’uno con l’altro, correvamo ad occupare i posti migliori. Appena dopo l’ingresso a sinistra, nella parete obliqua che doveva impedire di vedere lo schermo dalla strada, l’Arciprete aveva fatto aprire dai muratori una finestrella quadrata bordata di legno e l’aveva chiusa con un compensato scorrevole. Da quell’apertura, se eri alto abbastanza, vedevi la faccia del bigliettaio - altrimenti ne scorgevi a mala pena le mani sporgenti. In genere, il compito di staccare i biglietti della SIAE, toccava al vecchio sagrestano. Lo stesso che all’imbrunire accendeva le lampadine per le strade di tutto il paese. L’uomo ci consegnava diligente i piccoli tagliandi - di volta in volta  rossi, gialli, verdi - solo dopo aver ricevuto in cambio dieci lire. In sua assenza, di là dell’angusta apertura si vedeva il testone irsuto del suo sostituto più giovane. Oltre il muro, uno stretto gabbiotto in mattoni forati, rivestiti grossolanamente di malta. Grande abbastanza da poter ospitare due persone: il proiezionista e l’Arciprete, che assisteva a tutti gli spettacoli. C’era, assieme ai pannelli elettrici, un rumoroso proiettore, issato su un traballante tavolo di legno, a sua volta sollevato su un soppalco. Ché, passando ben al di sopra delle nostre teste, arrivasse a puntare perfettamente contro lo schermo bianco - in fondo alla sala.   Quando era azionato se ne scorgeva la luce da un piccolo buco. Il salone era interamente occupato da una fitta successione di scomodi sedili di legno col sedile ribaltabile, messi uno davanti all’altro in file ordinate. Ne aveva procurati abbastanza per ospitare la maggiore quantità possibile di spettatori. Riempiti tutti di paganti - cosa che avveniva di solito - costituivano un incasso corposo. I soldi non li teneva certo per sé. Quelli che rimanevano dopo aver saldato il costo del noleggio, e le tasse fino all’ultima lira, li utilizzava per i piccoli lavori di manutenzione in chiesa e in canonica. Oppure per finanziare l’attività delle associazioni che lui sovrintendeva tutte personalmente. Dall’ingresso i banchi arrivavano fino al palcoscenico - una quindicina di metri buoni più in là. L’aveva costruito apposta. Un’altra sua grande passione era il teatro. Tre o quattro volte l’anno, coi giovani dell’Azione Cattolica, organizzava rappresentazioni che trattavano, preferibilmente, argomenti sacri - in genere la vita e la Passione di Gesù Cristo. In questo modo conciliava l’interesse per il teatro con la sua missione di evangelizzatore. Alcuni banchi li aveva messi pure lungo i muri laterali. Anche quelli finivano per essere occupati dai ritardatari. Ricordo che molti, arrivati a spettacolo iniziato, si affollavano all’ingresso, sollevati sulle punte dei piedi, per riuscire a vedere qualche pezzo di film. Certi furbastri si presentavano apposta a spettacolo iniziato. Il trucchetto consentiva loro di non pagare il biglietto. Se ti giravi potevi vederli, addossati uno all’altro, in una posizione che, però, doveva essere scomodissima. Naturalmente l’Arciprete esigeva che il loro contenuto fosse castissimo. I fotogrammi reputati audaci sarebbero stati martoriati dalla sua inesorabile forbice. Don Erasmo, molto meno indulgente degli stessi censori ufficiali, provvedeva personalmente a visionare in precedenza i film. Per avere il tempo di eliminare le scene che la sua severa moralità riteneva spudorate. Questo, almeno, era quanto sostenevano i soliti ben informati. La diceria doveva avere un fondo di verità, perché quando per mancanza di tempo non era riuscito ad esaminare la pellicola e all’improvviso comparivano sullo schermo o un bacio troppo appassionato o i seni rotondi delle prosperose ancelle romane a malapena contenuti dal peplo, lui fulmineo copriva il proiettore con la mano e intimava d’interrompere la proiezione. Poi ordinava all’istante di avanzare i fotogrammi scandalosi, passando bruscamente alla scena successiva. L’operazione, per la collaudata capacità dell’addetto, durava pochi minuti. Se si prolungava, qualcuno in platea iniziava a rumoreggiare scontento. Allora s’accendevano le luci, e, immediatamente, l’Arciprete si catapultava come una furia giù per la scala di legno del gabbiotto. In un attimo arrivava in platea - all’epicentro esatto dei tumulti. Scagliato contro i contestatori, cominciava a mulinare le lunghe braccia, dispensando all’impazzata pesanti schiaffoni. L’irruenza del fisico imponente, e il "metus reverentialis" che il suo ruolo sprigionava su tutti, riuscivano sempre a sedare ogni accenno di malcontento.

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